*Cgil, un’occasione perduta*

di Vincenzo D’Anna*

Il vecchio Alessandro Dumas soleva dire che tra un malvagio ed un cretino è da preferire il primo perché questi ogni tanto si riposa. I cretini, si sa, sono in continua attività e credono in tutte le idee che hanno. Di questi tempi si sono moltiplicati a dismisura!! Tutta colpa dell’avvento della società digitale, quella che si esprime e si forma un’opinione attraverso la rete social (al riparo di una tastiera): un’autentica, moderna pietra filosofale in grado di trasformare il piombo dell’ignoranza e del qualunquismo in oro, nella supponenza di poter capire e discutere senza alcuna remora o conoscenza!! E’ questo il contesto nel quale le idee si plasmano e si diffondono, virali e veloci, sfruttando i mille rivoli del web dove diventano (anche) verità assoluta. Quel contesto non è solo uno strumento auto referenziale per sfoggiare sicumera, ma anche la sede opportuna per far rivivere e riaccreditare concetti ed idee consunti e respinti ormai da tempo dalla storia dell’umanità. E’ questo il caso dei rigurgiti marxisti, di quelle idee, cioè, che caratterizzarono una larga parte del secolo scorso, gravide di tragedie umane, di promesse di paradisi in terra rivelatisi, poi, alla prova dei fatti, più che rispettabili inferni per milioni e milioni di persone. E tuttavia quella stessa favola che potesse esistere una società perfetta, creata forzosamente sull’eguaglianza degli esiti di ciascuna vita umana e non sulle opportunità e sulle libertà, è stata da tempo archiviata. Così come in soffitta è finita l’idea che lo Stato dovesse essere onnipotente ed onnipresente, gestore di monopoli, imprenditore scellerato ma privilegiato al tempo stesso. Ricordate la “fronda” dei delegati Cgil che, in segno di protesta, lo scorso 17 marzo, ha lasciato l’aula in cui si stava celebrando il XIX congresso nazionale del loro sindacato quando, sul palco, è salita Giorgia Meloni? Bene: a chi fossero rivolti quei loro “pugni chiusi” lo si è capito. Quello che, invece, non è apparso del tutto chiaro è a chi, semmai, appartenessero. Il capitalismo avanzato, si sa, ha trasformato i proletari in piccoli borghesi, possessori di beni, piccoli proprietari, risparmiatori, utilizzatori di servizi e di diverse tutele socio-sanitarie. Molti dei protestatari potrebbero essere, ad esempio, pubblici impiegati che appartengono addirittura a quei privilegiati che beneficiano e sfruttano le molte conquiste dello stesso sindacato. Ecco, forse quei pugni appartenevano a gente che oggi gode di agevolazioni e di stipendi mai parametrati alla loro effettiva produttività, intoccabili e al riparo da sanzioni e licenziamenti. Insomma: in quel consesso non era solo farlocca l’accusa di “Fascismo” mossa contro la premier, ma finanche l’anti-fascismo sbandierato dagli stessi “protestatari”, frutto di un immotivato rancore, di un inveterato pregiudizio, di un vecchio rituale posto in mano ad esibizionisti privi del senso della realtà. In parole povere: stiamo parlando di reazionari che si sentono rivoluzionari solo perché alzano il pugno e cantano “bella ciao”, griffati ed equipaggiati di tutto punto, come di chi è solito scambiare la lotta di classe per un evento, un corteo solo per darsi un tono di emancipata diversità. Eppure quei compagni avevano innanzi agli occhi una donna che era venuta ad affrontare, in un ambiente ostile, i propri antagonisti politici, superando d’amblè ogni remora ed ogni stereotipo (era da 27 anni che un presidente del Consiglio non si presentava a un congresso della Cgil!!), creando un precedente che onora la politica ed il sindacato dei lavoratori. Se innanzi a questa apertura dialettica, diretta e pragmatica, la risposta si è limitata a rilanciare l’incomunicabilità ideologica, ecco che la Meloni diventa un Alcide De Gasperi ed i protestatari dei trinariciuti comunisti usciti dal “Candido” di Giovannino Guareschi. Insomma vengono a crearsi le stesse condizioni politiche per proferire, come fece lo statista trentino alla conferenza di pace di Parigi il 10 giugno 1946, da primo ministro di una nazione uscita sconfitta dalla guerra, le stesse identiche parole: “Sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me”. L’Italia, sempre più in braghe di tela, travolta dai debiti, pur nella sua eterna transizione verso la modernità, in cerca di un approdo liberale che favorisca il confronto e l’intesa tra i diversi, merita di dover rivivere una stagione di concordia consapevole, tra governo e forze del lavoro, per uscire dalla palude della crisi economica. Il punto dolente è: scegliere il taglio delle tasse su lavoro e pensioni oppure continuare con la politica assistenziale, inutile e dannosa come il salario minimo. Meglio incentivare l’impresa che crea ricchezza e lavoro oppure allargare i cordoni della borsa per “aumentare” la rete di protezione sociale? Un liberale non può che optare per la prima ipotesi. Quella, cioè, che crea occupazione attraverso gli investimenti, la concorrenza, la qualità, i meriti e le capacità. Tutte categorie, queste ultime, ormai inesistenti, sommerse dal pauperismo, dal clientelismo e dallo statalismo. Allargare, invece i redditi senza lavoro, significherebbe affidare i giovani al parassitismo sociale e lo Stato al solito ruolo di elemosiniere. Questo è quello che avremmo voluto ascoltare quel giorno dagli “indignati” della Cgil al posto del solito canto carnascialesco…

*già parlamentare

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