1956 – Antonio Di Bernardo tentò di uccidere Luigi Diana in San Cipriano d’Aversa – Condannato dalla Corte di assise morì nel carcere prima del giudizio di appello  – di Ferdinando Terlizzi

 

Verso le ore 18:00 del 6 luglio del 1956 l’appuntato dei carabinieri Cosimo Leopardi e il carabiniere Pasquale Papagno, mentre si trattenevano nella piazza Guglielmo Marcone di San Cipriano d’Aversa insieme all’insegnante Nicola Caterino udirono l’esplosione di alcuni colpi di arma da fuoco e contemporaneamente notarono Luigi Diana impegnato, a breve distanza da loro, in una violenta colluttazione con Antonio Di Bernardo per far deviare i colpi di una pistola che costui stringeva nella mano destra. I militari, prontamente intervenuti mentre continuavano ancora il fuoco, riuscirono non senza sforzi  a strappare al Di Bernardo l’arma, una pistola automatica calibro 7,65 ancora carica con  due cartucce di cui una in camera di scoppio e a trarlo in arresto. Nel corso delle indagini, tempestivamente espletate, furono repertati sul posto quattro bossoli di cartucce per pistola automatica calibro 7/ 65, un proiettile dello stesso calibro ed una scheggia di proiettile. Da quanto dichiarato dal Luigi Diana e dalle deposizioni di: Nicola Caterino, Giuseppe Pagano, Armando CoppolaGiuseppe Capoluongo,  inoltre risultò qui Di Bernardo aveva chiamato il Luigi Diana il quale si tratteneva in un bar sito nella a Piazza affermando di dovergli parlare; che i due si erano allontanati di circa dieci metri  dalla porta del locale quando improvvisamente il Di Bernardo aveva afferrato l’altro con la mano sinistra alla spalla destra, ed estratto contemporaneamente una pistola dalla cinta dei pantaloni aveva aperto il fuoco contro di lui. Che i primi due colpi avevano forato la maglia indossata dal Diana – rimasto però incolume – nella parte anteriore all’altezza dell’addome e alla manica sinistra e indi l’aggredito aveva prontamente reagito colluttando con lo sparatore ed afferrandogli il braccio destro ed era così riuscito a fare andare a vuoto  altri tre colpi sparati dal Di Bernardo. Nulla di preciso emerse invece circa la causale dell’azione compiuta dal Di Bernardo. I  presenti al fatto dichiararono di non essere in grado di dare indicazioni in proposito e solo Luigi  Diana avanzò l’ipotesi che il Di Bernardo si fosse indotto ad aggredirlo perché, avendo reso una falsa deposizione in un procedimento penale in corso contro di lui, suo zio Fausto Del Villano ed altri per lesioni ed altri reati in danno del segretario comunale avvocato Luigi Grassia, temeva una reazione violenta da parte sua e dei suoi familiari.  Al Di Bernardo subito dopo l’arresto vennero riscontrate contusioni, abrasioni ed altre lievi  lesioni al viso io alla spalla sinistra. Egli dichiarò hai verbalizzanti che era stato Luigi Diana ad avventurarsi insieme al fratello Mario, contro di lui, che la pistola era di  Luigi Diana che costui gli aveva escluso contro numerosi colpi che egli era riuscito ad evitare impegnando la colluttazione. Contestatogli  però che la pistola sequestrata risultava di sua proprietà, da lui regolarmente denunciata, cambiò versione precisando che, assalito dai Diana, aveva fatto fuoco in aria per farli allontanare. A seguito di tali risultanze – oggetto di rapporto dei carabinieri di Casal di Principe in data 8 luglio 56 – si procedeva a carico del Di Bernardo col rito formale in ordine ai reati di tentato omicidio e di porto abusivo di pistola emettendosi mandato di cattura. Il predetto negli interrogatori resi al Magistrato raccontava che i fratelli Diana di Paolo,  i quali pretendevano  di “spogliare” lo avvocato Grassia del possesso di un suo terreno, nutrivano odio contro di lui perché ritenevano che egli fosse molto amico del Grassia e lo istigasse a resistere alle loro pressioni. Aggiungeva che vi era stata anche un’aggressione dei Diana contro il Grassia e che egli, “benché diffidato dai Diana con minacce di morte affinchè si astenne dal deporre” aveva reso regolarmente la sua deposizione nel procedimento penale relativo all’episodio suddetto. In merito poi al fatto per cui è processo riferiva che la sera del 6 luglio 56 passando per la piazza di San Cipriano chiese al Luigi Diana,  che era seduto presso il bar, di passargli una sedia ma il Diana si alzò e fece il gesto di estrarre la propria pistola; vi fu poi  una colluttazione nel corso della quale dalla sua arma partirono dei colpi diretti verso l’alto. Indi intervennero i carabinieri ed egli venne malmenato e ferito da Mario Diana e da un cugino dello stesso Luigi Diana mentre Luigi Diana (di Paolo) con abile passamano faceva scomparire la propria pistola. Il Di Bernardo inoltre in data 7 settembre 1956 sporgeva querela contro i responsabili delle lesioni da lui subite (che dalla perizia medica risultarono guarite in giorni 20) e successivamente precisava che aveva inteso querelare Luigi Diana di Paolo, Mario Diana di Paolo  e Luigi Diana fu Domenico e per quanto riguarda la precisazione dei fatti addebitatigli si riportava agli interrogatori già resi.  Luigi Diana e i testi già escussi in sede di indagini confermavano le loro prime dichiarazioni; Giuseppe Capoluongo però aggiungeva che il predetto Diana quando si allontanò con il De Bernardo dal bar, disse: “Io non so niente”, in risposta ad una domanda di questo ultimo che fu possibile percepire.

L’avvocato Carlo Cipullo del collegio difensivo con Ciro Maffuccini

In dibattimento la difesa del Di Bernardo chiese  che fosse sottoposto a perizia psichiatrica ma la Corte rigettò l’istanza.

Luigi Diana costituitosi parte civile, dichiarava che il Di Bernardo durante la colluttazione tentò di liberarsi e di dirigere l’arma in modo da colpirlo, e che era stato lui a produrre allo stesso tutte le lesioni riscontrategli. I testi appuntato Armando Leopardi Coppola  e Giuseppe Capoluongo escludevano che l’imputato fosse stato percosso da Mario Diana e gli ultimi due affermavano anche che Luigi Diana intervenne per sostenere il De Bernardo ad aggressione iniziata. Il Capoluongo riferiva altresì che alcuni giorni dopo il fatto Luigi Diana gli disse che il prevenuto gli aveva contestato di frapporre  ostacoli a che il Grassia realizzasse la vendita di un suo terreno ed alla sua risposta “di non sapere nulla” aveva estratta la pistola e fatto fuoco. Terminata l’assunzione delle prove, veniva contestato all’imputato la recidiva specifica per il tentato omicidio il recidiva generica per gli altri reati nonchè la continuazione per il reato di calunnia. Il difensore della parte civile concludeva per la condanna al risarcimento dei danni. Il pubblico ministero da parte sua chiedeva che l’imputato fosse condannato per il reato ascrittogli alla pena complessiva di anni 10 di reclusione e mesi quattro di arresto. I difensori dell’imputato chiedevano a loro volta che lo stesso fosse dichiarato “non punibile per il tentato omicidio per avere agito in stato di legittima difesa” e in subordine che fosse pronunciata condanna, anziché “per il delitto di tentato omicidio, per il delitto di minaccia”, al minimo della pena con le attenuanti generiche e della provocazione; quanto al delitto di calunnia chiedevano “l’assoluzione perché il fatto non costituisce reato”  e in subordine la condanna al minimo della pena con le attenuanti generiche.   Di parere diverso, naturalmente,  la Corte che rintuzzò, tra l’altro:

“… La Corte rileva innanzitutto che non può condividersi il dubbio avanzato della difesa del prevenuto circa la imputabilità dello stesso. Mancano infatti indizi concreti che il Di Bernardo sia o sia stato affetto da infermità che abbiano potuto avere influenza per escludere o comunque diminuire la sua capacità di intendere e di volere nel momento in cui commise i fatti per i reati di cui è processo. E’ vero che dalla cartella clinica del manicomio giudiziario di Reggio Emilia risulta che egli venne ricoverato in quell’istituto con la diagnosi di demenza il 29 settembre del 1918, ma successivamente egli fu dichiarato guarito e d’altra parte non risulta che nel lungo periodo di tempo successivo al suo ricovero in manicomio si siano manifestati nuovi sintomi della malattia suddetta. Né poi possono autorizzare a nutrire sospetti circa la capacità mentale del prevenuto le circostanze che egli  – come rilevasi della cartella clinica, fu sifilitico durante la vita militare ed è figlio di genitori alcoolista e neurastenico. Non vi sono elementi che confortino l’ipotesi che la sifilide, anche essa rimontante ad epoca quanto mai remota, abbia aggredito i centri nervosi con ripercussioni sulla facoltà intellettive e volitive del Di Bernardo, e, quanto alla anamnesi familiare, questa, in mancanza di indizi circa la esistenza di una sintomatologia morbosa proprio dell’imputato, non è atta da sola a far desumere uno stato di minorata capacità di intendere di volere”. “Ciò premesso – stigmatizzarono ancora i giudici della Corte di assise –  va presa in esame la richiesta difensiva secondo cui l’imputato dovrebbe essere dichiarato “non punibile” in ordine al delitto di tentato omicidio “per avere agito in stato di legittima difesa”. Anche tale richiesta deve essere disattesa. Essa si basa sulla affermazione, fatta dal Di Bernardo in uno dei suoi interrogatori innanzi ai carabinieri, di essere stato aggredito dei fratelli Mario e Luigi Diana e di avere esplosi i colpi di pistola in aria per indurre gli aggressori ad allontanarsi, affermazione che però è smentita in pieno da contrastanti versioni dell’accaduto fornite dallo stesso imputato nel corso del giudizio. E’  chiaro che, ove l’episodio si fosse svolto così come raccontato dal Di Bernardo il predetto, non avendo interesse ad alterare la verità a lui favorevole avrebbe insistito in quella versione anche negli altri interrogatori. E invece immediatamente dopo l’arresto tentò addirittura di attribuire il possesso della sua pistola e gli spari a Luigi Diana e soltanto dopo che i carabinieri gli contestarono che la pistola risultava essere di sua proprietà finì col dire di essere stato lui a sparare per fare allontanare i due fratelli Diana che lo avevano assalito”.

 

Il processo con la condanna  ad anni 8 e mesi 4. I motivi di appello e la morte in carcere

“In istruttoria, infatti, ha precisato di essere stato aggredito soltanto da Luigi Diana di Paolo, il quale fece anche la mossa di estrarre un’arma, che nel corso della colluttazione seguita all’aggressione partirono chissà come, dei colpi dalla sua pistola che gli aveva impugnata per difendersi, e che soltanto dopo che gli era stato fermato dai carabinieri intervennero anche il Mario Diana e il cugino Luigi Diana fu Domenico, i quali lo percossero, mentre Luigi Diana di Paolo faceva scomparire la propria pistola. E in dibattimento infine ha di nuovo mutato tesi affermando di avere impugnata la pistola durante la colluttazione per disfarsene e che Luigi Diana non mise fuori alcuna arma. L’assurdità della tesi della legittima difesa è già evidente per la contraddittorietà delle versioni date dal Di Bernardo, è ulteriormente confermata dalle concordi deposizioni della parte lesa, dell’appuntato dei carabinieri Leopardi, del carabiniere Papagno ed agli altri testi che furono presenti al fatto. Da tali deposizioni  è emerso in maniera non dubbia che fu il Di Bernardo ad aggredire Luigi Diana di Paolo, che era inerme, dopo di averlo fatto allontanare dal bar per parlargli sparando all’improvviso con la pistola contro di lui, e che il Diana fu costretto ad impegnare la colluttazione al fine di deviare i colpi. Respinta la tesi della legittima difesa, va poi osservato che l’imputato ogì senza dubbio con volontà omicida. Che egli, invero, aggredendo Luigi Diana di Paolo si sia proposto il fine di ucciderlo e non già di ferire o minacciare soltanto è ampiamente dimostrato dalle modalità esteriori dell’azione, e in particolare dalle circostanze che egli esplose, contro la parte lesa, da vicino, dapprima due colpi di pistola in direzione di parti vitali del corpo sì da perforare la maglia in corrispondenza dell’addome oltre che del braccio destro, indi, durante la colluttazione, ma non inavvertitamente, a causa di questa bensì sempre tentando di mirare al corpo della vittima, altri tre colpi andati a vuoto, e infine insistette nel tentativo di sparare ancora sì che i carabinieri accorsi dovettero fargli forza per togliergli l’arma”. Essendo pertanto l’aggressione diretta a cagionare la morte del Diana e non potendosi d’altra parte contestare l’idoneità dell’azione a realizzare tale scopo, che non fu raggiunto soltanto per caso e per l’abilità e tempestiva reazione della vittima, va senz’altro affermata la responsabilità del Di Bernardo per il delitto di tentato omicidio. In ordine a tale delitto non compete al prevenuto la invocata attenuante della provocazione in quanto egli agì sì nello stato di ira determinato in lui dalle risposte evasive del Diana ma queste non possono qualificarsi fatto in giusto perché, a prescindere da ogni altra considerazione, il Diana non era affatto tenuto a dargli spiegazioni in merito ai suoi rapporti con il Grassia. Tuttavia l’avere il Di Bernardo agito per un improvviso impulso, nella convinzione di dover vendicare una ingiustizia che egli riteneva essere stata commessa ai danni di persona alla quale era devoto, è una circostanza che attenua indubbiamente l’entità del delitto onde è il caso di concedere le circostanze attenuanti generiche. Tenuto conto dei criteri indicati nell’articolo 133 ed in particolare delle modalità dei fatti e della personalità dell’imputato, stimasi infliggere per il tentato omicidio la pena gli anni sette mesi sei di reclusione, da ridursi per le attenuanti generiche ad anni cinque di reclusione da aumentarsi per la recidiva specifica ad anni sei di reclusione; per la calunnia  la pena di anni due di reclusione, da elevarsi per la recidiva generica da anni due e mesi quattro di reclusione.  Con sentenza del 28 novembre del 1957 la Corte di assise di Santa Maria Capua Vetere, composta dal presidente, Eduardo Cilento; dal giudice a latere, Guido Tavassi; pubblico ministero Nicola Damiani; e dai giudici popolari: Antonio Bologna, Ferdinando Benefico, Antimo Pozzi, Oreste Malasomma, Nicola Canzano e  Antonio Milza) condannò il Di Bernardo  ad anni 8 e mesi 4. In appello la difesa insistette per far sottoporre il Di Bernardo a perizia psichiatrica, invocò di nuovo una diversa configurazione del reato ( non già tentato omicidio bensì minaccia aggravata ); fu invocata nuovamente la legittima difesa, la provocazione, e l’assoluzione per il reato di calunnia. Ma ironia della sorte il Di Bernardo – mentre era in attesa del processo di appello – il 9 marzo del 1959  morì nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Gli avvocati impegnati nei processi furono Luigi Patroni Griffi, Carlo Cipullo, Vittorio Verzillo e Ciro Maffuccini .