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Il Covid-19 è una lente d’ingrandimento puntata su guasti da cui tendiamo a distrarci: un monito che può perfino migliorare la nostra comunità, a saperlo intendere. La nuova ondata di paura, che monta adesso con la variante indiana e le sue incognite, sale ad esempio da un allarme in apparenza abbastanza localizzato ma del quale potrebbe essere utile cogliere il senso generale, la lezione che sembra impartire a tutti coloro che si voltano dall’altra parte di fronte alle iniquità: come, in fondo, capita talvolta a ciascuno di noi. Nell’Agro Pontino, a un’ora di macchina da Roma, medici e protezione civile tentano di rintracciare alcune centinaia di sikh, appartenenti a una comunità di circa trentamila indiani ormai stanziali in quelle zone, quali possibili vettori umani del virus mutato.
Chi sono costoro e perché si trovano qui? Sono i lavoratori dei campi, quei miti omini barbuti dal turbante arancione che i vacanzieri di Sabaudia o del Circeo possono intravedere talvolta di scorcio, sudati e chini sulle zolle, passando in macchina accanto a un campo di pomodori o di zucchine nel tragitto verso la spiaggia delle famose dune care a Moravia e Pasolini. Sono, e sono stati, anche la fortuna della filiera agricola della provincia di Latina, perché costano nemmeno un terzo dei braccianti italiani, accampano zero diritti, si lasciano sfruttare assai facilmente.
Almeno cinquemila di loro sono irregolari, per via di permessi scaduti o mai neppure ottenuti. Tutti hanno sgobbato per anni in silenzio, chiamando «padrone» il signorotto italiano del campo, spesso imbottiti di anfetamine dai suoi sgherri per rendere al di là dell’umana resistenza: in tredici negli ultimi tre anni, non resistendo più, si sono suicidati. Se le parole hanno un senso, i sikh dell’Agro Pontino sono in buona parte schiavi, anche se non più invisibili come prima: perché da tempo un coraggioso sociologo del posto, Marco Omizzolo, li ha studiati, ha riempito denunce e dossier contro i caporali, e ha infine organizzato il loro primo sciopero, ricevendone in cambio un titolo di Cavaliere al merito dal presidente Mattarella e minacce di ritorsione dal sistema agromafioso (che, nota Eurispes, sviluppa su base nazionale un business da 25 miliardi di euro l’anno e governa a tutt’oggi la grama esistenza di circa 450 mila lavoratori e lavoratrici nelle campagne italiane). (Qui il commento completo)
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