Empatia e comunicazione di Bartolomeo Valentino*

L’Empatia può essere definita quella capacità di un uomo di porsi in sintonia con l’altro per affondare nei suoi sentimenti ed emozioni senza, tuttavia, lasciarsi coinvolgere.

Sintonizzarci con l’altro ci aiuta a comprendere il linguaggio del corpo dell’altro. In altre parole non è importante ciò che l’altro dice, ma come lo dice. Non è da considerarsi un linguaggio extraverbale vero e proprio, ma uno strumento che ci aiuta a comprendere altri linguaggi, quali la gestualità, soprattutto quella mimica. Vedremo, trattando della Morfopsicologia, come l’empatia è il chiavistello per meglio leggere il volto di una persona. Un rapporto empatico è uno strumento utilissimo per chi opera nell’ambito delle professioni di aiuto, ma, anche, nelle mani dei genitori per rapportarsi meglio ai loro figli. Secondo studiosi dei problemi dell’empatia si devono distinguere quattro componenti:

a-Trasparenza. L’interlocutore si deve convincere della trasparenza, lealtà di sentimenti dell’altro ,altrimenti si potrebbe chiudere in difesa.

b-Comprensione empatica

Ci si deve calare nei problemi dell’altro, ma non si deve essere condizionati da essi.

c-Accettazione incondizionata.

 Non si devono esprimere valutazioni approvando o disapprovando quanto dice l’altro.

d-Ascolto empatico. Bisogna aiutare l’altro ad autoesplorarsi.

La parola empatia  è un termine usato nella psicoanalisi, ma già presente nell’antica Grecia per creare un legame tra attori e pubblico. La scuola post-freudiana l’ha comunque valorizzato.

Freud, infatti, sosteneva che un medico nei confronti del suo paziente doveva essere neutrale, ossia freddo, senza essere impressionato e condizionato dalle sue emozioni. Gli psicoanalisti postfreudiani sostengono, invece, che bisogna cogliere queste emozioni per poter meglio esplorare la loro psiche. Mi piace riportare una celebre frase di Otto von Bismarck: ”chi ha guardato negli occhi un soldato morente (ovvero ha stabilito un rapporto empatico) rifletterà prima di intraprendere una nuova guerra”.

Quindi, se ci identifichiamo con l’altro in un rapporto empatico è difficile fargli del male. Chi fa del male non riesce a percepire le sofferenze dell’altro. Qualcuno chiese al dr Gustave M. Gilbert ,che aveva la funzione di assistere i criminali nazisti durante il processo di Norimberga, se si fosse fatta una propria idea sul male, ovvero perché quei criminali avevano torturato tante persone. La risposta fu questa: ”credo che la natura del male assoluto sia costituita dalla mancanza di empatia”.

Ma come può succedere che possiamo identificarci con un altro, specchiarsi in esso, meccanismo alla base della relazione empatica. Inoltre questo meccanismo è inserito nel codice genetico o è frutto delle diverse culture, dei diversi vissuti ed esperienze. La risposta la possiamo trovare nella scoperta dei Neuroni Specchio grazie al prof. G. Rizzolatti ed il suo gruppo dell’Università di Parma negli anni 90.

*Già Professore di Anatomia Umana – II Università di Napoli