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Equoreo e-quò-re-o SIGNIFICATO Del mare ETIMOLOGIA voce dotta recuperata dal latino aequoreus, da aequor ‘mare’. «La distesa equorea era di un colore stupefacente.»
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Equoreo
e-quò-re-o
SIGNIFICATO Del mare
ETIMOLOGIAvoce dotta recuperata dal latino aequoreus, da aequor ‘mare’.
«La distesa equorea era di un colore stupefacente.»
La lingua letteraria e poetica ha fama (non sempre falsa) di essere complessa e poco accessibile. Ma dopotutto, se cerchiamo un taglio di mondo inconsueto per profondità e significato, spesso è necessario. E però ci sono situazioni in cui al fondo del termine difficile si trova l’osservazione più ingenua, la percezione più schietta — di quella autenticità infantile che sa cogliere le corrispondenze originali del mondo. Sono parole alte, ma con una minima decifrazione si rivelano estremamente accessibili.
‘Equoreo’, anche se è un termine raro e dotto, ha un significato facilissimo, ad esempio. Significa ‘del mare, marino’. È stato recuperato come prestito dal latino in un momento di grande entusiasmo per i latinismi, il Cinquecento, e da allora è stato adottato con grande slancio in letteratura e in poesia. Ma perché? Solo perché è un sinonimo più ricercato?
Possiamo iniziare dal suono, con un confronto eloquente. ‘Marino’ è stretto e rapido, argentino, arrotato. ‘Equoreo’ è largo e lento, scuro, liquido (quel suono ‘qu’ lo avvicina all’acqua). Ma possiamo continuare notando come ‘marino’ sia un termine che nella vastità della lingua già-parlata si lega a una quantità di figure, situazioni, modi di dire consumati che si porta inevitabilmente dietro. Acque, fondali, correnti marine, odori, colori, brezze marine, poteri, climi, mostri marini, lidi ed antri ed alghe marine, e sale, divinità, marinai. L’equoreo è più da scrivere. Non ha trascorsi comuni a cui legarsi, e si ritrova a poter descrivere quello che crede in maniera più affascinante, più incantata, più libera e schietta. Libertà e schiettezza che troviamo anche nel suo etimo.
Aequoreus è un termine (già poetico, già letterario in latino) che indica il marino. È un derivato di aequor, che vuol dire anche ‘mare’, ma che ha il significato più ampio di ‘superficie piana, pianura’. Prima di concentrarci su questa meraviglia (con quella voluttà per cui nella stanza del museo guardiamo prima le altre opere e poi, al suo momento, quella che volevamo vedere) notiamo che questo aequor è un derivato di un termine latino che ha avuto una discendenza di grande importanza: aequus, da cui nasce il nostro ‘equo’.
Aequus indica le qualità del giusto, del retto, dell’imparziale, ma lo fa con una poesia formidabile a partire dai significati di ‘piano’, e perciò ‘pari’, e perciò ‘uguale’ (altro figlio di aequus, peraltro). Dal concetto di orizzontale paesaggistico, che si spalanca come panorama davanti ad avi ed ave di tempi remoti, scaturisce il referente originario del più prezioso e complesso tratto della giustizia. (Va bene, anche questo è un capolavoro di poesia.) D’altro canto l’equoreo conserva intatto lo stupore del contrasto fra una terra tutta picchi e balze che scoscendono e la vastità pianeggiante del mare. Ed è uno stupore precisamente legato a queste nostre terre: aequus non ha un’etimologia precedente nota, e sono gli stessi panorami che continuiamo ad ammirare noi, la stessa difficoltà con cui dalla roccia si scende faticosamente alla caletta per la pace del mare, ad aver ispirato l’idea dell’equoreo come marino.
Così, se vogliamo, possiamo raccontare delle creature equoree che abbiamo ammirato durante le immersioni, della città equorea che ci strega con la sua bizzarra vita anfibia, della vita equorea che ci rasserena e asciuga. Ma l’equoreo si può applicare anche alla luce, nella misura in cui la possiamo concepire come liquida, e quindi incerta, diafana: possiamo parlare della luce equorea della luna, della luce equorea che entra dalle finestre, della luce equorea delle vetrine.
È bello avere declinazioni del semplice che siano così ricche.
La lingua letteraria e poetica ha fama (non sempre falsa) di essere complessa e poco accessibile. Ma dopotutto, se cerchiamo un taglio di mondo inconsueto per profondità e significato, spesso è necessario. E però ci sono situazioni in cui al fondo del termine difficile si trova l’osservazione più ingenua, la percezione più schietta — di quella autenticità infantile che sa cogliere le corrispondenze originali del mondo. Sono parole alte, ma con una minima decifrazione si rivelano estremamente accessibili.
‘Equoreo’, anche se è un termine raro e dotto, ha un significato facilissimo, ad esempio. Significa ‘del mare, marino’. È stato recuperato come prestito dal latino in un momento di grande entusiasmo per i latinismi, il Cinquecento, e da allora è stato adottato con grande slancio in letteratura e in poesia. Ma perché? Solo perché è un sinonimo più ricercato?
Possiamo iniziare dal suono, con un confronto eloquente. ‘Marino’ è stretto e rapido, argentino, arrotato. ‘Equoreo’ è largo e lento, scuro, liquido (quel suono ‘qu’ lo avvicina all’acqua). Ma possiamo continuare notando come ‘marino’ sia un termine che nella vastità della lingua già-parlata si lega a una quantità di figure, situazioni, modi di dire consumati che si porta inevitabilmente dietro. Acque, fondali, correnti marine, odori, colori, brezze marine, poteri, climi, mostri marini, lidi ed antri ed alghe marine, e sale, divinità, marinai. L’equoreo è più da scrivere. Non ha trascorsi comuni a cui legarsi, e si ritrova a poter descrivere quello che crede in maniera più affascinante, più incantata, più libera e schietta. Libertà e schiettezza che troviamo anche nel suo etimo.
Aequoreus è un termine (già poetico, già letterario in latino) che indica il marino. È un derivato di aequor, che vuol dire anche ‘mare’, ma che ha il significato più ampio di ‘superficie piana, pianura’. Prima di concentrarci su questa meraviglia (con quella voluttà per cui nella stanza del museo guardiamo prima le altre opere e poi, al suo momento, quella che volevamo vedere) notiamo che questo aequor è un derivato di un termine latino che ha avuto una discendenza di grande importanza: aequus, da cui nasce il nostro ‘equo’.
Aequus indica le qualità del giusto, del retto, dell’imparziale, ma lo fa con una poesia formidabile a partire dai significati di ‘piano’, e perciò ‘pari’, e perciò ‘uguale’ (altro figlio di aequus, peraltro). Dal concetto di orizzontale paesaggistico, che si spalanca come panorama davanti ad avi ed ave di tempi remoti, scaturisce il referente originario del più prezioso e complesso tratto della giustizia. (Va bene, anche questo è un capolavoro di poesia.) D’altro canto l’equoreo conserva intatto lo stupore del contrasto fra una terra tutta picchi e balze che scoscendono e la vastità pianeggiante del mare. Ed è uno stupore precisamente legato a queste nostre terre: aequus non ha un’etimologia precedente nota, e sono gli stessi panorami che continuiamo ad ammirare noi, la stessa difficoltà con cui dalla roccia si scende faticosamente alla caletta per la pace del mare, ad aver ispirato l’idea dell’equoreo come marino.
Così, se vogliamo, possiamo raccontare delle creature equoree che abbiamo ammirato durante le immersioni, della città equorea che ci strega con la sua bizzarra vita anfibia, della vita equorea che ci rasserena e asciuga. Ma l’equoreo si può applicare anche alla luce, nella misura in cui la possiamo concepire come liquida, e quindi incerta, diafana: possiamo parlare della luce equorea della luna, della luce equorea che entra dalle finestre, della luce equorea delle vetrine.
È bello avere declinazioni del semplice che siano così ricche.
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