di Errico Novi

Il Dubbio, 8 dicembre 2023

L’Avvocatura dello Stato ha trasmesso alla Corte europea dei Diritti umani, lo scorso 30 novembre, le risposte ai quesiti posti dai giudici di Strasburgo nell’ambito del ricorso proposto dai Cavallotti, gli imprenditori che, pur assolti dalle accuse di mafia, hanno visto confiscati tutti i loro beni. Nelle argomentazioni italiane viene rivendicato un principio abominevole.

In limine mortis. Il 30 novembre lo Stato italiano, attraverso la propria Avvocatura, ha risposto ai quesiti della Corte di Strasburgo relativi agli abusi antimafia. Vogliamo essere precisi: la replica riguarda una causa, generata dal ricorso (numero 29614/16) dei fratelli Cavallotti alla Cedu. E ancora più precisamente: lo Stato italiano era stato chiamato dai giudici europei a spiegare, nell’ambito della causa, se la confisca ai danni di Salvatore Vito, Gaetano e Vincenzo Cavallotti fosse compatibile con la presunzione d’innocenza, considerato che quella spoliazione era stata inflitta nonostante i tre imprenditori palermitani fossero stati assolti con formula piena, nel processo penale, dall’accusa di 416 bis.

In limine mortis, si è detto. In due sensi. Primo: il 30 novembre era l’ultimo giorno che lo Stato italiano aveva a disposizione per replicare agli interrogativi rivoltigli, in seguito al ricorso, dal giudice europeo, dopo che l’Avvocatura di Roma aveva chiesto di prorogare il termine iniziale del 13 novembre. Secondo: in limine mortis anche nel senso che la fragilità delle risposte esibite dallo Stato italiano lascia intravede un esito favorevole ai ricorrenti e, forse, la “morte”, l’inizio delle fine, per un sistema indegno. In virtù dell’eccezionalismo antimafia, quel sistema punisce, con spregio del diritto, le persone innocenti.

Forse la possibile vittoria dei Cavallotti nella causa contro lo Stato, la possibile affermazione, da parte della Cedu, del principio per cui i tre fratelli di Belmonte Mezzagno, dichiarati pienamente innocenti nel processo penale, non avrebbero dovuto vedere i loro beni confiscati, travolgerà l’intero abominio delle confische far west. E forse la pronuncia europea interverrà prima ancora che il Parlamento italiano arrivi ad approvare la legge concepita con lo stesso fine – salvare gli innocenti – e messa in calendario a Montecitorio su iniziativa di Forza Italia.

Ma quel che potrà accadere tra qualche mese, quando la Corte di Strasburgo emetterà la propria sentenza sul ricorso Cavallotti, resta ovviamente materia per aruspici. Qui interessa altro. E cioè il modo, le argomentazioni con cui l’Avvocatura dello Stato difende gli abusi dell’Antimafia. Argomentazioni che, come detto, sono fragili. Seppure legato alla necessità di motivare scelte compiute da altri (prima dal legislatore e quindi dai singoli magistrati), il filo logico proposto dall’Italia dinanzi ai giudici europei è al limite della provocazione intellettuale.

Così lo Stato ha difeso gli abusi dell’antimafia

Di fatto, l’Avvocatura dello Stato ha difeso il principio per cui una persona innocente andrebbe spogliata di tutto perché divenuta vittima dell’estorsione mafiosa. Una sorta di scenario da Superfantozzi: i Cavallotti hanno visto i loro beni confiscati (con la decisione resa definitiva dalla Cassazione il 12 novembre 2015, sentenza numero 4305) perché avevano pagato il pizzo a Bernardo Provenzano e al capomandamento di Belmonte Mezzagno. Prima sono stati spremuti da Cosa nostra e poi, in virtù di questo, depredati di ogni cosa dallo Stato. Incredibile.

È incredibile che lo Stato italiano, pur con le argomentazioni sofisticate dei propri avvocati, difenda un principio così abnorme. Forse è un’autodenuncia che prepara il ravvedimento operoso in arrivo con la riforma del Parlamento. Fatto sta che la difesa dei fratelli Cavallotti avrà tempo fino al 18 gennaio prossimo per controdedurre le argomentazioni dell’Avvocatura pubblica. Poi toccherà alla Corte europea dei Diritti umani.

Gli interrogativi rivolti da Strasburgo erano tre. Il primo è decisivo. In sintesi, la Corte europea dei Diritti dell’uomo ha voluto chiedere all’Italia, prima di emettere la sentenza, se ritenga compatibile con la presunzione d’innocenza una confisca inflitta a persone già precedentemente assolte, per gli stessi fatti, in un processo penale. Ebbene, l’Avvocatura dello Stato ha replicato che sì, la presunzione d’innocenza non è affatto contraddetta, perché le misure di prevenzione, dunque pure le confische ai Cavallotti, non sono inflitte in virtù di un reato, cioè per la sussistenza dell’associazione mafiosa. Derivano piuttosto da quella che nella memoria dell’Avvocatura è qualificata come “appartenenza” o anche “contiguità funzionale”. Circostanza che non è reato, non poteva dunque essere oggetto di un processo, e quindi non se ne può essere “innocenti”.

Un dribbling alla Garrincha, o un sofismo alla Protagora, se preferite: in termini più brutali, un artifizio dialettico. Con una sfumatura ai limiti del sadismo: perché quel concetto di “appartenenza”, poco più avanti nella memoria dello Stato italiano, si sostanzia in termini di assoggettamento alle prevaricazioni di Cosa nostra, cioè all’imposizione del pizzo mafioso. Nello sviluppo delle memorie, gli avvocati dello Stato ricordano i pizzini di Bernardo Provenzano, le rimembranze di Giovanni Brusca, le testimonianze di Angelo Siino al processo penale che ha visto assolti i Cavallotti: tutti passaggi in cui si invoca la “messa a posto”, cioè la spremitura, delle aziende poi confiscate agli imprenditori palermitani, all’epoca (seconda metà degli anni Novanta) veri leader non solo siciliani nel settore della metanizzazione. In alcun modo l’Avvocatura ha potuto sottoporre alla Corte dei Diritti dell’uomo elementi che attestassero un’appartenenza dei Cavallotti alla mafia, né in termini di “partecipazione” e neppure in quanto strumento con cui i boss realizzavano i loro affari. Semplicemente, emerge l’esazione del pizzo ai danni dei tre fratelli. Non a caso assolti, per gli stessi identici fatti richiamati dall’Avvocatura dello Stato, con formula piena nel processo penale il 4 febbraio 2016.

E qui il (corto) circuito logico dell’Avvocatura prova a chiudersi: la “confisca preventiva”, si afferma, non è “punitiva” ma “preventiva e riparatoria”. Quindi: sono innocenti, e non potevamo punirli. Perché per lo Stato italiano, privare tre imprenditori dei loro beni, delle loro aziende, financo della casa in cui abitavano, è servito a evitare che la mafia potesse approfittarsi di loro, ma non è una punizione, no, per carità. Ecco il sofisma con cui ci siamo presentati alla Corte dei Diritti umani. Che dovrà decidere se, a furia di giocare con le parole, l’Italia non abbia giocato con la dignità.

FONTE:

 

di Valentina St a quando la confisca è intervenuta. È un diritto extra- penale in cui non esiste, tra l’altro, il concetto di prescrizione?

Il hoverno italiano ha nuovamente affermato che al di là dell’assoluzione dal reato di partecipazione ad associazione mafiosa, residuerebbe una condotta riferibile alla cosiddetta appartenenza, qualificabile in termini di pericolosità idonea a legittimare la confisca del patrimonio nel caso di beni di dubbia provenienza. Si continua, in altri termini, a percorrere un terreno manifestamente estraneo ai requisiti di tipicità e determinatezza della fattispecie, laddove la cosiddetta appartenenza si sostanzia in una sorta di colpa d’autore, che dovrebbe essere ripudiata da un moderno ordinamento giuridico democratico. Risulta evidente che la prevedibilità di ciò che è capace di integrare la pericolosità sociale incide negativamente anche sul principio di uguaglianza dei cittadini davanti alla legge, in quanto risulta amplissimo il margine di discrezionalità lasciato all’autorità di prevenzione. Con questo sistema il cittadino non può mai stare tranquillo, neanche dopo la morte: nulla a che vedere con il diritto e con lo Stato di diritto.

Lo Stato non si sforza più di tanto di spiegare come sia possibile confiscare beni ad un innocente. Che ne pensa?

In verità viene semplicemente ribadito il fumoso concetto di appartenenza che si collocherebbe tra la colpevolezza e l’innocenza, quale presupposto per l’applicazione della misura di prevenzione con confisca dell’intero patrimonio. I chiarimenti che la Cedu aveva richiesto al governo italiano sul caso Cavallotti sintetizzavano quella sostanziale contrarietà che, da sempre, le Camere penali esprimono nei confronti del procedimento di prevenzione, che ha del tutto abbandonato la propria vocazione di contrasto delle fonti di pericolo, rappresentando ormai un sistema punitivo fondato sulla repressione di stati soggettivi di pericolosità ricostruiti su base inquisitoria e svincolata dalle garanzie. La reale natura penale della confisca, ove riconosciuta dalla Cedu, impedirebbe l’applicazione della misura della confisca in assenza dell’accertamento di un reato. Le questioni rimaste aperte nelle risposte del governo italiano, in linea generale, potrebbero essere superate dalla proposta di legge Pittalis che, in luogo della categoria degli indiziati di appartenere alle associazioni di cui all’art. 416 bis c. p. prevede quella degli indiziati del reato di cui all’art. 416 bis c. p., con l’ulteriore precisazione che i predetti indizi dovranno essere gravi, precisi e concordanti. Scomparirebbe, così, la maschera della cosiddetta appartenenza.

Rispetto alla natura delle confische, lo Stato, nel caso dei Cavallotti, arriva incredibilmente a sostenere che una persona può essere annientata due volte: la prima quando paga il pizzo e la seconda quando i beni gli vengono confiscati perché paga il pizzo. Non le sembra una teoria giuridica ai limiti del sadismo?

La prevenzione si è oramai trasformata in un autonomo e spietato sistema punitivo che si è andato affiancando a quello penale, divenendo uno strumento repressivo e punitivo privilegiato proprio perché svincolato delle garanzie tipiche del sistema penale. Il sistema di prevenzione non è infatti bilanciato da alcuna garanzia, come ad esempio un autonomo procedimento di formazione della prova, per cui il sistema è del tutto sbilanciato sugli accenti inquisitori e di polizia. Accenti che hanno travolto anche le misure patrimoniali non destinate alla confisca, con effetti altrettanto devastanti sul circuito del mercato legale: in tal modo, abbandonando la logica recuperatoria che dovrebbe ispirare tali misure, si certifica molto spesso la morte aziendale dell’imprenditoria sana, che si trova esposta, da un lato, alle intemperanze della criminalità e, dall’altro, alla incapacità dello Stato di offrire concrete vie d’uscita e programmi di bonifica dall’inquinamento mafioso. Proprio quello che è accaduto nella vicenda Cavallotti: lo Stato persevera nel voler condannare un individuo dichiarato innocente che doveva invece essere protetto dalla pervicacia della criminalità organizzata.

C’è in questa legislatura un certo atteggiamento timoroso verso la magistratura antimafia, emerso quando è stato approvato un decreto per “rimediare” a una sentenza della Cassazione sulle intercettazioni, ma anche sull’ergastolo ostativo. Come giudica questa sudditanza?

La debolezza della politica è divenuta nel nostro Paese una caratteristica che segna l’intera storia della politica giudiziaria degli ultimi trent’anni, sempre più connotata dall’egemonia delle Procure, antimafia e non. Basti ricordare l’atto fondante di tale squilibrio: nel 1994, in piena tangentopoli, i pm del pool di Mani pulite affondarono un decreto del governo presentandosi a favore di telecamere e minacciando di dimettersi da quel ruolo. La condizione di subalternità della politica alla magistratura è un evidente vulnus per l’intero assetto istituzionale, perché nessuno ha il coraggio o si assume la responsabilità di quelle vere e radicali riforme delle quali la giustizia di questo Paese ha invece un urgente bisogno: dalla restituzione del processo al suo modello accusatorio, alla riforma dell’ordinamento giurisdizionale, che passano entrambi dalla fondamentale riforma della separazione delle carriere.

La sudditanza si coglie pure nella scelta di prevedere un taglio risibile dei magistrati fuori ruolo…

Qui si tocca un passaggio esemplare di questo scompenso fra i poteri. La limitazione del numero dei magistrati fuori ruolo operata dalla riforma dell’ordinamento è evidentemente risibile in quanto non incide che di 20 unità la somma delle presenze all’interno dei ministeri, che sono dieci volte tanto. Non a caso si tratta di una norma scritta da una Commissione di magistrati che non avrebbe potuto seriamente incidere sulla sua stessa rilevanza politica, perché il ruolo dei magistrati all’interno dei ministeri è inevitabilmente di natura politica: anche la tecnica in una norma che tocca il processo penale assume in ogni caso un formidabile contenuto politico.

Si rischia così di compromettere anche la riforma sulla separazione delle carriere?

La vedo diversamente. Mi sembra che la presenza dei fuori ruolo nel ministero e il ritardo nell’attuazione della riforma costituzionale della separazione delle carriere siano entrambe conseguenza di quella stessa situazione di profonda crisi sistemica che favorisce le legislazioni compulsive, da slot machine, di nuovi crimini e nuove pene, che stravolgono i principi cardine del diritto penale liberale, e stenta invece a porre in essere quelle riforme radicali di ampio respiro che sole potrebbero restituire legittimazione al giudice e credibilità alla giurisdizione.

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