*Il compito storico della Meloni*

di Vincenzo D’Anna*

I politici guardano al presente, gli statisti anche al futuro. Questo l’epitaffio che ciascun governante che si rispetti, dovrebbe ricordare ogni giorno nel mentre assolve ai propri compiti, per essere indomito alla mediocrità. Nella lunga storia dei governi che si sono succeduti alla guida del Belpaese, dal secondo  dopoguerra in poi, sono rarissimi i nomi di coloro i quali hanno lasciato una traccia significativa del proprio operato, che non si sia esaurita nella cura delle sole cose contingenti. A ben vedere il fenomeno non trova origine solamente nella precarietà degli esecutivi e nei limiti angusti entro i quali essi hanno potuto operare, quanto nel fatto che la maggior parte di questi ha preferito tirare a campare senza mai affrontare le questioni di fondo entro le quali si trovava ad operare. Da parlamentare ho sempre chiesto a ciascuno dei  presidenti del Consiglio, venuti a chiedere la fiducia delle Camere, quale fosse il modello socio economico di riferimento al quale si sarebbe attenuto per governare. In parole povere se avessimo finalmente abbandonato l’ambiguità e la contraddizione di dichiararci liberali e di agire però, come socialisti e, ancora, se le riforme (che tutti i premier promettevano) avessero sciolto il nodo gordiano della struttura dello Stato ed i mille compromessi della gestione monopolistica con la quale si gestiva, in perdita, la maggior parte dei servizi pubblici e dell’apparato industriale della nazione. Insomma: se fosse venuta finalmente l’ora di superare l’ambiguità di fondo su cui poggia un sistema statale cripto socialista spacciato  per liberale e se, con questo, fosse finita l’epoca di governare utilizzando la leva della spesa pubblica  a debito crescente incidendo  e riducendo il bubbone del debito statale. Nessuno ebbe mai a fare cenno di risposta ed il dibattito, ineluttabilmente, finì sulle questioni solite e le polemiche stereotipate tra maggioranza ed opposizione. D’altronde non conveniva a nessuno impegnarsi in una risposta che avrebbe presupposto una scelta chiara e forse troppo impegnativa per il futuro, una rivoluzione epocale difficile da affrontare. Ed è così che ci siamo trascinati fino ad oggi con governi che presumevano di agire meglio di quelli che li avevano preceduti in un contesto di scelte di sistema immutate ed immutabili, affidandosi  all’italico “Stellone” portafortuna. Ma andiamo oltre nel ragionamento e chiediamoci perché nessuno abbia mai realmente messo mano ad una radicale riforma economica ed, in seguito, della struttura stessa dello Stato. Quest’ultimo figlio di quel compromesso costituzionale tra forze social comuniste e cattolico-liberali che vararono, è bene ribadirlo, una Costituzione ibrida e per certi versi anfotera, capace, cioè, di realizzare una mediazione tra forze e movimenti che in quel tempo erano portatori di visioni e modelli alternativi. Tuttavia la cosa ha funzionato con tutto il suo carico di contraddizioni in un contesto, quello occidentale, che ha saputo mantenersi coerente solo in politica estera. Dentro i confini dello Stivale, invece, la critica al capitalismo ha prodotto un lavoro di erosione costante e mendace quanto bastava per imporre lo statalismo ed i suoi mali. Una continua e rovinosa rappresentazione del sistema propinataci dalle forze social comuniste nella prima repubblica. Che cosa pensiamo del capitalismo? Le idee più diffuse sul suo conto sono ancorate ai fatti e alla storia? Oppure, al contrario, sono dei pregiudizi smentiti dall’evidenza empirica? Questi gli interrogativi a cui dà risposta Rainer Zitelmann nel volume “Elogio del Capitalismo” evidenziando dieci capi d’accusa più frequentemente rivolti all’economia di mercato. Quest’ultima intesa come “una sciagurata dottrina dominata da un’élite di persone ricche che dettano l’agenda politica”. Saremmo al cospetto di una  specie di oligarchia plutocratica,  responsabile della fame e della povertà nel mondo, del degrado ambientale e del cambiamento climatico, delle disuguaglianze, dei monopoli, delle crisi finanziarie e delle guerre. Un’oligarchia capace di promuovere l’avidità e l’egoismo, spingendo le persone a un consumismo sfrenato e in grado, addirittura, di favorire l’affermazione di regimi autoritari. A queste malevoli affermazioni si dovrebbe rispondere che le evidenze storiche negano questo stato di cose e che laddove il capitalismo è stato ben temperato dalle leggi dello Stato e quindi privato dall’impronta speculativa fine a se stessa, si è rivelato uno straordinario volano di benessere, addirittura foriero dell’allargamento della base della ricchezza sociale. La classe media ed il suo livello di benessere e la trasformazione dei proletari in piccoli borghesi ne sono stati la prova più evidente. Saprà Giorgia Meloni veicolare questa cultura negli atti di governo? E’ questa, in fondo, la linea di demarcazione tra un compito storico e l’ordinaria amministrazione di governo. Chi vivrà vedrà…

*già parlamentare

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