Scrutinio

di Concetto Vecchio

la Repubblica

Il bollettino Covid registra 468 morti, gli italiani si preoccupano del caro bollette e il Parlamento italiano vota Rocco Siffredi. Ieri sera ha preso un voto nella corsa per l’elezione alla Presidenza della Repubblica. Voto burlone. Come quelli per Albano, Claudio Baglioni, Nino Frassica, Enrico Ruggeri. La piccola notizia politica è che ne ha presi 39 Sergio Mattarella. Segno che la pancia dei grandi elettori mostra i primi segni di inquietudine. Se va avanti così tra qualche votazione questo malumore potrà diventare una valanga, chissà.

Quando il presidente della Camera Roberto Fico, alle sette di sera, inizia lo spoglio, il Transatlantico sembra come la sala da ballo di un gran hotel dopo una festa. Il vento gelido entra dalle finestre aperte spezzando le illusioni. L’euforia del primo giorno sembra già svanita. Anche Fico legge a tamburo battente i nomi di chi ha preso voti, vuole andare a casa. La giornata non ruota attorno a questo scrutinio, si sa, ma sul tridente Moratti-Nordio-Pera annunciato da Matteo Salvini, dal centrodestra, una rosa che in realtà è un roseto, perché tutti hanno capito che i veri candidati sono altri, Maria Elisabetta Casellati, su tutti, o Pier Ferdinando Casini, in subordine. I capannelli si fanno quindi più fitti e segreti. Le quotazioni di Mario Draghi sono in picchiata. «I senatori grillini non lo voteranno mai», dice un esponente pd che li conosce bene. «Piuttosto votano, nel riparo dell’urna, la Casellati, anche se rappresenta tutto quello che hanno combattuto prima di entrare in Parlamento». Casellati sta in aula e presiede le votazioni. Aspetta. Non si disunisce. Casini invece parla con tutti. È il decano del Parlamento, sempre eletto dal 1983, trentanove anni fa. È in vena intimista. Ha postato una sua foto in bianco e nero, da giovane a un congresso dc: «La passione politica è la mia vita», ha scritto. Con tanto di cuore e di tricolore. Pier, come lo chiamano tutti, insomma c’è. «Al Colle! Al Colle!” gli hanno scritto gli amici, commentando l’immagine. «Grandissimo», non ha contenuto l’entusiasmo il renziano Luciano Nobili. Renzi, si sa, lo ha candidato per primo. «Come la vivo?», chiedono a Pier. «L’importante è salute».

Su un divanetto i senatori a vita Elena Cattaneo, Liliana Segre e Renzo Piano discutono tra loro. Cattaneo aggiorna i colleghi sul borsino del Colle. Architetto Piano, i riti della politica l’annoiano? «Ma no, al contrario sento il peso della consapevolezza civica. È una cosa importante quella che stiamo facendo». Si tengono a braccetto Liliana Segre e Renzo Piano. «Lei è mia sorella», scherza lui. «Quanti anni hai?» gli chiede lei. «84 anni, cara mia». «Mi ha molto emozionato votare», dice Segre, sopravvissuta ad Auschwitz. «È un privilegio essere qui, se penso a cos’è stata la mia vita». Vorrebbe una Presidente donna? «Il genere non importa. Conta che sia all’altezza».

Tutti sanno benissimo che fino a domani sarà solo un gioco. Il presidente di Italia viva Ettore Rosato spera di farcela prima di sabato, quando si sposa suo figlio. Nel pomeriggio, come una distrazione nella noia, ecco la conferenza stampa dei capi del centrodestra. Matteo Salvini arriva prima di tutti, con la mascherina tricolore, si guarda intorno, «chi manca?» chiede dopo un po’. «Forza Italia», risponde Lupi. Salvini si attacca al telefono. Antonio Tajani arriva trafelato. Si mettono in posa Salvini, Meloni, Lupi, Toti, Tajani, Brugnaro, Ronzulli. Dopo trent’anni di capi di stato di sinistra è ora che tocchi a noi, dice Salvini. Grande delusione per la rosa di nomi tra i cronisti. E tutto un gioco di scacchi. Del resto questa è, da sempre, la partita più grande di tutte. «Come si fa un Presidente?» si chiedeva Vittorio Gorresio ne Il sesto presidente.

Scriveva: «Contrariamente a ciò che taluni ritengono, il Presidente non è soltanto il personaggio decorativo che conferisce le onorificenze, accredita e riceve i rappresentanti diplomatici, incarna l’unità nazionale, inaugura le fiere campionarie, accorre sollecito sui luoghi di un disastro. Egli è fornito di una tale massa di potere che la posta in gioco di ogni edizione presidenziale ha un valore politico pressoché incomparabile». Quelli del centrodestra escono tutti soddisfatti dalla saletta dei gruppi, il più ilare è Maurizio Lupi, che sulle scale si mette a cantare: «Meno male che Silvio c’è».

«Non avere paura del buio» ha scritto Mattarella, rispondendo alla lettera di una piccola ammiratrice palermitana di sette anni, Emilia. Il buio che avvolge il Palazzo in questa sera di inverno. Il fatto che Mattarella abbia preso più voti di tutti, insieme al magistrato Paolo Maddalena, fa una certa impressione ai pochi rimasti davanti agli schermi tv piazzati davanti all’aula. Le schede bianche sono 527. Mattarella fino all’ultimo è la rete di protezione di un sistema impazzito. Ieri è tornato a Roma e ha diviso il suo tempo tra il Quirinale e la nuova casa. Il suo mandato scade il 3 febbraio. Rimarrà in carica in prorogatio se il nuovo Capo dello Stato non sarà eletto prima? Non si sa.

È sera. Prendono voti Luigi Manconi, Fulvio Abbate, Nicola Gratteri, Massimo Giletti. «Moro» dice a un certo punto Fico. «Moro chi?» dice un deputato alzando lo sguardo dal telefonino. Anche Aldo Moro ieri ha preso un voto.

Concetto Vecchio

Peones

di Fabrizio Roncone

Corriere della Sera

L’incarico: trovare un peone qualsiasi, farsi raccontare come lo trattano, lo schifo di giornate che sta vivendo qui a Montecitorio, tenuto all’oscuro, grande elettore per modo di dire, per lui solo comandi bruschi, costretto a votare come gli ordinano i capi via WhatsApp (finora: sempre scheda bianca; infatti poi alcuni s’infilano nelle cabine e, per sfregio, scrivono Claudio Baglioni o Nino Frassica).

Lo sguardo scivola sul Transatlantico e giù nel cortiletto: bolgia anche in questo secondo giorno, si fuma ovunque, mascherine abbassate, chiacchiere, la candidatura di Mario Draghi al Quirinale perde quota, Renato Brunetta l’unico che lo difende platealmente.

Sì, ma i peones?

Eccone un gruppetto.

Questo con le mani in tasca è Mario Acunzo da Battipaglia. Ex 5 Stelle: cacciato perché non versava i soldi al Movimento. Arrotonda facendo l’attore nella fiction di Rai 1 Il commissario Ricciardi. Ma Acunzo non parla (è disperato: fece l’errore di dire che avrebbe voluto Berlusconi al Quirinale). Questa invece è Carmela «Ella» Bucalo da Barcellona Pozzo di Gotto, di anni 58, Fratelli d’Italia: ieri si scattava selfie di ricordo. «Decide tutto Giorgia, certo: ci mancherebbe». Un giovane cronista ha già battuto il terreno: «Con la Granato, perdi tempo. Puoi provare con Ciampolillo, ma lo sai anche tu che è un po’ banale. Le grilline sono diventate furbe, annusano il pericolo, sono reticenti».

Poi passa Sergio Battelli.

«Come mi ha chiamato?». Peone. «Guardi che io mica mi offendo». Ma infatti io non intendevo offenderla. «Peone ero quando entrai nel 2013, peone mi sento».

Sì, ecco: Sergio Battelli di anni 39, grillino genovese, può funzionare. È amico di Luigi Di Maio, però questo non sposta di un centimetro la sua condizione di bracciante della politica. Battelli, tra qualche tempo, sarà materia di studio: licenza media, un decennio trascorso a lavorare come commesso dentro un negozio di animali. Cucce, croccantini, guinzagli. Poi l’apparizione di Beppe Grillo sulla porta d’ingresso. Due clic, parlamentarie e, nel 2013, si ritrova qui: deputato. Circa 14 mila euro accreditati sul conto corrente. Ogni mese. Per la tragica regola imposta da Gianroberto Casaleggio dell’«uno vale uno», nel 2018 lo nominano pure presidente della commissione Affari europei.

«Se devo essere trattato male…».

Guardi, è cronaca.

«Okay: cosa vuol sapere?».

La sua giornata.

«Mi sveglio, faccio colazione, mi vesto…» (tipo simpatico, veloce, ha imparato le regole del gioco: ma sul vestire non ci siamo. Indossa un abito di lana a quadratini e un maglione nero a collo alto).

State eleggendo il nostro nuovo presidente della Repubblica: non pensa di essersi presentato vestito come per un brunch al lago?

«Lei pensa?».

Penso che tra il suo maglione e la grisaglia di Aldo Moro possa esserci una decorosa via di mezzo. Parliamo di queste votazioni.

«Vengo qui in anticipo. Parcheggio il monopattino ed entro. Oggi ho mangiato un panino al volo alla buvette. Poi aspetto che arrivi il mio turno di voto parlando con i miei colleghi, immaginando soluzioni, scenari».

Siete preoccupati?

«Senta: se a Palazzo Chigi venisse giù tutto, o perché Draghi sale al Colle, o perché al Colle magari ci va un altro e Draghi si stranisce e molla, il rischio di andare a votare è chiaro che esiste. E io, che come Di Maio sono al secondo mandato, per le attuali regole del Movimento dovrei tornarmene a casa. Ma le assicuro che non mi ammazzerei di certo se dovessi lasciare questo luogo, la politica. E poi…».

Poi?

«Mi sono sempre saputo reinventare. Anche stavolta troverei qualcosa per campare».

Tipo?

«Mi piace la musica. Suonavo, so incidere, potrei buttarmi nella produzione discografica».

Squilla il cellulare: sul display comincia a lampeggiare la scritta «Luigi Di Maio». Allora Battelli mette su uno sguardo che tiene insieme imbarazzo e fretta (è noto che Di Maio s’infuria se non gli rispondono entro il secondo squillo; il suo ragionamento dev’essere, più o meno, questo: ma come, io sto qui a faticare per voi, a combattere con Letta zio e Letta nipote, a parlare con Salvini e ad ascoltare persino Conte, e voi fate salotto?).

Così Battelli s’allontana. Ma, tenendolo d’occhio, eccolo poi che passetto passetto torna subito ai divanetti, dove lo aspettano. «Allora, Giggino che dice: butta male?».

Peones.

Fabrizio Roncone

Ingrato

di Salvatore Merlo

Il Foglio

Non si intende qui varcare la soglia della psico-politica, per carità, ma il carattere di Mario Draghi, o meglio la percezione che ne hanno i grandi elettori, nonché diversi leader di partito e capicorrente, rischia di connotarsi come una delle variabili decisive di questa elezione presidenziale. Antonio Tajani, per esempio, non lo ammetterebbe mai in pubblico, ma lo considera all’incirca “un arrogante” che non prese in considerazione la lista dei ministri che lui gli portò un anno fa per conto di Forza Italia e che adesso però pretende il Soglio laico del Quirinale. Silvio Berlusconi invece lo ha ribattezzato “l’ingrato”, e s’è pure lamentato: “Draghi non mi ha mai fatto una telefonata amichevole e nemmeno mi ha mai inviato un bigliettino di auguri per Natale”. Fa sorridere? Forse. Ma sono cose che contano, sul serio. Dario Franceschini, e nemmeno questo è un dettaglio, gli dà freddamente del lei (ricambiato). Non si sono mai presi. Due pezzi da novanta, l’iperpolitico e l’ipertecnico. Salvini, infine, che gli imputa tutte le sue difficoltà all’interno della Lega con Giorgetti, una volta lo ha definito in tono ironico “il monarca”, per l’atteggiamento da “non vi do niente ma voi votatemi comunque”. E sarà certamente vero che quella che ai politici sembra boria, forse è ritegno. E quella che appare come arroganza, è più verosimilmente la sicurezza nelle proprie capacità di un uomo che nella vita si è trovato ad avere a che fare con le cancellerie internazionali, con i falchi dell’austerità e ancora prima con la Banca d’Italia al suo meglio. Ma la distanza, il distacco, il pudore e la ritrosia, persino l’eleganza, funzionano solo se usate con sapienza. Almeno in politica.

E chissà se è vero che quando Giovanni Toti, molto ben disposto, gli ha telefonato per parlargli di Quirinale e di futuro del governo, ecco che il presidente del Consiglio e candidato presidente della Repubblica si è innervosito alla sola idea di dover negoziare qualcosa con lui (forse anche perché qualcuno dice che intanto Toti stia lavorando anche per Casini al Colle). Fatto sta che Draghi ha troncato la telefonata. Sbrigativamente. Ecco. Machiavelli voleva che il suo Principe fosse temuto, e non amato. Ma quelli di Machiavelli e del duca Valentino erano altri tempi, non si trattava certo di Repubblica parlamentare. E insomma, come dice Andrea Ruggeri, spigliato deputato e dirigente di Forza Italia: «Va bene non essere amati, ma se guardi la politica dall’alto in basso, e lasci capire che ti facciamo pure un po’ schifo, sbagli le proporzioni. Anche perché poi è proprio quel ‘basso’ che ti deve votare al Quirinale».

Anche Dante Alighieri, a quanto si tramanda nella novellistica, opponeva fra sé e gli altri il pathos della distanza. «L’uovo crudo è la pietanza più buona», rispose con la sua assoluta alterigia a un convivio di sapienti ghiottoni. E questo per dire che distacco, freddezza, consapevolezza di sé, e persino una punta di altezzosità, sono tutte virtù dei grandi italiani. «Ma non sono virtù politiche», dice Roberto Giachetti, deputato renziano, anche lui immerso come tutti nel Transatlantico che ancora vota scheda bianca in attesa di un’epifania.

Simpatia e seduzione sono da sempre le armi di Berlusconi, si sa. E per qualcuno addirittura sono la risorsa del diavolo: il sole in tasca, il sorriso, le facezie… «Non che Draghi debba trasformarsi in un seduttore», dice un senatore del Pd che si fa promettere cento volte di non essere citato per nome, «ma quantomeno chiediamo un attestato di dignità. Non facciamo così schifo. Draghi potrebbe anche farcelo capire ogni tanto». E giù con le lamentele da anonimi pigia tasti: da un anno con Draghi si decide tutto in commissione, le proposte dei gruppi parlamentari vengono rifiutate, il lavoro del parlamentare è ridotto alla presentazione degli ordini del giorno. Ovvero di quei testi, in verità abbastanza inutili, in cui si dice che “il Parlamento impegna il governo a…”. Ma poi il governo fa come gli pare. Frustrazione, insomma. E anche, sotto sotto, specialmente tra i grillini, lì dove forse la mediocrità è la cifra più comune, anche un gusto tutto ritorto nell’osservare il gigante che ruzzola giù per le scale.

Salvatore Merlo