Il reportage sulla ‘ndrangheta in Lombardia (pagato 400 mila euro) era un falso

 

Tra le persone coinvolte il giornalista spagnolo David Beriain. A novembre 2019 era andato in onda il servizio, con le immagini di una presunta raffineria della coca: ma un carabiniere ha riconosciuto il palazzo. L’intervista fatta a tu per tu con un boss latitante della ‘ndrangheta in un casolare isolato nei boschi tra Como e Varese. Incontro preceduto, seguendo il copione del reportage “sofferto” e “dentro la notizia”, da una lunga contrattazione fatta di attese, contatti, e appuntamenti fissati ma andati poi a vuoto. Nello stesso servizio appare anche un sicario – fisico atletico, cappello con visiera e scaldacollo alzato a nascondere il viso – che parla senza troppe remore di come trascorre la vita di chi uccide e punisce per conto di una delle organizzazioni criminali più potenti al mondo.

E non finisce qui: la troupe che ha girato le immagini del servizio osserva anche i viaggi dei corrieri della droga da Nord verso Milano, riprendendoli in compagnia di un malavitoso che li segue a distanza in macchina per sorvegliare le loro mosse. Ma è nel momento in cui la telecamera che filma il documentario indugia su un palazzo, spacciato come un “centro di raffinazione della droga” destinata al mercato milanese, che un carabiniere della stazione Porta Monforte, uno dei tanti telespettatori della puntata di “Clandestino” trasmessa a novembre 2019 sul canale “Nove”, si accorge che c’è qualcosa che non torna.

Il militare è uno che il territorio lo conosce sul serio, lo frequenta registrando nella propria mente realtà e problemi e sa che quella che viene spacciata come una raffineria di coca, in realtà, è un’anonima palazzina in zona Barona, estranea ai radar degli investigatori antimafia (quelli veri). Da quel passaggio in televisione è nata l’indagine che ha portato nei giorni scorsi il sostituto procuratore della Repubblica Alessandra Cerreti a notificare l’atto di conclusione delle indagini, con contestuale avviso di garanzia, nei confronti di quattro persone accusate di truffa in concorso, tra le quali figura anche il giornalista spagnolo David Berian Amaitrain, 43 anni, il volto della serie televisiva incentrata sulle realtà criminali più pericolose del pianeta: dai cartelli messicani ai trafficanti di droga albanesi.

Storie appassionanti e terribili di gangster e narcos servite il sabato sera a un pubblico interessato e convinto di assistere a clamorose immagini e rivelazioni. Voci artefatte, visi coperti, numerose riprese marcatamente nascoste e di fortuna, come si conviene per un reportage dai contenuti difficili e pericolosi. Ma per i magistrati e i carabinieri la puntata di novembre sulla mala calabrese in Lombardia, che aveva lo scopo di mostrare il radicamento del malaffare a Milano e l’egemonia delle cosche nel mercato delle sostanze stupefacenti, era un falso. Secondo la procura, infatti, quelli che venivano presentati come veri affiliati alla ‘ndrangheta (che peraltro è nota per la sua assoluta impenetrabilità) non erano altro che attori e comparse, ingaggiati per una messinscena.

Dopo le indagini assieme al reporter iberico sono indagati altri due stranieri (Rosaura Romero Trejo, venezuelana 43enne, Franck Belhieu Nahmias, 33 anni, spagnolo) responsabili della società “93 Metros”, e l’italiano Giuseppe Iannini, brindisino domiciliato in provincia di Caserta, ex appartenente alle forze dell’ordine con un passato (secondo quanto riferito) di reati di corruzione, favoreggiamento, accesso abusivo a sistema informatico, rivelazione di segreto d’ufficio. La “93 metros”, stando alla ricostruzione portata a termine dagli inquirenti, ha violato il contratto con Discovery Corporate Services, società londinese del gruppo Discovery Italia (che in questa vicenda è parte offesa), dove era stato stabilito “espressamente” che i fatti oggetto del contratto dovessero essere “veritieri”. Invece gli organizzatori della truffa avrebbero venduto un documentario artefatto per la somma di 425mila euro.

Iannini, secondo i reati ipotizzati dai pm, avrebbe fatto da trait d’union fra produzione e comparse, mettendo in contatti Berian, e gli altri componenti della società spagnola, con “gli attori ingaggiati allo scopo di realizzare il reportage” e avrebbe contribuito, “assieme ai componenti della 93 Metros”, alla “realizzazione” della puntata finita sotto inchiesta. Nelle condotte contestate dai magistrati al giornalista David Berian, tra le altre, emerge quella di aver falsamente dichiarato di “ricorrere a personale qualificato” e con precedenti esperienze relative alla “realizzazione di programmi televisivi in ambienti ostili e a contatto con sospetti criminali”.

 

Fonte: di Federico Berni /Corriere della Sera, 27 marzo 2021