Il caso Palamara conferma un sistema marcio: quelle che comandano sono cosche giudiziarie armate della minaccia del carcere, con quasi tutti i giornali alleati. E i partiti non reagiscono.

Si è detto giustamente che lo sapevano anche i sassi: non c’era bisogno della rivelazione delle sessantamila chat di Palamara per scoprire ciò che appunto conoscevano già tutti e cioè l’immondezzaio delle nomine, dei traffici, delle cospirazioni nel sistema di governo della magistratura corporata.

Ma il fatto che quel dispositivo di potere corrotto funzionasse risaputamente in modo incensurato denuncia una responsabilità ulteriore, e se possibile anche più grave: la responsabilità della classe politica che, pur sapendo, ha taciuto. E soprattutto: che, pur potendo intervenire, nulla ha fatto per ricondurre a legalità i comportamenti della magistratura deviata.

Bisogna concedere che la classe politica (non c’è destra, non c’è sinistra, non c’è centro: tutta la classe politica) potesse aver timore di denunciare e intervenire: perché quelli ti fanno a pezzi, ti sbattono in galera, mentre il giornalismo alleato (anche qui: praticamente tutto) fa il suo sporco lavoro di demolizione con tre mesi di prime pagine alla notizia dell’arresto e col trafiletto non si sa dove alla notizia dell’assoluzione.

Ma una classe politica finalmente compatta nel reclamare il ripristino dello Stato di diritto, e capace di qualche convinzione sulla necessità di non sottomettersi alla prepotenza intimidatoria del mostro togato, avrebbe ben potuto almeno provare a interrompere il dominio della malavita giudiziaria. Che cosa faceva la piovra delle manette: li arrestava tutti?

Anche perché se la classe politica avesse reagito come di dovere c’è da star sicuri che la parte non corrotta della magistratura, che è ampia per quanto senza voce, avrebbe condiviso quell’opera di richiamo all’ordine costituzionale. Tanti bravi magistrati sono a loro volta i soggetti passivi dello strapotere delle cosche giudiziarie, e vi si sottomettono esattamente come

Fonte: di Iuri Maria Prado/ Il Riformista, 14 ottobre 2020