Palamara non paghi per tutti. Il magistrato radiato dal Csm

 Luca Palamara non è più un magistrato. La sezione disciplinare del Csm lo ha rimosso dall’ordine giudiziario ritenendo che il quadro emerso dalle indagini della Procura di Perugia non meritassero nessuna indulgenza. Che non si potesse transigere sul suk delle nomine di cui è stato un indiscusso e riverito mercante, e sulla disinvoltura con cui le vicende della sua vita privata, le sue amicizie e inimicizie, i suoi interessi, hanno condizionato il suo modo di spendere e interpretare il ruolo di sostituto procuratore della Repubblica e, per giunta, di ex membro del Csm e presidente dell’Associazione nazionale magistrati. È un esito non sorprendente e per certi versi obbligato, ancorché senza precedenti (non era mai accaduto nella storia repubblicana che un magistrato che aveva ricoperto incarichi istituzionali nell’organo associativo e in quello di autogoverno della magistratura ne fosse espulso per “comportamenti di inaudita gravità”). Qualunque altra decisione avrebbe infatti annichilito ciò che resta del già in buona parte dilapidato capitale di fiducia che la magistratura italiana conta nell’opinione pubblica. E tuttavia, la decisione nasconde un’insidia. Propria della cultura del nostro Paese e della sua classe dirigente. La passione per il capro espiatorio e il rito che ne accompagna il sacrificio. Non a caso evocata da Palamara come argomento difensivo (“Pago solo io”).

 Spogliare Palamara della toga che ha indossato per 23 anni non risolve infatti la profonda crisi di credibilità e il ritardo culturale che una magistratura troppo spesso autoreferenziale ha accumulato nell’Italia post-berlusconiana. Quando, caduto l’alibi, per altro fondato, della difesa della propria autonomia minacciata da un presidente del Consiglio e da una maggioranza parlamentare in costante conflitto di interesse, avrebbe dovuto abbandonare l’arrocco e rendersi protagonista di un processo di riforma e autoriforma. Prima che si facesse buio. Prima che si arrivasse alle notti dell’hotel Champagne.

Se è insomma vero che il “caso Palamara” è un punto di non ritorno, la magistratura, a cominciare dal suo organo di autogoverno (che, vale la pena di ricordarlo, la Costituzione indica quale garanzia e presidio dell’autonomia dell’ordine giudiziario e non come camera di compensazione delle carriere e lavacro corporativo delle violazioni disciplinari), ha ora l’ennesima occasione di dimostrarlo. Forse l’ultima. E con lei il Parlamento. Cominciando, per dire, ad assumere decisioni trasparenti e celeri proprio su ciò che ancora è sub iudice nel caso Palamara. Il 23 ottobre, di fronte alla sezione disciplinare, saranno infatti altri cinque magistrati che a Palamara facevano da corona. Soprattutto, in ottobre, la Camera dovrà decidere se concedere celermente l’autorizzazione a procedere per il vero Kaiser Soze del correntismo della magistratura italiana. L’immarcescibile Cosimo Ferri, magistrato e oggi deputato di Italia Viva. Gran Visir delle notti all’hotel Champagne. Sempre che la prossima settimana, il 15 ottobre, non venga accolto l’atto di ricusazione con cui Ferri intende sottrarsi al giudizio dei suoi colleghi della sezione disciplinare.

 Per conto di Ferri, dall’estate 2019, si è messo al lavoro un trasversale network di soliti noti. Con il loro armamentario di allusioni, manipolazioni. Per questo sarebbe confortante assistere di qui alle prossime settimane a uno spettacolo di altrettanto determinata inflessibilità e trasparenza che ci rassicuri sul fatto che la magistratura è in grado di liberarsi dal ricatto del peggiore correntismo sanzionandone un altro formidabile campione. E che la politica non ha bisogno di proteggere e sottrarre al suo giudice disciplinare naturale (il Csm) un magistrato-deputato che notte tempo, in nome e per conto della Politica, trafficava sui nomi di chi avrebbe dovuto sedere negli uffici giudiziari chiave del Paese. Altrimenti, resterà solo l’avvilente spettacolo di un’autonomia e indipendenza dell’ordine giudiziario ridotte a simulacro per gonzi. Con un capro in più da ricordare.

Fonte: DI CARLO BONINI/ La Repubblica