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venerdì 10 ottobre 2025
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Il Capitale Naturale, le parole del genere, le carceri tra crolli e morti, Machado dalla clandestinità al Nobel, la pittrice che ci mise la firma, il Simposio di Guadagnino, la playlist
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di Gianluca Mercuri
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Bentrovati. Ecco il menu per il vostro weekend:
Il suolo da preservare Cos’è il Capitale Naturale, e perché non possiamo più permetterci di sprecarlo, rovinarlo, consumarlo? Il nostro antropologo preferito, Mauro Francesco Minervino, parte da un recente rapporto del ministero dell’Ambiente per spiegare come tutte le ecoregioni italiane abbiano raggiunto limiti di consumo di suolo invalicabili. Un’emergenza che aggiorna in termini drammatici il dibattito millenario sul rapporto tra essere umano e natura.
Le parole del genere Nel Dizionario di genere, curato da Marzia Camarda per Settenove, oltre 2.400 parole vengono definite alla luce delle disuguaglianze e delle rappresentazioni di genere. Da abbandono del tetto coniugale a zoombombing, da gattara a money shot, il volume mostra come il linguaggio non si limiti a descrivere la realtà, ma la costruisce. E come riscrivere le parole significhi anche ripensare il modo in cui vediamo il mondo. Elena lo consiglia.
Un sistema che frana Un crollo materiale, ma anche simbolico, dentro il carcere romano di Regina Coeli. E due morti, forse per droga, nell’istituto milanese di San Vittore. Neanche questi episodi, spiega Alessandro, sembrano scuotere dal torpore le istituzioni e la politica su un sistema che sta franando.
La donna che dice no a Maduro Maria Corina Machado, la «dama de hierro» dell’opposizione venezuelana, ha ottenuto oggi il Premio Nobel per la Pace (qui il racconto di Sara Gandolfi). «Machado è una donna che mantiene accesa la fiamma della democrazia in mezzo a un’oscurità crescente», si legge nelle motivazioni del Comitato norvegese. Esattamente quello che emerge dall’intervista che Virginia Nesi le fece lo scorso anno per «7». La ripubblichiamo perché, oltre a far capire molto di lei, conferma il vizio ottuso dei regimi: si scelgono male i nemici.
Questo quadro l’ho fatto io Era così brava che pensavano fosse un uomo, perché la bravura femminile non era concepibile nemmeno nella Bologna del Seicento. Invece Elisabetta Sirani era una pittrice così brava da diventare a vent’anni capobottega al posto del padre Giovanni, per poi entrare all’Accademia di San Luca, a Roma, in qualità di «professore». La sua Timoclea che getta nel pozzo lo stupratore è un quadro iconico, all’altezza di Artemisia e anche oltre. E poi, il vezzo della firma che non era un vezzo, ma un’affermazione di identità. Sì, la puntata del Capolavoro! di Roberta Scorranese racconta una storia meravigliosa, di quelle in cui, come nei quadri riusciti, anche le ombre fanno il gioco della luce.
Caccia alla perfezione L’ambiente di Yale e di quattro sofisticati intellettuali newyorchesi è perfetto per Luca Guadagnino. Ma il suo After the Hunt risulta a Paolo Baldini «un film distante, spesso irraggiungibile, costruito su temi importanti ma banalizzato nello schema del simposio culturale». Meglio Sorrentino, giura Paolo. Ma il confronto, naturalmente, è sempre meglio farlo di persona. In sala.
La Playlist La Rassegna musicale curata da Alessandro – la trovate tutta qui, con 193 brani e 12 ore di ascolto – vi propone oggi i Geese e i Selton.
Buona lettura, buon ascolto e buon weekend (qui il meteo).
(gmercuri@rcs.it, langelini@rcs.it, etebano@rcs,it, atrocino@rcs.it).
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| Rassegna ambientale |
| Il Capitale Naturale che non possiamo più sprecare: un rapporto sul consumo di suolo in Italia |
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| Mauro Francesco Minervino |
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La Natura può essere ancora considerata animata e non semplicemente cosa, “res extensa”, illimitatamente disponibile allo sfruttamento e al dominio umano della tecnica? Solo all’apparenza filosofiche o etiche, anche in termini di realtà e di scelte, le questioni sollevate da questa domanda svelano millenni di dibattiti, discussioni, riflessioni sulla ricchezza o la strumentalità delle relazioni tra l’uomo e la natura, nel passato e nel presente, in differenti ambiti culturali europei ed extraeuropei. Le pietre vivono, i minerali crescono, muoiono? E le foreste pensano? Gli animali hanno un’intenzionalità cosciente e traducibile? La terra, il suolo, i luoghi, gli ambienti viventi hanno una loro impronta sensibile che li rende indipendenti dalla presenza umana e dai suoi scopi?
Paul Cézanne letteralmente stregato dal mistero del loro magnetismo dipinse le rocce e il profilo calcinato della montagna Sainte-Victoire in Provenza centinaia di volte. La scienza di oggi riconosce che gli animali possiedono capacità come l’empatia, la sensibilità e la coscienza, mentre religioni come Induismo e Buddhismo da sempre credono che gli animali abbiano un’anima e possano reincarnarsi, un concetto che offre ancora oggi conforto a milioni di credenti. Il Santo di Assisi considerava sensibile ogni essere, anche inanimato, e il suo biografo Tommaso da Celano, ricordava che “Quando i frati tagliavano la legna, Francesco proibiva loro di recidere del tutto l’albero, perché potesse rigettare nuovi germogli”.
Seguendo gli insegnamenti di C. G. Jung e la sapienza degli antichi greci, l’analista e filosofo James Hillman ha scritto che anche i luoghi hanno un’anima. Essi sono popolati da divinità diverse, assorbono i pensieri e le tradizioni degli uomini che li abitano da secoli o millenni. Anche le case, i monumenti, le città e i paesaggi costruiti dalla tecnica, se vogliono dare un contributo positivo alla vita degli uomini che li abitano, devono rispettare e rispecchiare la natura segreta dei luoghi in cui sorgono: l’anima dei luoghi respira insieme all’anima del mondo e alla nostra anima, diceva Hillman.
Contesti culturali, geografici e ambientali lontanissimi tra loro nello spazio e nel tempo, dalle Alpi all’India e all’Himalaya, dalla Corsica alla Siberia, dal Giappone alle Hawai, dal Paleolitico e dagli antichi Sumeri e Babilonesi fino al Medioevo, dalle prime rivoluzioni meccaniche sino alle più attuali “cosmo-tecnologie” (Marc Augé). E poi cerimonie, feste, tradizioni, credenze, religioni, economie, commerci, conoscenze e saperi, insieme a sensibilità e attività umane tra le più diverse che attraverso i tempi della storia e le culture di tutto il pianeta sino giunte fino a noi, continuano ad interrogarci sul rapporto tra uomo e natura anche nel nostro contemporaneo. E tutte convergono su questo aspetto fondamentale, e troppo sovente rimosso, e ci dicono in fondo una sola cosa: la Natura (umana, non-umana) non è mai inerte è sempre e comunque animata.
E quindi oggi come, e cosa fare, di fronte alle immense catastrofi umane e agli incessanti annichilimenti inferti alla biosfera, sacrificata ai trionfi dell’era dell’Antropocene, e cosa accadrà in futuro di quel che resta di ambiente, paesaggi, ecosistemi, natura?
Il paesaggio insieme alla natura è un bene preziosissimo che, una volta distrutto, è purtroppo quasi sempre irrecuperabile. Si tratta di beni non riproducibili che vanno protetti con la stessa cura del nostro patrimonio artistico. E con la stessa attenzione vanno trasmessi ai posteri. Purtroppo anche in Italia le tante polemiche recenti, con i condoni, gli scempi edilizi, gli abusi e gli inquinamenti ambientali che proseguono incessanti tali affermazioni di principio non fanno parte del sentire di tutti. L’integrità della natura e i valori del paesaggio connotano l’identità del nostro Paese, fatto di città una diversa dall’altra, da campagne, boschi, colline e paesaggi che attirano irresistibilmente l’attenzione, non soltanto di noi italiani ma dei visitatori di tutto il mondo. La nostra Costituzione è stata lungimirante, la prima al mondo a collegare la tutela del patrimonio storico, artistico e archeologico con la tutela del paesaggio e degli ambienti naturali. Ora fa ben sperare per quanto riguarda il nostro Paese un recente passaggio istituzionale intervenuto in materia di orientamenti riguardanti le politiche ambientali.
Paul Cézanne, Mont Sainte-Victoire visto da Bellevue, 1885
Il Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica ha pubblicato lo scorso 28 agosto il sesto rapporto curato dal “Comitato per il Capitale Naturale” costituito presso lo stesso ministero, un documento redatto con il contributo di associazioni, ambientalisti ed esperti di diverse discipline e saperi.
Il documento ufficiale, relativo al 2024, contiene una importante novità in fatto di politiche ambientali. Da quest’anno viene infatti adottata per il nostro Paese la definizione di “Capitale Naturale” mutuata dal “Natural Capital Committee”, un advisor indipendente di diritto pubblico già operante in Gran Bretagna. Istituito nel 2012 per riferire in tema di stato dell’ambiente al governo del Regno Unito, l’organismo fornisce consulenza alle autorità pubbliche su come valorizzare al meglio le risorse ambientali e garantire che la “ricchezza naturale” dell’Inghilterra venga tutelata e gestita in modo equlibrato, efficiente sostenibile, secondo il concetto e le prassi più avanzate delle Nature based solutions.
Questa dunque la definizione riassunta di Capitale Naturale: “Il Capitale Naturale è costituito dall’intera gamma di beni naturali, patrimoni ambientali e risorse produttive – comprendente organismi viventi, aria, acqua, suolo e risorse geologiche – che contribuiscono insieme a fornire beni e servizi di valore, diretto o indiretto, per l’uomo e le sue attività, e in quanto tali considerati necessari per la sopravvivenza dell’ambiente stesso da cui sono generati”.
Jo Handelsman, biologa e divulgatrice, in Un mondo senza suolo. Il passato, il presente e il futuro precario della terra sotto i nostri piedi (Tarka, 2025, pp, 228, E. 21), compie un viaggio tra scienza e racconto presentando dati, esperimenti, illustrazioni e spiegazioni sullo stato di salute in uno degli ecosistemi più complessi e sottovalutati del pianeta: il suolo. Handelsman mostra con allarme un problema vitale per il futuro della biosfera, che riguarda tutto il mondo: l’erosione dei suoli naturali e il degrado progressivo di quelli coltivati. Una crisi globale silenziosa che minaccia la nostra stessa esistenza. Stiamo esaurendo il suolo fertile con l’agricoltura intensiva, l’uso eccessivo o inappropriato di sostanze chimiche di sintesi (fertilizzanti, diserbanti, pesticidi), con le lavorazioni meccaniche pesanti e con gli effetti indotti dal cambiamento climatico. Fattori umani con cui stiano accelerando vertiginosamente il degrado del topsoil, lo strato fertile che da milioni di anni rigenera la vita sulla terra.
Sul piano della realtà la situazione generale del pianeta continua quindi ad essere allarmante, e può inclinare, se non frenata in tempo da provvedimenti efficaci, verso la catastrofe ambientale incipiente. Il degrado dell’ambiente naturale e il suo sovrasfruttamento reclamano una urgente e generale inversione di rotta in tema di politiche ambientali da parte delle autorità mondiali, dei poteri politici e delle agenzie di governo dei territori, da parte delle autorità etiche, delle opinioni pubbliche e delle cittadinanze più attive e consapevoli.
La perdita di biodiversità e il collasso degli ecosistemi presenti sul nostro pianeta è considerato oggi (dopo guerre e crisi geopolitiche) il terzo fattore di rischio di collasso sistemico più intenso in un orizzonte temporale di dieci anni.
In tutta Europa il 60-70% dei terreni disponibili non è sano.
L’Italia non sta meglio, anzi. Dalla lista degli ecosistemi a rischio (secondo le indicazioni della “Red List degli Ecosistemi” stilata dal Comitato Italiano della IUCN (Unione Mondiale per la Conservazione della Natura), considerata la massima autorità scientifica al mondo sullo stato di conservazione della natura, emerge, che esclusi quelli marini, e relativamente ai soli ecosistemi terrestri, nel nostro Paese sono a già rischio ben 58 ecosistemi caratteristici, diffusi da Nord a Sud della penisola.
Le aree del nostro Paese che versano in più gravi e allarmanti condizioni di degrado e di crisi ambientale sono queste:
- Ecoregione Alpina: i 22 ecosistemi presenti coprono più dell’80% della superficie ecoregionale. Di questi, 13 sono risultati a rischio e solo 2 non a rischio. La superficie a rischio è di circa il 27%, ovvero la maggior parte rispetto alla copertura degli ecosistemi presenti nell’ecoregione, mentre 57% è la superficie occupata dagli ecosistemi restanti con valutazioni accettabili.
- Ecoregione Padana: è il territorio italiano con le valutazioni peggiori e più preoccupanti rispetto alle altre ecoregioni. Gli ecosistemi naturali, infatti, qui sono quasi del tutto scomparsi e coprono solo ridottissime superfici (8,4% del territorio totale) a cui si associano ulteriori fattori di pressione e di minaccia che li rendono nel complesso tutti e 16 a rischio.
- Ecoregione Appenninica: l’area è tra le più estese nel territorio italiano, i 19 ecosistemi caratteristici coprono più del 50%, nessuno è risultato in fase critica, 3 sono considerati in pericolo, 5 vulnerali mentre 10 sono minacciati di danni e solo 1non presenta attualmente rischi valutabili. La superficie a rischio è del 33% dovuta quasi esclusivamente agli ecosistemi vulnerabili, mentre il 66% è con possibile rischio futuro.
- Ecoregione Tirrenica: la più estesa (circa il 29% del territorio italiano) grazie all’inclusione di Sicilia e Sardegna nell’ambito tematico. La valutazione dei 34 ecosistemi è risultata essere di 1 in area critica, 8 danneggiati, 19 vulnerabili (per un totale di circa 82% degli ecosistemi a rischio), 5 con possibile rischio futuro e uno solo non attualmente minacciato.
- Ecoregione Adriatica: è l’ecoregione italiana di dimensioni inferiori rispetto alle precedenti, ospita 14 ecosistemi di cui 13 sono risultati a rischio (e 1 con possibile rischio futuro. In totale gli ecosistemi coprono circa il 12% della superficie dell’ecoregione e di questa il 77% è prevalentemente valutata a rischio di vulnerabilità.
La superficie nazionale sottoposta a diverse categorie e livelli di pressioni antropiche è stimata in generale al 19,6% (circa il 43% rispetto a quella coperta dagli ecosistemi naturali e seminaturali) e che il 16,3% si riferisce agli ecosistemi vulnerabili, il 3% agli ecosistemi in pericolo e lo 0,3% a quelli che versano già in condizioni gravemente critiche. Dei 58 ecosistemi censiti che sono ritenuti a rischio, 7 sono in condizioni molto critiche, 22 in pericolo e 29 sono considerati vulnerabili; 18 si prevede saranno messi a rischio nel futuro; solo 4 in tutta la penisola per ora non corrono rischi valutabili di essere minacciati, mentre solo 5 non sono considerati esposti a rischio prevedibile anche per il prossimo futuro. Quindi c’è davvero poco da stare tranquilli.
Il Rapporto che questa sesta edizione contiene i principali obiettivi e i nuovi progressi relativi alla misurazione e alla valutazione dello stato del Capitale Naturale, dei Servizi Ecosistemici e degli impatti delle politiche pubbliche su di essi, arriva in un momento cruciale per le politiche ambientali da adottare per il futuro del nostro Paese. Vi sono indicate alcune importanti “raccomandazioni” ed impegni che i poteri pubblici devono assumere per la tutela del Capitale Naturale italiano; con l’indicazione di misure adeguate che si ritiene debbano essere messe in atto con maggiore celerità e impellenza, considerata la recente introduzione dei principi che sanciscono a pieno titolo la tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi tra quelli fondamentali tutelati nella nostra Costituzione.
Nel Rapporto si dichiara la necessità di pervenire ad un coordinamento più efficiente tra i poteri, ad un più coerente allineamento dell’Italia e delle politiche nazionali in materia di tutela ambientale alle politiche internazionali, comunitarie e nazionali.
Infine, si pone in enfasi il tema della programmazione ed attuazione del Piano per la Transizione Ecologica, della Strategia Nazionale per la Biodiversità 2030, del Piano Nazionale dei Ripristini, con gli indirizzi di programmazione nell’azione di governo e per la diffusione della Strategia Nazionale per Sviluppo Sostenibile prevista dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. L’insieme di questi livelli deve favorire l’integrazione della sostenibilità nelle diverse politiche di settore, come quelle agricole, forestali, energetiche e industriali, turistiche e culturali.
Il Rapporto è quindi uno strumento utile (ma non esaustivo) a fornire direttive e strumenti avanzati per il raggiungimento di nuovi obiettivi sociali, economici e ambientali, in coerenza con la programmazione finanziaria e di bilancio del Paese. La sua visione si accorda con gli obiettivi generali per l’ottenimento dei livelli di crescita e sostenibilità indicati dall’Agenda 2030per lo Sviluppo Sostenibile (il programma di azione per le persone, il pianeta e la prosperità, sottoscritto il 25 settembre 2015 dai governi dei 193 Paesi membri delle Nazioni Unite approvato dall’Assemblea Generale dell’ONU), ed è coerente con gli impegni derivanti dal Green Deal Europeo e dalle nuove Strategie Europee per la Biodiversità e del programma “Farm to Fork”.
Nel documento vi è spazio anche per un ampio focus sul tema del consumo di suolo nel nostro Paese, definito finalmente e senza le ambiguità del passato, come “consumo di capitale naturale”. Uno spreco che l’Italia non può permettersi oltre.
Se in Europa, come già evidenziato, il 60-70% dei terreni è inquinato da fattori derivanti dal cattivo utilizzo umano e nel territorio dell’Unione sono presenti già circa 2,8 milioni di siti potenzialmente contaminati, anche in Italia l’inquinamento e la pressione antropica sui suoli e sui territori naturali è in aumento; le aree artificiali (siti industriali, impianti e infrastrutture) sono in crescita, principalmente a scapito delle aree naturali e dei terreni agricoli che si degradano in modo particolare a causa delle cattive pratiche di gestione del suolo.
Un suolo sano e mantenuto in condizioni di equilibrio naturale è essenziale per l’agricoltura, per l’ecosistema nel suo complesso, per gli assetti caratteristici dei territori locali, per la bellezza dei paesaggi, per la sicurezza e la sostenibilità della vita umana, per quella delle future generazioni. La biodiversità dei suoli sani contribuisce alla resilienza delle piante, anche quelle coltivate.
Il miglioramento della salute dei suoli è fondamentale per migliorare la qualità e la pulizia degli ambienti, e determina la resistenza agli eventi avversi e le forme di adattamento determinate dai cambiamenti climatici, anche per la sue funzioni di conservare e filtrare l’acqua e proteggere i terreni dall’erosione, con l’effetto di prevenire inoltre gli effetti avversi degli eventi climatici estremi, delle inondazioni e dei periodi di siccità, ormai sempre più frequenti e pericolosi.
La Commissione Europea, ha intrapreso dal 2021 un percorso per la definizione di un quadro normativo armonico per l’intera Unione Europea, attraverso una proposta legislativa denominata “Soil Health Law“, dedicata sulla salute dei suoli al fine di ottenere e garantire in futuro il mantenimento di un buono stato di salute dei suoli in tutta l’UE entro il 2050. In Italia, il “Comitato per il Capitale Naturale” ha riassunto così questa visione: “La nostra deve essere la prima generazione che lascia i sistemi naturali e la biodiversità in uno stato migliore di quello che ha ereditato”.
Ci auguriamo perciò che nel nostro Paese questo obiettivo venga finalmente confermato e conseguito, per il bene di tutti, e soprattutto per la vita delle generazioni future. È bene infine precisare che il tema del “Capitale Naturale” non deve essere in alcun modo confuso con le mere forme strumentali dirette all’utilizzo ex legem delle risorse e con la brutale “monetizzazione” della Natura di tradizione economicista e liberista, ma come un nuovo sforzo condiviso e socialmente consapevole di valorizzazione di quanto la Natura – da sempre – ci mette a disposizione in quanto esseri umani partecipanti alla vita generale della biosfera. “Capitale Naturale” non inteso quindi come una merce tra le merci, o come un insieme di merci illimitatamente disponibili, né come autorizzazione a una forma di mercificazione e utilizzazione della biosfera più sofisticata e indiretta, ma come un fondamento naturale essenziale tanto alla creazione e al mantenimento della vita umana sul pianeta quanto alle necessità vitali del pianeta stesso e alla sua conservazione futura, in un insieme dato da tutte quelle risorse, attività e opere che ci permettono di vivere e di prosperare in intelligenza e armonia con la vita stessa del pianeta. Si avverte oggi sempre più la necessità di creare un nuovo patto, una nuova alleanza intesa ad armonizzare il rapporto tra uomo e risorse naturali, che devono essere rimesse al centro della nostra società e della nostra economia per un nuovo progetto di benessere universale, senza il quale entrambe collasserebbero in breve tempo.
Un paesaggio vario e bello, arricchito da elementi naturali locali e caratterizzanti, oggi sempre più fragili e rari (siepi, piccoli specchi d’acqua, dune, spiagge libere, prati fioriti eccetera), dalla presenza abbondante e variegata di specie viventi (si pensi ad esempio, a quelle arboree e avifaunistiche, dalla lunga e stratificata tradizione in termini di attrattività antropologica e sociale), significano ampi benefici in termine di benessere e salute oltre sotto il profilo cognitivo, estetico, turistico, economico ed etico, con ricadute positive anche in termini di stimolo al senso civico e alla cittadinanza attiva, al rispetto del patrimonio naturale comune e dei beni pubblici. E, non ultimi, la crescita di interessi e sentimenti di giustizia ambientale e di convivenza universale e interspecifica tra forme viventi. La sensibilità per il paesaggio induce infatti al consolidamento di una serie di comportamenti virtuosi collegati alla spiritualità, al rispetto per la vita, alla ricerca della pace, all’armonia con il creato. Se la Natura verrà sentita finalmente come entità sensibile, bene prezioso e irrinunciabile per l’umanizzazione dei viventi, e i territori avvertiti come patrimonio di cui avere cura e per cui chiedere cura, ponendo progressivamente rimedio alle ferite sinora inferte agli ecosistemi, non si potrà che produrre un vitale sovvertimento di prospettiva dagli effetti politici inediti e dirompenti, contribuendo in definitiva alla creazione di una nuova tradizione culturale del contemporaneo, a contrasto dei guasti dell’era imperiale della finanza globale e delle “cosmo-tecnologie”.
In un Paese che ha fame di lavoro e che vede spopolarsi le aree interne, queste politiche offrirebbero anche un rimedio concreto e duraturo in termini economici.
La Commissione Europea infatti ha reso noto il saldo economico positivo che il ripristino della natura in aree degradate dalla attività umane andrebbe a generare. Si tratta di un considerevole guadagno, con un moltiplicatore stimato in termini economici “da 4 a 38 euro di incremento di valore per ogni euro speso”, se gli investimenti pubblici in operazioni di ripristino degli ambienti naturali andranno avanti da oggi fino al 2050. Ma questi benefici per economia e lavoro matureranno anche ben oltre quel limite temporale, e si estenderebbero ad altre rilevanti aree sociali e ad attività di ricerca e sviluppo. Si tratta quindi di un investimento innovativo e molto proficuo, per il presente ed il futuro. Non è poi inutile ricordare che il termine “capitale”, come suggerisce l’etimo antico, deriva dall’etimo latino “capitalis“, derivato di “caput – pĭtis” – “capo”, cioè che riguarda il capo, la testa e quindi l’intelligenza e la vita stessa. Gli aspetti economici del “capitale” arrivano dopo, e dovremmo ricordarcelo sempre.
Il sapere antropologico e le conoscenze etnografiche in questo ambito risultano fondamentali per calmierare la corsa senza freni verso la hybris e il cupio dissolvi ai danni di ambiente, natura e paesaggio che delle nostre società consumiste impongono al nostro presente. Gli altri, le società che solitamente consideriamo povere e marginali, ancora mostrano e insegnano l’equilibrio e l’armonia con la biosfera che noi abbiamo perduto e che potremmo ritrovare. Marc Augé, il grande antropologo ed etnografo francese (1935–2023), uno dei più brillanti e originali analisti e critici della società contemporanea, nei suoi saggi ha scritto su questo tema pagine di grande intelligenza prospettica: “In Africa ho imparato ad analizzare la realtà e la simbolica delle relazioni sociali, la maniera in cui queste vengono concepite, interpretate e messe in opera in un dato mondo naturale. In seguito, però, mi è sembrato di dover utilizzare questa capacità d’analisi anche nel mondo occidentale, nel tentativo di smontarne credenze e illusioni… Se i paesaggi contemporanei hanno oggi bisogno di così tante cure ecologiche, è certamente anche per salvare il senso della relazione sociale dell’uomo nel suo luogo e con la sua natura. La pesante vernice globale non deve coprire e annientare la delicata tinta della natura e il suo contesto vitale, con il rischio di cancellare per sempre la coerenza dell’individuo sensibile e della società a scapito della struttura del mondo naturale”.
Augè riporta un esempio tratto dalle sue ricerche etnografiche che risuona qui come un monito: “Tra i nativi nel sud della Costa d’Avorio, il grande Eriodendro, l’immenso albero di Boabab che si staglia al centro del villaggio è l’albero intorno al quale nella concezione locale si dispone e si rende visibile l’ordine simbolico del mondo: esso si applica simultaneamente al paesaggio, alla sua fauna e alla sua vegetazione, agli esseri che ne fanno parte e ai tempi delle nascite e delle morti, in una visione immanente e circolare del mondo, dove la vita rinvia alla morte come lo stesso all’altro o l’esterno all’interno, e inversamente”.
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| Rassegna dei libri |
| Un dizionario per cambiare il mondo |
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Il primo termine del Dizionario di genere, curato da Marzia Camarda e appena edito dalla casa editrice Settenove, è abbandono del tetto coniugale, l’ultimo zoombombing («Intrusione di hater o troll durante una videoconferenza destinata a lezioni universitarie, riunioni o altri tipi di eventi che trattano temi che sono invisi agli hater»). In mezzo ci sono oltre 2.400 parole ed espressioni legate ai «fenomeni di genere». Alcune riguardano termini specifici dei gender studies, che siano economici, storici o culturali (come gender pay gap o manosphere), altre sono parole apparentemente neutrali — da moda a reputazione a single —, ma tutte definite in una prospettiva di genere.
Se sulla Treccani online, per esempio, si trova il termine gattaro, la cui definizione è «Per lo più al femminile, persona affezionata ai gatti, che cura e nutre anche i gatti randagi», nel Dizionario di genere il lemma è subito gattara: «Termine dialettale (di probabile origine romanesca) che fa riferimento alle donne anziane e sole che allevano gatti. Viene usato spesso come insulto sessista riferito alle donne che si professano femministe, oppure alle donne che vengono ritenute poco attraenti secondo il male gaze. Lo stereotipo della gattara deriva dalla tradizionale associazione tra gatto e strega e descrive le donne che si occupano di gatti come vecchie, scontrose e trasandate, non in grado di avere o mantenere una relazione con un uomo. Il maschile di questo termine non viene impiegato».
È, come si vede, un modo completamente diverso di vedere il mondo.
«Il linguaggio, con la sua “forza”, non soltanto descrive la realtà: la costruisce, la plasma e la modifica. Le parole che scegliamo – o che ci vengono imposte – modellano il modo in cui pensiamo, agiamo, resistiamo. Le parole possono essere armi o carezze, possono essere usate per dominare o per liberare» ricorda la filosofa Francesca R. Recchia Luciani nell’introduzione. Riscriverle da una prospettiva di genere significa quindi aprire a nuovi significati e nuove relazioni tra le cose. «Un dizionario di genere non è soltanto un repertorio di definizioni: è un atto politico, un esercizio critico, un dispositivo pedagogico» sintetizza ancora Recchia Luciani.
Il Dizionario di genere di Camarda, il primo di questo tipo in Italia, lo è consapevolmente e infatti censisce in modo sistematico tutti i concetti che riguardano le disparità, gli orientamenti sessuali, le identità, i fenomeni economici e sociali che causano iniquità di genere.La cosa fondamentale, però, è che non “inventa” la prospettiva di genere: la esplicita. I termini che usiamo sono sempre connotati rispetto al genere, di solito quello maschile, che non riconosciamo perché lo assumiamo come punto di vista universale, finendo spesso per perdere i suoi significati più profondi (vedi alla voce gattaro).
I dizionari enciclopedici, fin dalla loro origine, sono stati un modo per riorganizzare la conoscenza e con essa il mondo in cui viviamo, appropriandosene. Questo si vuole aperto, in perenne aggiornamento e soprattutto interconnesso, e infatti ogni termine definito dal dizionario rimanda a una rete di altri termini ad esso legati, che ne definiscono il contesto di comprensione. È una mappa per orientarsi, non un insieme di mattoni che costruiscono un edificio concluso e limitato.
Ma è anche e soprattutto uno strumento prezioso, che con le sue definizioni permette di scoprire qualcosa in più del mondo in cui viviamo. Come nel caso della voce Moltiplicatore di Petrie: «La locuzione – spiega il Dizionario – fa riferimento a fenomeno comportamentale che agisce nei gruppi; in particolare, si tratta di una proporzione secondo cui meno donne sono presenti in un dato gruppo, più queste ricevono interazioni e commenti sessisti. Questa osservazione è frutto di un esperimento proposto dalla scienziata informatica dell’University of Dundee, Karen Petrie». E ha permesso di scoprire «una proporzione diretta per cui in un gruppo in cui gli uomini sono 4 volte il numero delle donne, i commenti sessisti saranno 4 volte più frequenti, quindi ciascuna donna riceverà commenti sessisti», spiega ancora il Dizionario. Oppure della definizione di Money shot: (dall’inglese «ripresa per fare soldi»): «Parte di un film, di un video o di altro tipo di contenuto visivo che risulta molto costoso dal punto di vista della produzione, ma che è essenziale per la redditività di quel contenuto perché è una sequenza memorabile e quindi attrattiva per il pubblico. Il termine si è diffuso nel contesto della pornografia, riferito in particolare all’eiaculazione, atto che viene ritenuto il culmine del film e che risulta molto costoso, perché viene ritenuto dal pubblico la dimostrazione che il rapporto sessuale è reale, anche se in realtà lo sperma finto viene usato molto spesso nell’industria pornografica, proprio in ragione della necessità di rappresentare orgasmi maschili spettacolari, ed è così richiesto che costa più dello champagne e del plasma; allo stesso modo, anche l’uso dello stunt cock è impiegato per rappresentare erezioni dalla durata irrealistica».
Dizionario di genere
Di Marzia Camarda
Introduzione di Francesca Romana Recchia Luciani
Pagine 720, prezzo: € 45
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| Rassegna delle carceri |
| Il collasso (materiale) di Regina Coeli e i due morti di San Vittore |
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Se ce ne fosse bisogno, arrivano due notizie – nascoste, neglette, ignorate dai più – che ci raccontano il carcere e che riguardanola capitale d’Italia, Roma, e l’ex capitale morale, Milano.
La prima è il crollo di una parte di tetto di Regina Coeli. Un pezzo di soffitto di un metro per un metro è precipitato per 20 metri, proprio là dove ogni giorno passano centinaia di detenuti e agenti. Nessun ferito, nessun morto, ma chiaramente non era quello lo scopo del disegno celeste: era un segnale simbolico, un avvertimento, una metonimia divina che annunciava la frana del sistema, il collasso di un modello ideologico, morale ed edilizio. Il sottosegretario Andrea Delmastro Delle Vedove, ha risposto prontamente da par suo, assertivo, in maniera maschia si sarebbe detto nel Novecento: «L’istituto è in sicurezza sotto tutti i profili». Tutti. Anche perché, se così è in sicurezza, se non lo fosse probabilmente sprofonderebbe negli inferi. Non è escluso che succeda visto che, come ricordava oggi Adriano Sofri sul Foglio, ogni 100 detenuti di capienza regolare ce ne sono 180, e quegli 80 potrebbero sprofondare in qualche abisso piranesiano o, più prosaicamente, potrebbero morire di inedia, di rabbia o di soffocamento.
La porzione del tetto di Regina Coeli crollata ieri (Ansa)
Si può morire anche in altro modo in carcere, c’è tutto un ventaglio di opzioni: oltre che per impiccagione, per inalazione di bombolette da gas, per le botte ricevute, per i fantomatici «motivi da accertare», che mai saranno accertati. Ieri – ed è la seconda notizia di cui si parlava -, si è aggiunta una categoria, non nuova, ma che stupisce sempre: si muore per droga.
I giovani scapestrati si drogano, dicono i genitori perbene, perché vivono per strada, perché non hanno nulla da fare, perché frequentano cattive compagnie. In questo caso, due requisiti su tre combaciano: i detenuti non hanno nulla da fare (negli spazi comuni dove potrebbero fare qualcosa ora arriveranno i prefabbricati); e frequentano compagnie davvero poco raccomandabili, salvo che non possono fare altrimenti, visto che i coinquilini e i vicini di condominio glieli assegnano d’ufficio. L’unica condizione che non corrisponde è che non vivono per strada, ma giorno e notte in «camere di pernottamento» (sì, le celle) grandi tre metri per tre, se va bene.
Dunque nel vetusto carcere di San Vittore (ascolta la puntata dedicata di Radio Carcere) è successo che tra ieri sera e questa mattina si sono trovati due cadaveri: un detenuto, pare, morto per abuso di oppiacei; l’altro, pare, per emorragia gastrica. Altri tre detenuti sono messi parecchio male e sono ricoverati. Una coincidenza, certo. Perché nelle carceri non circolano stupefacenti, vero?
La domanda è retorica, naturalmente. Perché, come diceva un ex detenuto in una chat in queste ore, «il carcere è la piazza di spaccio più grande d’Italia» (e uno dei posti più criminogeni del Paese). E come dice sempre quel benemerito che è l’ex direttore di San Vittore, Luigi Pagano, ora garante milanese: «Il sistema carcerario in Italia oggi è illegale». E l’illegalità alligna dove c’è il buio, l’oscurità, la mancanza di trasparenza. Su quest’ultimo punto, il nostro sistema è un’eccellenza assoluta: nulla si sa, nulla trapela, nulla si può vedere. Solo qualche dato sparso, fornito periodicamente dal Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Dichiarazioni stentoree di sottosegretari e «piani carcere» del ministro Carlo Nordio, che ne fa uno ogni sei mesi e poi sparisce fino al successivo. Piani che, naturalmente, rimangono sempre e solo sulla carta. Intanto, mentre il sistema crolla, mentre i detenuti muoiono, «si indaga».
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| Rassegna dell’Arte / Capolavoro! |
| Elisabetta Sirani, la pittrice che osò metterci la firma |
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Bologna, seconda metà del Seicento. Nella città più importante dello Stato Pontificio dopo Roma, la cultura è un fermento di botteghe, scuole, commissioni. Tutti parevano aver bisogno di qualcosa da contemplare: un quadretto devozionale al quale dedicare le preghiere quotidiane, un ritratto da tenere in casa e sigillare così una vita agiata anche se pur sempre all’ombra della Chiesa, una scena biblica. È anche grazie a questa vitalità creativa che le porte si aprono alle donne (come sempre, del resto: se si allargano le vedute c’è spazio per tutti e tutte). E così nella bottega dell’allievo prediletto di Guido Reni, Giovanni Andrea Sirani, spicca una ragazza abile e veloce nella pittura: Elisabetta, una delle tre figlie dell’artista.
Resta a lungo a guardare il padre all’opera, ne imita il tocco delicato, studia attentamente l’uso dei colori, sperimenta le emozioni nei visi dei santi che raffigura nei piccoli quadri di preghiera, quelli che si vendevano benissimo e che, dunque, la resero famosa in tutta Bologna, in poco tempo. Sirani non ha fretta. Capisce presto che il matrimonio (destino pressoché scontato per le ragazze di buona famiglia) non sarà il suo approdo, perché sin da giovane riceve apprezzamenti entusiasti per il suo lavoro. D’altra parte, aveva negli occhi l’esempio di un’altra bolognese, Lavinia Fontana, la prima donna a misurarsi con una pala d’altare, capobottega e madre di undici figli che sfamò con il suo lavoro di pittrice.
Giuditta con la testa d’Oloferne, 1658
Prima i quadretti con le immagini dei santi, poi i ritratti, quindi le commissioni dalle corti, italiane e non solo. Poco per volta, innestò nel suo lavoro elementi di grande originalità. Per esempio, invitava i notabili della città ad assistere alle sue sedute di pittura, per eliminare ogni sospetto: all’epoca era facile malignare che dipinti così ben definiti e pieni di personalità potessero essere opera di un uomo, anziché una donna. Sirani andò però oltre: cominciò a formare lei stessa, in casa, un gruppo di apprendiste, di fatto succedendo a suo padre, avvenimento inedito. L’ufficializzazione avvenne nel 1662, quando diventò a tutti gli effetti capobottega (l’artrite aveva devastato le mani di Giovanni Sirani), ma questa formazione al femminile era cominciata anche prima, con le sorelle e con pittrici quali Veronica Fontana e Lucrezia Scarfaglia. L’apice arrivò con l’ingresso nell’Accademia di San Luca, a Roma, in qualità di «professore».
Timoclea uccide il capitano di Alessandro Magno, 1659
Elisabetta aveva poco più di vent’anni e il suo successo non si misurò soltanto con le commissioni prestigiose o con il numero delle opere vendute. C’è qualcosa di più sottile nella vita di questa donna e uno dei suoi dipinti più famosi, oggi nella Galleria di Capodimonte, lo racconta bene. Il soggetto nasce dalle pagine di Plutarco: Timoclea, nobildonna di Tebe. Una matrona che venne violentata da un comandante della Tracia alleato di Alessandro Magno. Lei, per vendicarsi, lo attirò nei pressi di un pozzo, facendogli credere che nel fondo ci fosse un tesoro. L’uomo, sporgendosi, firmò la propria condanna a morte perché Timoclea, con un gesto rapido, lo fece precipitare nel buco. La storia ha un epilogo: portata al cospetto di Alessandro Magno, la donna avrebbe dovuto ricevere una punizione, ma il re, colpito dal suo coraggio, le concesse la grazia.
Porzia che si ferisce alla coscia, 1664
Che cosa fa Elisabetta Sirani nel raffigurare questo soggetto storico? Ribalta la visione comune, o, meglio l’iconografia più diffusa, cioè la rappresentazione di Timoclea che, piena di paura, si presenta al cospetto di Alessandro Magno per chiedere perdono. Tanti artisti l’avevano, e così faranno in seguito, raffigurata così, per esempio Domenichino. Sirani cambia prospettiva e coglie invece il momento in cui Timoclea fa cadere nel pozzo l’uomo che le ha usato violenza, con una forza e un’energia fisica che ricordano «Giuditta e Oloferne» di Artemisia Gentileschi. Ma non solo.
Elisabetta Sirani è perfettamente consapevole della propria firma, cosa quasi unica in un’epoca in cui la stessa firma (sia maschile che femminile) aveva scarso valore, perché contavano i sigilli e altri simboli del potere. Quella di una donna, poi, non aveva alcun valore legale. Eppure, Sirani riserva molta attenzione alla propria firma. La imprime sulla passamaneria di un cuscino, come un ricamo, oppure disegnando un rebus sui bottoni di un abito.
Decide, insomma, di considerare la firma – e, dunque, la propria identità d’artista – come un dipinto nel dipinto, più che un semplice atto notarile. Le lettere del suo nome, dipinte nei modi più fantasiosi, entrano in un gioco che mescola creatività, autodeterminazione, precisa volontà di ribadire un’appartenenza. L’equivalente pittorico della decisione di aprire le porte del suo studio e lasciare assistere altre persone all’esecuzione di un dipinto. Il suo (entusiasta) biografo Carlo Cesare Malvasia, di lei scrisse: «Gloria del sesso donnesco, gemma d’Italia, sole d’Europa, l’Angelovergine che dipinge da homo, ma anzi più che da homo». Voleva farle un complimento, se non si fosse capito. E in effetti il successo raggiunto in vita da Sirani equivaleva a quello di un uomo, anzi, forse arrivò ad essere anche maggiore.
Dettaglio della firma nella raffigurazione di Galatea
Ma poi le cose precipitarono: morì a soli 27 anni in un clima tesissimo, denso di sospetti (a lungo si è parlato di avvelenamento da parte di una delle allieve, o forse della donna di servizio). E la sepoltura oggi ha il gusto amarognolo di una beffa: i suoi resti riposano accanto a quelli dell’artista più famoso di Bologna, Guido Reni, nella chiesa di San Domenico. Come a dire: le è toccata una tomba a doppia firma.
Ma come tutte le rivincite anche quella di Elisabetta Sirani ha richiesto il giusto tempo: nel secolo scorso le hanno intitolato un cratere sul pianeta Venere e un francobollo statunitense raffigurante una sua Madonna, prima opera d’arte fatta da una donna a comparire nel servizio postale.
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| Rassegna della Pace / Da «7» |
| María Corina Machado, dalla clandestinità al Nobel: «Maduro sarà sconfitto, ne sono certa» |
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Ripubblichiamo l’intervista alla leader dell’opposizione venezuelana a cui oggi è stato assegnato il Premio Nobel per la Pace 2025. Era uscita su «7» il 24 novembre 2024.
María Corina Machado è vicinissima al monitor. La luce dello schermo le illumina il viso e la camicetta azzurra. In alto, a destra e a sinistra, si vede solo bianco, il muro. Nessun dettaglio ci consente di capire dove si trovi la leader dell’opposizione venezuelana. Dal 30 luglio ha fatto perdere le sue tracce. Parla con 7 da un luogo sconosciuto. «Sono in Venezuela», assicura.
«Vivo nascosta. Sola, senza nessun contatto umano», dice Machado, a cui è stata negata la corsa alle elezioni presidenziali, seppur il 22 ottobre 2023 abbia vinto le primarie dell’opposizione con oltre il 90 per cento dei voti. Così, il 28 luglio, è toccato all’ex diplomatico Edmundo González Urrutia, 75 anni, sfidare l’autocrate Nicolás Maduro, al potere dal 2013.
Eppure, lei, ingegnera, fondatrice del partito politico liberale Vente Venezuela, ex deputata della Assemblea Nazionale, è l’unica speranza del popolo per interrompere decenni di regime. In clandestinità, ora, riallaccia i fili della democrazia: «Ogni giorno ho riunioni su riunioni, incontro migliaia di persone di tutto il mondo, però non posso toccare nessuno. Arrivo sullo schermo e mi viene voglia di abbracciare», racconta mentre si sporge in avanti. Per lungo tempo ha atteso una data: il 10 gennaio 2025. Il presidente eletto ha prestato giuramento. Nicolás Maduro sostiene che sarà di nuovo lui a capo dello Stato. Machado aggrotta le sopracciglia e picchia un pugno sul palmo della mano sinistra. Batte le nocche: «Non può andare così».
Machado beve da un bicchiere e si asciuga gli angoli della bocca con un tovagliolo.«Il 28 luglio ha vinto Edmundo González Urrutia 70 a 30, 40 punti di differenza, se tornassimo a votare ora vinceremmo 90 a 10. Nessuno avrebbe accettato di fare le elezioni a quelle condizioni: ci minacciavano, ci perseguitavano. Quando abbiamo raccolto e pubblicato online il conteggio dei voti, il mondo intero ha avuto le prove della sconfitta di Maduro. E che cosa ha deciso di fare Maduro? Reprimere: in una settimana, oltre 2 mila incarcerati».
Da settembre, González è in esilio in Spagna. Tornerà?
«Io ed Edmundo siamo una grande squadra. Lui è stato costretto a firmare una lettera e andarsene, se fosse rimasto lo avrebbero imprigionato. Quel foglio non vale niente, è un’autocondanna di Maduro, dimostra che il regime estorce, ricatta. Edmundo tornerà e sarà il nuovo presidente, come ha deciso il popolo».
Sembra parecchio sicura. Come mai è tanto convinta della fine del regime?
«Mai in 25 anni siamo stati così vicini dalla sconfitta della tirannia cominciata con Chávez. L’opposizione è più forte. Abbiamo il 90 per cento del Paese unito. La gente ha aperto gli occhi dal massiccio fallimento del socialismo chavista: prima dipendeva dallo Stato, ora dice basta. Non siamo liberi se non abbiamo la proprietà privata».
Fu proprio lei a dire nel 2012 a Chávez: «Espropriare è rubare».
«Il Paese era d’accordo con me, ma non tutti osavano dirlo, ora sì. Quello che abbiamo vissuto va oltre Maduro: adesso è una lotta esistenziale per la vita, una lotta etica per la verità e una lotta spirituale per il bene. Non si torna indietro».
Qual è il prezzo che paga?
«Sono più di dieci anni che non mi permettono di uscire dal Venezuela. Da oltre sette non posso prendere un volo nazionale. L’ultimo aereo privato con cui ho volato è stato sequestrato. Mi spostavo solo con la mia macchina. Negli ultimi mesi il regime ha persino bloccato le strade affinché non attraversassi le città. Hanno chiuso e multato gli hotel e i ristoranti dove mi sono fermata. Era diventata una caccia feroce».
La leader dell’opposizione venezuelana María Corina Machado saluta i sostenitori durante un comizio a Guanare, in Venezuela, il 17 luglio 2024
Com’è cambiato il Paese?
«Nel 2023 il Venezuela era visto come uno Stato alla deriva, triste, oscuro, diviso, senza speranza. Fuori si diceva: “Dimenticate le elezioni del 2024. Semmai preparatevi per il 2030”. Lì ho detto: no, ogni giorno che passa sono bambini sempre più affamati e che non vanno a scuola. Così abbiamo visitato tutto il Paese, municipio per municipio. Sono stata in comunità piccolissime di 30 o 40 famiglie. Chiedevano perché andassi proprio là. “Non ci sono voti”, mi dicevano».
Che cosa rispondeva?
«Che non avevano capito niente. Non si tratta di voti, ma di unire il Paese. In un municipio l’ultimo candidato presidenziale era passato negli anni Settanta. Altri comuni non lo avevano mai visto. Il regime era convinto che nessuno sarebbe andato a votare alle nostre primarie, invece sono stati quasi tre milioni. La gente mi aveva scelto, nonostante le minacce che già subivo. Tutti stavano sfidando la tirannia. Lì Maduro si è reso conto che questo movimento era inarrestabile, così ha cercato di bloccarmi, squalificandomi dalle presidenziali. Allora sono riuscita a presentare la candidatura di Corina Yoris. Non l’hanno lasciata correre. Poi, Edmundo González. Penso che Maduro abbia paura delle donne».
Perché paura?
«Perché sa che noi siamo disposte a dare tutto per i figli. Per molti anni mi hanno sottovalutata, non solo il regime, anche i partiti tradizionali e la gente. Il Venezuela è considerato uno Stato machista. Molti hanno creduto che non avrei ottenuto il sostegno del popolo. Invece se qualcosa mi ha aiutato in questa lotta è proprio il fatto di essere donna».
Dove sarebbe il vantaggio?
«Sa che cosa unisce i venezuelani? Che cosa bramano? Riportare i figli a casa. Il sistema ha espulso quasi il 30% della popolazione, qui non c’è una sola famiglia unita. Le persone mi supplicavano: “María Corina, riportami i miei figli”. Il Paese ha bisogno di protezione e comprensione. In famiglia, generalmente siamo noi madri che guariamo le ferite. Non voglio più che la gente se ne vada, desidero che ritorni a ricostruire il Venezuela».
Che cosa chiede all’Europa?
«Che cosa ha fatto finora? Molto bene le dichiarazioni, ma non bastano. Deve agire, far sapere ai criminali che stanno uccidendo i venezuelani che la giustizia internazionale passerà all’azione. L’Europa sa che Maduro ha rubato le elezioni e ha commesso crimini di lesa umanità. Lui ha legami con l’Iran, con la Russia, con la Bielorussia, con la Siria, con Hezbollah, con i cartelli della droga, con le guerrillas colombiane».
Che cosa vuole dire invece all’Italia?
«Ringrazio l’Italia. Giorgia Meloni è diventata la voce più solida in difesa del Venezuela in Europa. Ma abbiamo bisogno di voi adesso, non a gennaio. Il regime ha profonde fratture interne e solo mettendogli pressione arriverà al punto in cui rimanere con la forza al potere avrà un costo più alto che lasciarlo».
L’elezione di Trump è una buona o cattiva notizia per il Venezuela?
«Il regime è terrorizzato dal risultato delle elezioni americane. L’opposizione è riuscita a far sì che la lotta venezuelana sia una causa bipartisan perché è un tema di sicurezza nazionale. Ho amici senatori democratici e repubblicani. Sono convinta che la nuova amministrazione continuerà a insistere affinché Maduro capisca che l’unica opzione che gli resta è andarsene».
Ha parlato con Maduro?
«No, mai, ma sono disposta a negoziare la transizione verso la democrazia a partire dal riconoscimento delle elezioni del 28 luglio e i termini di uscita del regime».
Quando arriverà la democrazia?
«La transizione non ha una data di scadenza, siamo all’inizio di una nuova era. Porteremo lo stato di diritto, avremo una giustizia solida e indipendente, un Venezuela che aprirà i mercati. Trasformeremo il sistema educativo, quello previdenziale e sanitario. Da essere l’hub criminale delle Americhe diventeremo l’energy hub del continente».
María Corina Machado compra frutta in una bancarella a Maturín, Venezuela
Che cosa le dicono i suoi figli?
«Molte cose, a volte sono spaventati, altre orgogliosi. Mi appoggiano sempre».
Da quanto tempo non li vede?
«Dallo scorso Natale».
Ha raccontato di sentirsi in colpa.
«La lotta al senso di colpa è qualcosa che non ho ancora risolto. Per me questo non è un lavoro, è una forza che dà senso alla mia vita. Non mi cambierei con nessun’altra persona e non vorrei stare in nessun altro luogo. Ringrazio Dio per essere nata qui, ma ho dovuto portare via i miei tre figli dal Venezuela in un momento in cui sentivo che la loro vita era in pericolo (distoglie lo sguardo dallo schermo; ndr). Se fossero rimasti con me, non sarei riuscita a mandare avanti il mio lavoro per il Paese».
A che cosa ha rinunciato?
«Sono stata l’unica madre non presente alla loro laurea. Il piccolo mi consolava: “Mamma tu sei qui” (indica lo schermo sul telefono; ndr) e metteva la mia foto, “sei l’unica mamma che è salita sul palco con me a ricevere il diploma”».
Lei prega?
«Prego e anche più di prima».
Che cosa chiede?
«Chiedo a Dio che si prenda cura di me, che mi dia serenità, lucidità, umiltà e forza per prendere le decisioni giuste. Questo è un momento molto duro, ma apprezzo di più la famiglia, non ho mai apprezzato come adesso un abbraccio».
Come mai la chiamano Lady di ferro?
«Non lo so (ride; ndr) ».
Dicono che somigli un po’ a Margaret Thatcher, si ritrova?
«In questi anni non ho curato molto i sentimenti. Ero un po’ frenata, avevo una specie di corazza. Poi mi sono ritrovata circondata di gente, baci, abbracci, carezze, canti. Le persone si avvicinavano per confessarmi le loro paure, i loro desideri. Aprendo il loro cuore sono riuscite ad aprire anche il mio. Piangevano e piangevo».
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| Rassegna cinematografica |
| Perché i prof di Guadagnino hanno perso il derby veneziano con il Presidente di Sorrentino |
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C’è qualcosa di troppo affilato nei dialoghi di After The Hunt – Dopo la caccia per essere autentici, masticabili, digeribili. Storia di quattro persone colte e stressate, vite ultraccessoriate che si perdono in un labirinto concettuale in cui vengono ripensate/ridefinite le relazioni, tra loro e con il prossimo. È come se, da una torre d’avorio culturale, i quattro, tutti legati all’università di Yale, New York, chiedessero una quota di infelicità per sedare un latente senso di colpa.
La sfida che Guadagnino si pone è alta: parlare d’amore e di Kirkegaard, citare Thomas Mann, Adorno e Aristotele, raccontare lo smarrimento della generazione che sta tra i quaranta e i cinquant’anni, tornare sul rapporto tra vero, verosimile e fasullo e sul distacco filosofico che serve verso un mondo che si vuole misero, applicando la materia al #metoo, al patriarcato diffuso, agli uomini che molestano le donne, alle manipolazioni intellettuali. Pensando – ovvio – all’ironia del miglior Woody Allen.
Andrew Garfield e Julia Roberts in After the Hunt
Incontriamo il quartetto durante un party nella magnifica casa di Alma Imhoff (Julia Roberts), stimata docente in carriera, ma asprigna, bloccata, per niente materna, capelli biondi da dark lady, facile a dare di stomaco. Alma non ama più, o forse non ha mai amato il marito, lo psicanalista Frederick (Michael Stuhlbarg), che invece l’adora ma avendo capito l’antifona ha scelto di scavarsi una nicchia alternativa tra i libri, spadellando in cucina, dispensando saggezza, svicolando quando manca l’aria.
Lei ha una specie di orologio in testa che scandisce i suoi risvegli e gli incontri-scontri con il più giovane collega Hank (Andrew Garfield), anticonformista fragile e con un evidente tratto maschilista. Nel gruppo degli amici c’è anche la studentessa nera, sedicente lesbica Maggie (Ayo Edebiri), l’allieva prediletta che a un certo punto confessa ad Alma di essere stata stuprata da Hank. Alma trasecola, indaga e si tormenta, pronta ad affrontare lo tsunami dei pettegolezzi dell’ambiente accademico. L’architettura dei rapporti si guasta, trascinando i quattro malmostosi a un redde rationem con sé stessi. Affiora il dubbio: Hank ha davvero violentato Maggie?
La capacità di Guadagnino di voltare pagina, cambiare registro, rinnovare il design psicologico è il tratto migliore del suo bagaglio di autore. Da The cannibal e Queer, entrambi proposti a Venezia, il passo è molto lungo. Eppure, Guadagnino ha la capacità di farlo sembrare breve. After The Hunt è invece un film distante, spesso irraggiungibile, costruito su temi importanti ma banalizzato nello schema del simposio culturale: come un harakiri, niente di più efficace per arrivare alla catastrofe sentimentale. Ed è proprio per questa distanza che a Venezia82 i professori snob di Guadagnino hanno meritatamente perso il derby d’Italia con l’umanissimo Presidente de La grazia di Paolo Sorrentino. E poi guardate Julia Roberts: è oggettivamente adorabile, ma in certi passaggi del film sembra venire da un altro pianeta. Lontano, lontano.
AFTER THE HUNT di Luca Guadagnino (Usa, 2025, durata 139’, Eagle Pictures) con Julia Roberts, Ayo Edebiri, Andrew Garfield, Chloe Sevigny, Michael Stuhlbarg
Giudizio: 3 ½ su 5
Nelle sale dal 16 ottobre
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| Rassegna musicale / 63 |
| La Playlist della settimana: i Geese da Brooklyn e i Selton da Nolo |
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Se state ascoltando e riascoltando il nuovo disco della nuovissima band che i critici e le riviste definiscono «un capolavoro», «il disco dell’anno» e «la rivelazione del secolo» e non riuscite a farvelo piacere neanche al sesto ascolto, potrebbe essere per questi tre motivi: 1 non sapete nulla di musica 2 siete rimasti fermi ai Genesis 3 non l’avete ascoltato bene. Il motivo più probabile potrebbe essere però il quarto: non è un capolavoro e non è la rivelazione del secolo. Se ve lo dicono, potrebbe essere per questi tre motivi: 1 perché i critici ci tengono a scoprire capolavori e si auto suggestionano 2 perché i critici altrimenti si annoiano 3 perché il marketing ha lavorato bene e voi siete le vittime designate. La quarta ipotesi, rarissima, la meno probabile, è che sia davvero un capolavoro. Detto questo, eccoci alla nostra playlist della settimana, con le nostre canzoni che anche stavolta, purtroppo, non sono capolavori (ma si fanno ascoltare, attenti ai Geese). La trovate qui con 193 brani e 12 ore di ascolto.
Geese – «Get killed» – «Long Island City Here / Come»
«I knew a man / Big and fat, born without arms or legs / Born to jump in the air and clap»
Una band di Brooklyn che fonde rock vintage stile anni ’70, Krautrock e psichedelia, con una buona dose di originalità e una personalità che il terzo album conferma in pieno. Testi non particolarmente allegri: paranoia, angoscia e schizofrenia. Musica non sempre di facilissimo ascolto. Ma la voce di Cameron Winter spacca, le chitarre distorte, la follia trattenuta, i crescendo epici e tutto il resto dell’armamentario ci danno la netta sensazione che aveva ragione Neil Young: «Rock and roll can never die». Al limite si trasforma e i Geese lo sanno plasmare molto meglio di altri. Un album, ci si consenta lo scarso tecnicismo, è bello se lo ascolti, smetti di fare quel che facevi e dici: ma questi chi sono? I Geese, quattro ventenni da ascoltare.

Selton – «Gringo Vol. 2» – «Panda 2013» (con Emma Nolde)
«Dovrei essere soddisfatto, viva Nolo, niente più pasta col tonno»
Siamo affezionati a questo gruppo scombinato, che è partito dal Brasile, poi ha suonato per strada canzoni dei Beatles a Barcellona, infine è arrivato a Milano e ha incrociato Cochi e Renato ed Enzo Jannacci e insieme hanno fatto un disco fenomenale, quasi commovente (Banana à Milanesa), poi hanno preso una strada tutta loro, molto milanese e molto brasiliana, scanzonata ma intelligente, impegnata e divertente, tra il Derby e Chico Buarque, tra il pop demenziale e il tropicalismo. In questo nuovissimo disco, uscito oggi, ci sono molte collaborazioni (Giulia Mei, Gaia, Emma Nolde, Baustelle), perché nel Dna di questo gruppo c’è l’apertura al mondo, il divertimento, il romanticismo («chi ci ammazza a noi, a me di sicuro gli occhi tuoi»), la confusione, la condivisione, la bellezza.
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