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venerdì 10 ottobre 2025

Ballare di gioia a Gaza e a Tel Aviv

Ballare di gioia a Gaza e a Tel AvivBambini ieri a Nuseirat, nella Striscia di Gaza (Afp)

di   

Buongiorno. È solo una tregua? O l’inizio di una pace vera? È un accordo troppo fragile e i peggiori di una parte e dell’altra lo saboteranno? Trump pensa solo al Nobel per la Pace (lo assegnano stamattina) e poi si stuferà? Netanyahu e Hamas bluffano?

 

Sono tutte domande legittime e sono quelle che si rincorrono nei dibattiti pubblici come nei colloqui riservati. Tra la gente comune – che ormai è chiaro, di Gaza si è appassionata – e tra politici e diplomatici di tutto il mondo.

 

Ma mentre arriva, nel cuore della notte, il primo sì ufficiale del governo israeliano al Piano di pace del presidente americano, gli unici giudici possibili di questa svolta sperabilmente storica sono quelli che stanno esultandoi bambini di Gaza e i loro genitori ancora vivi, e – giusto a una settantina di chilometri di distanza – i parenti degli ostaggi israeliani.

 

Se loro esultano, come si può non esultare con loro?

Ballare di gioia a Gaza e a Tel AvivGioia in “piazza degli Ostaggi” a Tel Aviv (Getty)

Le incognite non mancano, certo: ancora ieri gli israeliani hanno bombardato, dieci persone sono state uccise, qualche decina è rimasta intrappolata nelle macerie. Ma oggi, a tregua accettata da tutti, non dovrebbe morire nessuno. Oggi 60-70 persone – la media dei palestinesi uccisi quotidianamente negli ultimi mesi – resteranno vive. Domani pure, Dopodomani ancora. E tra due o tre giorni, gli ultimi venti ostaggi israeliani vivi usciranno dai tunnel.

 

È chiaro che non può bastare, è chiaro che servirà una pace vera, uno Stato per chi non ce l’ha, sicurezza per tutti.
Di sicuro però, perfino per chi fa il nostro lavoro, per chi deve raccontare senza tregua questa tragedia nello sforzo continuo di spiegare i fatti e controllare le passioni, questo è il migliore degli ultimi 735 giorni.

Parleremo un po’ anche d’altro in questa newsletter: politica, manovra economica, qualche storia di cronaca. Ma il nocciolo è lo spiraglio di pace, quello che per cui milioni di persone sono scese in piazza in queste settimane in tutto il mondo. Anche in Italia, come ha ricordato il bambino di Gaza che ieri ha sventolato la nostra bandiera: era un grazie a chi ha sventolato per giorni la sua, spingendo tutti a lavorare di più per la pace.

 

Ballare di gioia a Gaza e a Tel Aviv

Il tricolore sventolato ieri a Gaza

 

Benvenuti alla Prima Ora di venerdì 10 ottobre.

 

L’ora del cessate il fuoco

L’intesa, le reazioni, le incognite: punto per punto.

 

  • Il sì di Israele Cominciamo dalla fine, dall’ultimo sviluppo arrivato nella notte, il più importante: il governo ha approvato la prima fase del piano Trump, al termine di una riunione cui hanno partecipato gli inviati del presidente Usa, Steve Witkoff e Jared Kushner. Poco prima dell’una, il primo ministro Netanyahu ha postato su X queste parole: «Il governo ha appena approvato la bozza di accordo per il rilascio di tutti gli ostaggi, sia vivi sia deceduti». Nessun altro cenno: solo gli ostaggi. Poco dopo, un video in cui il premier ringraziava gli americani e ricordava il sacrificio dei soldati israeliani.

 

  • È un sì unanime? No. Cinque ministri di estrema destra – tra cui i più noti, Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich – hanno votato contro l’accordo, approvato a maggioranza. Ben-Gvir si è rivolto a Witkoff, attraverso un interprete, dicendogli che «un accordo con Hamas è come un accordo con Hitler».

 

  • Il sì di Hamas Ben diverso l’annuncio del movimento palestinese, un alto funzionario, Khalil al-Hayya: «Abbiamo ricevuto garanzie dai mediatori e dall’amministrazione americana, e tutti hanno confermato che la guerra è completamente finita. L’accordo prevede l’ingresso degli aiuti, l’apertura del valico di Rafah e lo scambio di prigionieri».

 

  • La prima differenza da notare È questa: l’asciuttezza del sì israeliano, concentrato sulla questione ostaggi. E l’enfasi del sì di Hamas, che si spinge a proclamare la fine “completa” della guerra. In questi due anni è sempre stato il punto su cui sono finite le tregue e sono falliti i negoziati successivi: Hamas chiedeva la fine della guerra, Israele rispondeva che l’obiettivo era la fine di Hamas.

 

  • E adesso? Adesso Stati Uniti e Qatar avrebbero dato a Hamas la garanzia che Israele non riprenderà le ostilità dopo la seconda fase dell’accordo, che è comunque tutta da concordare. Intanto l’organizzazione islamista sembra crederci, visto che si accinge a rinunciare alla sua unica carta negoziale: gli scudi umani.

 

  • «Ostaggi liberi lunedì o martedì» A dirlo, già prima degli annunci delle due parti, è stato Donald Trump in persona, aggiungendo che a quel punto «Israele ritirerà le proprie truppe lungo una linea concordata». Il presidente Usa ha detto anche che sarà in Israele la prossima settimana e che la cerimonia della firma si terrà in Egitto.

 

  • Ma è certo il rilascio in blocco? No. Anche se il piano Trump stabilisce che la liberazione debba avvenire entro 72 ore (a partire dal “sì” di stanotte), nessuna delle parti, israeliani compresi, esclude che il rilascio avvenga invece in più fasi. Non a caso, verrà istituita una task force internazionale per localizzare gli eventuali ostaggi dispersi. Per i cadaveri – altra parte fondamentale dell’accordo – potrebbero servire diversi giorni o settimane perché la stessa Hamas afferma di non poterli localizzare con certezza dopo una fase convulsa di combattimenti e spostamenti.

 

Ballare di gioia a Gaza e a Tel Aviv

 

  • E il ritiro israeliano? L’esercito dovrebbe cominciare a ritirarsi 24 ore dopo l’annuncio del governo, idealmente per consentire il reperimento degli ostaggi. Attualmente le forze israeliane sono attestate sulla linea blu che vedete sulla mappa qui sopra, e il primo ritiro dovrebbe avvenire sulla linea gialla. Nella seconda fase, all’arrivo della prevista “Forza di stabilizzazione internazionale”, gli israeliani dovrebbero ritirarsi sulla linea rossa. Per poi attestarsi definitivamente sulla linea grigia, la zona cuscinetto che intendono mantenere sine die, per sigillare Gaza.

 

  • Il rilascio dei prigionieri E’ la concessione più importante ottenuta da Hamas sul piano politico: 250 detenuti palestinesi, alcuni con pluri-condanne all’ergastolo. Tra loro non dovrebbe esserci Marwan Barghouti, leader storico di Al Fatah, popolarissimo tra tutti i palestinesi: Israele dice no.
  • Intanto entrano gli aiuti Già ieri è aumentato il flusso di camion carichi di beni di prima necessità per una popolazione stremata da fame, denutrizione, malattie e spostamenti continui. Dopo il disastro della gestione da parte di Israele e Usa – con gli eccidi quotidiani di civili accalcati con le ciotole in mano che hanno indignato il mondo – il flusso tornerà sotto l’egida dell’Onu e di altre organizzazioni internazionali.

 

  • E la seconda fase dei negoziati? Dovrebbe iniziare dopo il rilascio degli ostaggi. E sarà chiaramente quella decisiva per la tenuta della tregua e la sua graduale trasformazione in una pace stabile. In base al piano Trump, i colloqui – sempre mediati da Usa, Qatar, Egitto e Turchia – dovrebbero affrontare i temi chiave: disarmo di Hamas, istituzione di un Comitato tecnocratico palestinese che amministri la Striscia con il monitoraggio di un “Consiglio di pace” internazionale guidato da Trump e dall’ex premier britannico Tony Blair. Il piano prevede infine il ritorno a Gaza dell’Autorità nazionale palestinese, ma solo dopo “riforme significative”, e ipotizza un percorso per un futuro Stato palestinese.

 

  • Quali sono le incognite maggiori? Riguardano la reale volontà delle due parti di rispettare i termini del piano.

    La prima
     è dunque il disarmo di Hamas che, se effettivo, equivarrebbe a una resa (in cambio della quale i suoi membri avrebbero un salvacondotto per l’estero). L’ala militare parrebbe orientata a rinunciare ai (pochi) razzi che le sono rimasti, ma non ai kalashnikov.

    La seconda è il ritiro israeliano
    : senza un calendario preciso, resta aleatorio. Di ufficiale c’è solo l’annuncio, dato ieri, che manterrà per ora il 53% del territorio della Striscia.

    La terza riguarda i prigionieri:
     il rifiuto israeliano di liberare Marwan Barghouti – per il quale spinge da tempo la diplomazia internazionale – appare come un segnale (ulteriore) che Israele si opporrà in ogni modo a uno Stato palestinese. Barghouti è considerato infatti un leader credibile per carisma, popolarità e pragmatismo, un “Mandela palestinese” che una volta libero sarebbe una guida molto più efficace dello screditato presidente dell’Autorità palestinese Mahmoud Abbas (90 anni tra un mese).

    Infine, la Cisgiordania,
     grande assente nel piano Trump, eppure evocata indirettamente nell’accenno al percorso verso uno Stato palestinese. E’ il percorso che il governo israeliano intende impedire con la continua intensificazione delle colonie e la condotta sempre più aggressiva verso i palestinesi da parte di coloni e soldati. Intanto, però è fondamentale che il piano Trump abbia escluso esplicitamente sia la deportazione dei palestinesi da Gaza sia la sua annessione da parte di Israele.

 

  • Ma dunque Trump merita il Nobel? La questione è controversa. E le controindicazioni note: le tendenze autoritarie interne – ma i contrappesi per ora tengono: nella notte un giudice ha bloccato per due settimane lo schieramento della Guardia nazionale nell’area di Chicago – ma anche la politica estera erratica, le minacce alla Danimarca per il controllo della Groenlandia, il lungo appeasement nei confronti di Putin, le mire immobiliari su Gaza.

    Ma ora proprio Gaza sposta tutto.
     La pace in Medio Oriente, dunque la vita di un numero incalcolabile di esseri umani, sarebbe un merito storico senza precedenti. Perché in molti ci hanno provato, ma nessuno con la determinazione incosciente, rozza, disinformata, superficiale, contraddittoria, esasperante, disperante eppure testarda e alla fine efficace che sta mostrando Trump. Molto, molto, molto più di Joe Biden e dello stesso Barack Obama, che il Nobel l’ha avuto per motivi misteriosi.

 

  • Ma lo daranno, a Trump, il Nobel? È estremamente improbabile, anche perché pare che il Comitato norvegese che lo assegna abbia deciso tutto già lunedì, e non abbia gradito in questi mesi le fortissime pressioni del rumoroso candidato. Ma chissà. (Qui il Dataroom di Milena Gabanelli e Francesco Battistini sulla sfrenata voglia del premio esibita dal presidente americano, qui l’editoriale di Massimo Gaggi sul «metodo Trump e le strade della forza»).

 

  • Due commenti autorevoli Purtroppo non proprio ottimisti. Ma si tratta di due dei migliori analisti del mondo sulle questioni mediorientali.

    Gilles Kepel
     (intervistato da Lorenzo Cremonesi):

    «Non credo che i militanti di Hamas siano disposti ad andare in massa in esilio. I vecchi capi sono morti. C’è una nuova generazione di miliziani più duri e violenti che mai. Anzi, di più: io vedo tutti i segnali di una ripresa del terrorismo jihadista in nome della causa palestinese sia in Medio Oriente che in Europa».

    Vali Nasr
     (intervistato da Viviana Mazza):

    «Non vedo la pace a Gaza perché gli israeliani e Netanyahu non sono stati partner volontari di questo processo, sono stati costretti da Washington, sono partecipanti riluttanti, prenderanno le vittorie che possono, incluso il rilascio degli ostaggi, ma non penso siano convinti di un accordo che resta in contrasto col modo in cui Netanyahu ha definito gli obiettivi della guerra a Gaza».

 

  • E l’Italia, in tutto questo? L’Italia c’è. C’è, massicciamente, con le centinaia di migliaia di persone che hanno manifestato in tutto il Paese contro il massacro di Gaza. E c’è, silenziosamente, con il governo, come la presidente del Consiglio ha sottolineato con parole che meritano un’analisi attenta.

    Nel dirsi commossa e nell’elogiare Trump, Giorgia Meloni ha rivendicato proprio «il contributo silenzioso ma costante dato dall’Italia». E poi ha aggiunto, in evidente polemica con il movimento pro-Gaza di queste settimane, che «la pace si costruisce lavorando e non limitandosi a sventolare bandiere».

    In cosa funziona, questa analisi?
     Nel fatto, intuitivo, che la pace si costruisce lavorando e non limitandosi a sventolare bandiere.

    E in cosa funziona meno?
     Nel fatto che i tanti italiani, i tanti europei e i tanti terrestri che sono scesi in piazza a sventolare bandiere (palestinesi), l’hanno fatto proprio per spingere i loro governi a “lavorare” di più per la pace, avendo l’impressione che dopo due anni di massacri non avessero prodotto il massimo sforzo.

    Alcuni europei e alcuni terrestri
     hanno così indotto i loro governi al riconoscimento della Palestina, per dire no agli eccidi e alla deportazione di massa. Atto un po’ più che simbolico, visto che, come spiega Gilles Kepel, «nonostante tutta l’ironia emersa contro l’iniziativa di pace franco-saudita, in verità Trump ne ha mutuato gli elementi principali per lanciare il suo piano. E ciò è avvenuto dopo l’attacco israeliano del 9 settembre per colpire Hamas in Qatar. Trump lo ha detto chiaro a Netanyahu: Israele non può fare la guerra al mondo intero. Da allora lo ha obbligato ad accettare il processo di pace costringendolo a sposare in via di principio la nascita di uno Stato palestinese».

    Quindi, oltre ai suoi affari con gli arabi, è stata la pressione dell’opinione pubblica americana, con la crescente impopolarità delle politiche di Israele anche tra i repubblicani, a spingere Trump alla decisiva pressione su Netanyahu.

    Gli italiani scesi in piazza, da parte loro, hanno provato a incoraggiare gli sforzi per la pace del governo, finora il più tenace oppositore, insieme alla Germania, di qualsiasi ipotesi di sanzione europea a Israele, anche banda. E alla fine il governo – con un’ottima mossa della premier, non ben compresa dall’opposizione – si è spostato dal “no” risoluto alla Palestina ora, al “sì” condizionato al disarmo di Hamas e al rilascio degli ostaggi. Stesse condizioni del piano franco-saudita che, come ha spiegato Kepel, ha ispirato il piano Trump. E che era stato ispirato a sua volta dalla gente in piazza contro i massacri.

 

  • Ma l’Italia farà ancora di più Come? Con la cosa che sa fare meglio, e meglio di molti altri Paesi: le missioni di pace. L’Italia è da tempo impegnata nell’addestramento delle forze di polizia palestinesi e ora, dice il ministro degli Esteri Antonio Tajani, «può anche inviare militari per una forza internazionale che possa unificare Gaza e Cisgiordania”. Si parla di 200 uomini, stesso numero di truppe che si è detto disposto a mandare Trump. Ci saremo anche nel rispristino dei servizi essenziali: strade, fognature, ospedali. Tajani festeggia anche il tricolore sventolato a Gaza, «segno di riconoscenza e gratitudine nei confronti dell’Italia». Anche (anche?) quella che sventola bandiere.

 

Fine della lunga e inevitabile pagina su Gaza.

 

Altre cose importanti

  • I partiti e la battaglia delle Regionali

    Dopo le nette vittorie del centrodestra nelle Marche e in Calabria, nel weekend si vota in Toscana in attesa del trittico del 23 e 24 novembre (Campania-Puglia-Veneto). Ma anche della Lombardia.

    Che c’entra la Lombardia, dove si vota nel 2028? C’entra moltissimo, perché dopo mesi di contrasti, a 40 giorni dal voto i partiti della maggioranza si sono accordati per candidare Edmondo Cirielli (Fratelli d’Italia) in Campania, il civico Luigi Lobuono in Puglia e il leghista Alberto Stefani in Veneto. Ma, appunto, i fratellisti hanno ottenuto dai leghisti la cessione della Lombardia tra tre anni, visto che al Nord sono abbondantemente il primo partito ma hanno zero governatori.

    Ieri Matteo Salvini ha confermato la storica resa: «È chiaro che se FdI sarà il primo partito, ha tutto il diritto di rivendicare la guida di alcune regioni, compresa la Lombardia». Ma nella Lega c’è chi non si rassegna: «Sono deluso, anzi esterrefatto», dice Massimiliano Romeo, capogruppo al Senato e soprattutto segretario del partito lombardo (ne scrive Cesare Zapperi).

    Il centrosinistra, da parte sua, non esce dallo psicodramma dell’alleanza che finge di esserci ma se ne vergogna. I leader della coalizione non hanno fatto comizi insieme né nelle Marche né in Calabria e il copione si ripete in Toscana. Dove Giuseppe Conte non voleva farsi vedere con il governatore ricandidato Eugenio Giani perché gli elettori dei 5 Stelle non lo adorano. Ieri ci ha ripensato e ha detto che lo vedrà oggi a Scandicci. Giani, indispettito, ha detto che non sa se farà in tempo. Forse si sta chiedendo se gli convenga farsi vedere con Conte. A questo punto è più probabile che si incontrino per caso. Giani vincerà (il candidato del centrodestra Alessandro Tomasi è molto staccato) ma il campo largo, per ora, conferma la sua insussistenza.

 

  • Nordio e Piantedosi, niente processo sul caso Almasri

    Com’era matematicamente certo, la Camera ha respinto la richiesta di autorizzazione a procedere nei confronti dei ministri della Giustizia e dell’Interno per il rimpatrio del torturatore libico, deciso in gennaio nonostante il mandato d’arresto della Corte penale internazionale. Il no ha avuto una decina scarsa di voti dell’opposizione e subito è scattata la caccia ai “franchi tiratori”. Più interessante il fatto che ora il governo ammette di aver liberato Almasri per il timore di ritorsioni contro gli italiani in Libia, mentre prima ne faceva una questione procedurale. Da capire come potrà cavarsela Giusi Bartolozzi, capo di gabinetto di Nordio, accusata di false informazioni ai pm e priva dello scudo dei ministri. Il caso insomma è ancora aperto (da leggere Giovanni Bianconi, tra poco sul sito).

 

  • Scontro nel governo sulle pensioni

    Si tratta dell’aumento di tre mesi dell’età pensionabile a partire dal 2027, in base all’adeguamento alla speranza di vita indicato dall’Istat: per la pensione di vecchiaia ci vorrebbero 67 anni e tre mesi anziché 67 mentre per la pensione anticipata 43 anni e un mese per gli uomini e 42 anni e un mese per le donne.

    La Lega, spiega Enrico Marro, «vuole bloccare lo scatto. Fratelli d’Italia e Forza Italia sono contrarie. Il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti (Lega), sta tentando una mediazione: escludere dai tre mesi in più solo le categorie di lavoratori più fragili: quelli che hanno cominciato in giovane età o che svolgono attività gravose. Un’altra proposta prevede un aumento graduale, cominciando con un mese».

    Intanto oggi c’è attesa per il rating dell’agenzia Standard & Poor’s sul bilancio italiano.

 

  • L’inchiesta su «sistema Pavia»

    Secondo la Procura di Brescia, il pm Pietro Paolo Mazza, ora in servizio a Milano, si sarebbe fatto corrompere con lo sconto su un’auto. Mazza, indagato per peculato e corruzione, è ha lavorato alla Procura a Pavia con Mario Venditti, indagato per corruzione nell’inchiesta su Garlasco (l’ipotesi è che abbia preso spldi in cambio dell’archiviazione di Andrea Sempio). Spiegano tutto Cesare Giuzzi e Alfio Sciacca.

 

  • Il Nobel per la Letteratura

    L’ha vinto lo scrittore ungherese László Krasznahorkai, premiato dall’Accademia di Svezia per la sua opera «avvincente e visionaria», che «nel mezzo del terrore apocalittico, riafferma il potere dell’arte». (La cronaca di Cristina Taglietti, il ritratto di Vanni Santoni e l’intervista che gli ha fatto lo scorso anno Luca Mastrantonio).

 

Il Caffè di Gramellini

Diviso Donald

Non vorrei trovarmi nei panni dei giurati che oggi, a Oslo, dovranno decidere a chi assegnare il Nobel per la Pace. Se lo danno a Donald Trump, fresco architetto dell’accordo in Medio Oriente, verranno accusati da metà del mondo di avere premiato un pericolo pubblico, una specie di incrocio tra un gangster e un golpista. Ma se non glielo danno, saranno criticati dall’altra metà, e Trump in persona griderà al complotto delle zecche comuniste norvegesi, capaci di consegnare il Nobel a un cinico come Kissinger o a un sopravvalutato come Obama, e di negarlo invece a lui, lo statista che con metodi spicci ma evidentemente efficaci afferma di aver chiuso sette guerre in sette mesi (con questa, otto) e che, proseguendo a un ritmo simile, finirà per mettere d’accordo tutti i litiganti del pianeta, a parte forse interisti e juventini. Poveri giurati di Oslo. Non sarà un caso se la palazzina che ospita il premio si trova a poche decine di metri dal luogo in cui Munch ambientò il famoso «Urlo». Quel genio aveva il dono della preveggenza: l’urlatore era sicuramente il presidente della giuria. Per togliermi dall’impaccio, e dall’impiccio, al suo posto avrei azzardato una mossa da antico democristiano. Considerando tutti i soldi che ha fatto e gli affari che ha combinato da quando è tornato alla Casa Bianca, alternando le minacce alle smentite con continui proclami a favor di Borsa (la sua), all’ex fallito e ora di nuovo ricchissimo Trump avrei assegnato il Nobel per l’Economia.

Grazie per aver letto Prima Ora, e buon venerdì (qui il meteo).

(gmercuri@rcs.it, langelini@rcs.it, etebano@rcs,it, atrocino@rcs.it)

 

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Tel Aviv, piazza degli Ostaggi questa mattina (Maia Levin/Afp)

 

A Khan Younis aspettando l’annuncio (Haitham Imad/Epa)

 

Soldati israeliani al confine con Gaza /Ariel Shalit/Ap)

Gaza, la spianata delle macerie

 

Murales con il ritratto di Marwan Barghouti

 

Oggi una famiglia di sfollati palestinesi a Jabalia, Striscia di Gaza (Bashar Taleb/Afp)

 

 

 

 

 

Grazie. A domani. Cuntrastamu.
​Michele Farina
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