Vespa “artista” uno e trino: arrotonda anche con i documentari… di Gianluca Roselli
Per compensare il taglio di stipendio del 2017 il conduttore concordò 4 messe in onda: la prima nel 2023, le altre tre sono in arrivo

Una serie di documentari sulla storia d’Italia. La cui prossima puntata, L’Italia dal 1949 al 1968, andrà in onda lunedì 22 dicembre su Rai1, in seconda serata, dopo la nuova fiction su Sandokan. Parliamo di Bruno Vespa, che per la Rai si triplica: oltre alla conduzione di Porta a Porta, per tre sere alla settimana, e 5 Minuti, tutti i giorni dal lunedì al venerdì dopo il Tg1, ci saranno anche i documentari. Non è una novità, perché il primo, 1948, l’anno che cambiò l’Italia, è andato in onda sempre su Rai1 circa un anno e mezzo fa. E col nuovo anno altri due ne seguiranno: L’Italia dal 1969 al 1993 e L’Italia dal 1994 al 2011 (l’epopea berlusconiana). Si tratta di un racconto di 55 minuti con immagini e interviste per raccontare, appunto, uno spaccato dell’Italia repubblicana: la prima puntata sul 1948 fu impreziosita da un’intervista a Liliana Segre. Del resto la passione del giornalista per la storia è cosa nota, come si evince anche dai titoli dei suoi libri, che mescolano spesso eventi passati e presenti. Solo tra gli ultimi: Hitler e Mussolini (2024), Il rancore e la speranza, ritratto d’Italia dal dopoguerra a Giorgia Meloni (2023), La grande tempesta, da Mussolini a Putin a Meloni (2022); Perché l’Italia diventò fascista (2019).
Ma da dove arriva l’idea? Tutto risale al 2017, quando Mario Orfeo, allora direttore generale della Rai, gli tagliò il compenso del 37%. In quell’epoca, infatti, per realizzare Porta a Porta, quattro puntate a settimana, Vespa percepiva 1 milione e 930 mila euro con un contratto triennale. Il taglio portò a un nuovo compenso di 1 milione e 200 mila euro annui. Per compensare la “perdita”, Orfeo e Vespa si accordarono per una serie di documentari storici che il giornalista avrebbe dovuto realizzare “fuori contratto”. “Una piccola compensazione a fronte del maggior taglio di stipendio che si sia mai visto nella storia della Rai”, fanno sapere fonti vicine al conduttore. Poi con questi documentari si è andati per le lunghe: il primo è stato trasmesso nel 2023 e il secondo andrà in onda a dicembre. “Trasmetterli a così tanto tempo l’uno dall’altro fa perdere il valore che avrebbero potuto avere per l’azienda. È un’operazione che ha poco senso…”, fa notare una fonte interna. Nel frattempo il contratto del conduttore è cambiato: ora il compenso è 3,3 milioni a biennio (1 milione e 650 mila annui) per Porta a Porta e 5 Minuti. I dociumentari sono compresi, ma pagati a parte, una specie di fuori sacco.
Ma in tema di alti compensi Vespa è in buona compagnia: Massimo Giletti arriva a 1,1 milioni l’anno, Maria Latella a 730 mila, Monica Setta a 700 mila. Sui 500 mila si aggira il contratto di Salvo Sottile per Far West, mentre l’ex Iena Antonino Monteleone percepisce circa 360 mila euro l’anno. Non proprio bruscolini per un’azienda che si è ripromessa di tagliare 26 milioni nei prossimi due anni, come annunciato dall’amministratore delegato Giampaolo Rossi alla presentazione dei palinsesti, lo scorso giugno a Napoli.
Il conduttore di Porta a Porta, inoltre, da anni viene attaccato, soprattutto dall’Usigrai, anche per il cosiddetto contratto “da artista”, che gli ha permesso, da esterno, di superare il tetto annuo dei 240 mila euro dei dipendenti Rai. Tetto ormai superato da una recente legge del governo Meloni, ma in Via Asiago per ora non ci saranno aumenti di stipendio. Il contratto da “artisti” però in questi anni è stato fatto praticamente a tutti i giornalisti esterni, proprio per superare il famigerato tetto. E l’elenco è lungo: Giletti, Sottile, Latella, Setta, Monteleone, Riccardo Iacona, per dirne alcuni. Ma anche Alberto Angela e, quando conducevano programmi in Rai, Giovanni Floris e Massimo Giannini. Più di recente ne ha usufruito pure Monica Maggioni, che la scorsa estate si è licenziata dall’azienda ottenendo un contratto di collaborazione di 5 anni a quasi 500 mila euro annui.
E’ MORTO IL GIUDICE CHE ASSOLSE ENZO TORTORA di Gigi Di Fiore

Con voce esile e stanca, nella sua ultima uscita pubblica a marzo del 2024, Michele Morello riuscì a parlare solo 5 minuti. A 92 anni, e in guerra da 11 contro una impietosa fibrosi polmonare che ieri lo ha sconfitto, non volle dire di no a Francesca Scopelliti, la compagna di Enzo Tortora che presentava il suo libro a Napoli. Si scusò: «La mia fibrosi mi consente poca autonomia di parola», ma poi fu chiaro nell’ultimo ricordo, fissato da Radio radicale, sull’esperienza che gli aveva segnato la vita e l’attività di magistrato giunta poi a oltre 40 anni di carriera: l’impegno di giudice estensore-relatore nella sentenza d’appello che assolse Enzo Tortora e altri 112 imputati dei 191 accusati di far parte dell’organizzazione camorristica di Raffaele Cutolo. Spiegò, con la sua abituale pacatezza: «Se ci si convince che sono state dette sciocchezze, anche da amici, devi avere il coraggio di affermarlo, perché la verità non va mai nascosta».
LA CARRIERA
Michele Morello possedeva modi signorili d’altri tempi. Sempre misurato, anche quando passeggiava con la moglie per le strade del Vomero, il quartiere napoletano dove viveva, o nel suo buen retiro di Palinuro in Cilento. Inizi da pretore a Cantù e Cerignola, poi giudice di tribunale a Napoli. Un cancelliere lo informò che c’era chi non gradiva il suo no a una scarcerazione e minacciava di ucciderlo. Morello lo riferì al presidente del tribunale, che gli consigliò di farsi trasferire al tribunale per i minori. In tempi in cui le scorte ai magistrati erano merce rara, così fece. Acquisì nuove esperienze, poi tornò nel settore giudicante, quello che deve fare i conti sempre con la propria coscienza e la propria buona fede. Lo spiegava: «Non bisogna mai pensare di poter danneggiare o favorire qualcuno, se c’è da affermare la verità. E la verità, nel libero convincimento, può anche portarti a diventare scomodo».
LA SENTENZA
Quella sentenza del 15 settembre 1986 ribaltò alcune decisioni di primo grado nel maxi-processo alla Nco. Tortora fu assolto dalla quinta sezione d’appello. Di solito, di una sentenza si ricorda il presidente del collegio, nella storia di Enzo Tortora pochi ricordano il presidente Antonio Rocco, tutti invece il giudice estensore Michele Morello. Ricorda Tullio, anche lui magistrato dal 1991 oggi al Csm e figlio unico di Michele Morello: «Dopo quella sentenza, mio padre fu isolato dalla maggioranza dei colleghi. Il Csm aprì anche un procedimento disciplinare sul suo commento a caldo dopo la lettura del dispositivo. Non ebbero il coraggio di archiviarlo, lo fecero prescrivere. Andò avanti, in silenzio». Su quel procedimento disciplinare, Michele Morello ironizzò: «Era il pensiero di monsieur de la Palice, che c’era di strano a dire che avevamo assolto chi doveva esserlo e condannato chi doveva esserlo?» Quando furono istituite le Procure pretorili, Morello ne divenne procuratore aggiunto a Napoli. Non immaginava che si sarebbe trovato ancora in prima linea, a sostenere i due giovani pm Francesco Menditto e Vincenzo Piscitelli che nel 1992 scardinarono per primi il sistema di potere politico napoletano con le loro inchieste sul voto di scambio. Poi il passaggio alla Procura maggiore e i 6 anni di fine carriera come procuratore generale a Campobasso.
PORTOBELLO
Prima di avviare le riprese della sua serie televisiva “Portobello” sulla vicenda di Enzo Tortora, il regista-autore Marco Bellocchio volle conoscere Morello. Il magistrato, ormai da anni in pensione, si commosse nel conoscere il progetto cinematografico che ricorda, con l’attore Salvatore D’Onofrio nel ruolo di Morello, anche l’impegno del magistrato-relatore che si convinse dell’innocenza di Tortora. Avuta notizia della morte di Morello, ha commentato proprio Marco Bellocchio: «Nella sintesi obbligata del nostro lavoro, spero siamo riusciti a rappresentare, anche se in minima parte, la verità coraggiosamente scoperta da Morello, giudice che non ha mai cercato le luci della ribalta, e restituì giustizia e libertà a Enzo Tortora». Un nipotino di 10 anni, Claudio, che non ha voluto si chiamasse come lui, un’unica partecipazione televisiva in passato a parlare della vicenda Tortora con Gianni Minoli. E una frase che spiega tanto: «Dagli atti, io la vedevo in un modo, altri in modo diverso. Il giudice deve sempre sperare che la sua visione sia la verità». I funerali oggi alle 17, nella chiesa della Santissima Trinità in via Tasso a Napoli.


I fantasmi del Cub nella burocrazia, un fallimento che non smette di tornare
CASAL DI PRINCIPE – Se oggi un’amministrazione casertana decidesse di rafforzare il proprio organico, potrebbe trovarsi nella condizione di dover assumere soggetti con alle spalle condanne pesanti. Per capire come sia possibile, bisogna tornare indietro di quasi vent’anni, alla storia del Consorzio Unico di Bacino Napoli-Caserta (Cub).
L’esperimento mancato
Il Cub nacque con l’ambizione di unificare la gestione dei rifiuti nelle due province, centralizzando i servizi e superando l’emergenza cronica dell’immondizia. Un progetto che, sulla carta, sembrava razionale, ma che nella pratica si è rivelato un esperimento fallimentare.
Le profonde differenze territoriali, le resistenze locali, le logiche politiche, un management discutibile e una contabilità opaca ne minarono da subito l’efficacia. A ciò si aggiunsero debiti accumulati, criticità nelle gare d’appalto e carenze nella gestione dei mezzi, in un contesto in cui la raccolta differenziata era ancora un obiettivo lontano.
Il fallimento del Cub non fu solo tecnico o amministrativo: lasciò un’eredità pesante sul piano occupazionale, politico e giudiziario, che continua a farsi sentire ancora oggi.
Le inchieste della Procura
Nel tempo, la Procura di Santa Maria Capua Vetere ha indagato a fondo sul ‘sistema Cub’, ipotizzando l’esistenza di un intreccio tra affari, politica e criminalità (di vario genere). Le accuse hanno spaziato dall’abuso d’ufficio al peculato, dalla corruzione all’associazione per delinquere. Nel 2017, una delle inchieste più ampie – con 83 indagati – mise sotto la lente ex sindaci, dirigenti del consorzio, funzionari pubblici e imprenditori. Molti procedimenti si sono poi conclusi tra prescrizioni e assoluzioni, senza mai chiarire fino in fondo la portata delle responsabilità.
I lavoratori che ‘resistono’
Da quanto è stata avviata liquidazione del Cub, una parte del personale è stata assorbita da Comuni e società subentranti negli appalti attraverso i cosiddetti passaggi di cantiere. Molti altri, però, sono rimasti in una sorta di limbo: formalmente ancora a carico del Cub, in attesa di una nuova collocazione. Quando un ente locale ha necessità di assumere, deve inviare una nota all’Agenzia regionale Ormel per verificare se siano disponibili le figure professionali di cui ha bisogno. Ciò significa richiedere anche al Cub l’elenco dei lavoratori ‘in disponibilità’. Se il profilo richiesto coincide e l’amministrazione ritiene idoneo il candidato, può procedere all’assunzione.
Nelle scorse settimane è stato il Comune di Castelvolturno a seguire questa procedura: l’Ente ha chiesto la disponibilità di alcune figure da assumere, ricevendo dal liquidatore del Cub, Francescopaolo Ventriglia, una lista aggiornata del personale pronto all’impiego. Ed è proprio in quell’elenco che compaiono nomi destinati a far discutere.
I nomi che pesano
Tra i lavoratori ancora formalmente in carico al Cub figura Sebastiano Ferraro, storico esponente del clan dei Casalesi, condannato nel maxi-processo Spartacus per associazione mafiosa. Il suo profilo è comparso anche in un’inchiesta più recente (del 2022) che ha coinvolto (portandolo a una nuova condanna per mafia) Nicola Schiavone, detto ’o russ.
Nello stesso elenco compare Luigi Ferraro, fratello di Nicola Ferraro Fucone, ex consigliere regionale dell’Udeur e già ritenuto responsabile per concorso esterno al clan dei Casalesi. Anche Luigi è stato dichiarato colpevole di concorso esterno al clan, come il germano.
Altro nome rilevante – lo citiamo per il suo peso politico attuale – è quello di Antonio Scialdone, già direttore del Cub e oggi sindaco di Vitulazio. È stato coinvolto in diverse inchieste legate al Consorzio, da cui è sempre uscito indenne, e in un processo per corruzione elettorale. Secondo l’accusa, avrebbe stretto un presunto patto con un soggetto ritenuto vicino al clan dei Casalesi: aiuti elettorali in cambio di posti di lavoro. Il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, nel 2022, ha escluso l’aggravante mafiosa, dichiarando il reato prescritto.
Il meccanismo di assorbimento
Sebbene in liquidazione, il Cub continua a funzionare (ci prova) come un piccolo serbatoio di lavoratori. Ogni Comune che necessita di personale deve almeno tentare di attingere dall’elenco dei dipendenti del Consorzi in disponibilità. Formalmente, tutto avviene nel rispetto della legge: si tratta di un principio di salvaguardia occupazionale previsto dalle norme. Ma la questione è morale, prima che giuridica. È opportuno che soggetti condannati o coinvolti in inchieste per reati gravi (ci riferiamo ai Ferraro) possano essere riassunti nella pubblica amministrazione? Il rischio è evidente: una norma nata per tutelare i lavoratori potrebbe trasformarsi in un varco attraverso cui figure compromesse con sistemi di potere opachi tornano all’interno delle istituzioni. La speranza, naturalmente, è che tali soggetti abbiano davvero reciso ogni legame con il malaffare.
Un’eredità che non si estingue
Il Cub ha lasciato in dote tanti operatori in attesa di ricollocazione, insieme a un sistema burocratico complesso e inefficiente. Nel frattempo, i Comuni sono stati costretti a ricorrere a gestioni frammentate e ad appalti privati per affrontare il servizio di igiene urbana, con continui cambi di ditta e una conseguente instabilità organizzativa. Oggi, con la nascita degli Enti d’Ambito provinciali (Eda), si tenta di ricostruire un modello unitario di gestione dei rifiuti. Ma i nodi del passato restano, e i fantasmi del Cub continuano ad affiorare.
I simboli di un fallimento
Il Consorzio Unico di Bacino doveva rappresentare un modello di efficienza e trasparenza. È diventato, invece, un laboratorio – stando alla tesi della Procura – di clientele, collusioni e sprechi. Alcuni dei nomi che ancora compaiono negli elenchi del personale in disponibilità mostrano quanto quell’esperimento rischi ancora di proiettare la sua ombra sulla macchina pubblica.
Ispettore della Penitenziaria al carcere di Secondigliano trovato morto a Sessa Aurunca. NOME E FOTO
NAPOLI – Si è concluso con una dolorosa verità il mistero del cadavere ritrovato lo scorso 25 settembre nei pressi del cimitero a Sessa Aurunca, in una zona appartata e silenziosa. Il corpo, rinvenuto impiccato a un albero, apparteneva a Giorgio Mercurio (nella foto), 63 anni, originario di Napoli ma residente a Casagiove, in provincia di Caserta. Dopo giorni di indagini e accertamenti, i carabinieri sono riusciti a dare un nome e un volto alla vittima, grazie anche all’aiuto dei colleghi dell’uomo. Mercurio era un ispettore della poli- zia penitenziaria in servizio presso il carcere di Secondigliano, a Napoli. Figura nota e rispettata nell’ambiente penitenziario, aveva dedicato gran parte della sua vita professionale alla sicurezza e alla gestione degli istituti di detenzione. Il suo volto è stato riconosciuto da alcuni colleghi che, vedendo la foto diffusa dai carabinieri per facilitarne l’identificazione, hanno immediatamente segnalato la corrispondenza.
Il ritrovamento del corpo aveva destato scalpore e inquietudine. Il luogo del gesto – un’area nei pressi del cimitero, lontano da sguardi indiscreti – e l’assenza iniziale di documenti o elementi identificativi avevano reso difficile il lavoro degli inquirenti. Solo grazie alla collaborazione tra le forze dell’ordine e il personale del sistema penitenziario si è potuto arrivare, nei giorni successivi, all’identità della vittima. Le circostanze del ritrovamento lasciano pochi dubbi sulla natura del gesto: tutto farebbe pensare a un suicidio. Resta ora da chiarire cosa abbia spinto un uomo di 63 anni, apparentemente integrato e con una carriera alle s spalle, a togliersi la vita in maniera tanto drammatica. Gli inquirenti, come da prassi, non escludono alcuna ipotesi, ma al momento l’ipotesi prevalente è quella del gesto volontario. Il mondo della polizia penitenziaria è stato scosso dalla notizia. Non solo per la tragica scomparsa di un collega, ma anche per ciò che questa vicenda potrebbe sottendere. Il lavoro all’interno degli istituti di pena è noto per la sua durezza psicologica, la pressione costante, il confronto quotidiano con situazioni limite. Negli ultimi anni, non sono mancati casi simili che hanno coinvolto appartenenti alle forze dell’ordine penitenziarie, facendo emergere la necessità di maggiori tutele e supporti psicologici per il personale.
Non è ancora noto se Mercurio stesse attraversando un momento particolarmente difficile, né se avesse lasciato messaggi o segni in grado di spiegare le sue motivazioni. La famiglia, comprensibilmente provata dal dolore, ha chiesto il massimo riserbo. Il comando della polizia penitenziaria ha espresso il proprio cordoglio, ricordando l’uomo come un professionista serio e affidabile, con una lunga carriera alle spalle. L’identificazione del corpo chiude un cerchio investigativo, ma apre una riflessione più ampia sulle condizioni di vita e di lavoro di chi, ogni giorno, opera in contesti difficili e spesso dimenticati. Il dramma di Giorgio Mercurio lascia un vuoto non solo tra i suoi cari, ma anche tra i colleghi che ora si interrogano su quanto, forse, si sarebbe potuto fare per evitare questa tragedi


“Cirielli nuovo tifoso della legalità”: 94 mila copie di propaganda dall’Aci di La Russa jr.
L’agiografia del neo candidato di centrodestra su “Mondoauto” a casa degli elettori

Per fortuna c’è un nuovo “tifoso della legalità”, il viceministro Cirielli. Ci sono voluti 2.500 anni di storia, ma grazie all’Automobile Club d’Italia ormai super politicizzato, proprio a un passo dal voto la Campania scopre un nuovo genere editoriale, con targa pubblica: Mondoauto, il periodico dell’Aci Napoli che in questi giorni sta arrivando nelle case di 94 mila lettori-elettori partenopei tramite i buoni uffici delle Poste, anche se c’è pure online. Tema ufficiale: i 2.500 anni di Napoli; quello reale è l’agiografia del viceministro oggi candidato del centrodestra.
Tutto per una sua visita all’Aci Napoli. Che è avvenuta però il 26 giugno scorso, ma visto che è un trimestrale arriva a fagiolo ora che l’urna s’avvicina. A pagina 6 l’apoteosi già nel titolo: “Un nuovo tifoso della legalità, il viceministro Edmondo Cirielli”, dedicato all’ex colonnello dei carabinieri che nel 2005 firmò la legge che accorciò i termini di prescrizione, salvando imputati eccellenti come Berlusconi. Foto con prefetto, carabinieri e magistrati: tono devozionale, enfasi istituzionale.
Ma Cirielli torna anche a pagina 8, nel saluto del presidente Antonio Coppola: “Onorati di accogliere un eminente esponente del governo nella grande famiglia dei Soci ACI”. Lessico da udienza pontificia: onorati, grande famiglia, eminente. Alle pagine 13-14, l’atto finale: “La legalità ha bisogno di esempi concreti”. Stavolta parla lui: “Chi ricopre funzioni pubbliche deve essere d’esempio”. Lo stesso Cirielli che, da presidente della Commissione Giustizia, accorciò la vita dei processi.
Intorno, il corteo dei dignitari: prefetto, presidente del Tribunale, comandante dei carabinieri, tutti in posa, tutti grati. L’editoriale di Coppola presenta la visita come “significativa conferma del ruolo pubblico dell’Ente” e celebra “il 78% ottenuto da Geronimo La Russa”, ovviamente presente. Napoli e i suoi 2.500 anni fanno da cornice: il vero festeggiato è il potere della destra al volante.
C’è spazio anche per la deputata di FdI Imma Vietri e, a pagina 22, per il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, immortalato mentre consegna un premio sportivo intitolato al padre Mario consegnato a Pietrastornina, sui bricchi dell’Irpinia. “Fiducia, disciplina e sacrificio”. L’appello ai giovani è catechismo civile: “Abbiate fiducia in voi stessi”.
Mondoauto sembra una rivista di partito e invece è edita da un ente pubblico non economico: per conto dello Stato, l’Aci gestisce infatti il Pubblico Registro Automobilistico e la riscossione di tasse e imposte automobilistiche. Un braccio amministrativo pubblico, soggetto ai principi di imparzialità e buon andamento dell’articolo 97 della Costituzione.
E quindi anche ai vincoli di spesa, tanto che è vigilato dalla Corte dei Conti. Proprio la Corte nel 2022 ricordava come le spese per comunicazione e rappresentanza negli enti come l’Aci debbano essere “sobrie, congrue e inerenti ai fini istituzionali” e che è illegittimo ogni uso “promozionale del vertice politico o amministrativo”. Pubblicazioni che celebrano leader o candidati, spiegavano i giudici contabili, non sono “comunicazione istituzionale” bensì propaganda. E se lo dicono loro.
Venditti, seconda inchiesta della Procura di Brescia

Di nuovo l’ex procuratore aggiunto di Pavia Mario Venditti. Ancora un’accusa per corruzione. Ma qui l’omicidio di Chiara Poggi e le indagini su Andrea Sempio non c’entrano. Sul tavolo dei pm di Brescia il sistema di potere che a Pavia ha fatto il bello e il cattivo tempo, mettendo insieme interessi trasversali tra imprenditori, politici, forze dell’ordine e magistrati. È l’inchiesta Clean 2, istruita dall’aggiunto Stefano Civardi, che ha fatto luce su diversi reati contro la pubblica amministrazione. Di quel gruppo di potere, secondo la Procura di Brescia, facevano parte Venditti, allora in contatto con l’ex europarlamentare pavese della Lega Angelo Ciocca, e il pm Pietro Paolo Mazza oggi alla Procura di Milano ma all’epoca a Pavia. Ieri Mazza è stato perquisito a casa e negli uffici. È indagato per corruzione e peculato per l’utilizzo dell’auto di servizio. La Guardia di Finanza ha sequestrato documenti in cerca di spese per ristoranti, corse ai cavalli e auto di lusso. Venditti è già iscritto a Brescia per corruzione in atti giudiziari rispetto all’archiviazione (2017) della prima indagine su Sempio indagato allora come oggi per l’omicidio Poggi. Secondo l’accusa l’ex magistrato sarebbe stato pagato con 30 mila euro dalla famiglia Sempio. La nuova iscrizione, più vecchia di quella sui soldi dai Sempio, riguarda la società Esitel che per anni si è occupata di intercettazioni nella Procura di Pavia. Esitel, per i pm, avrebbe venduto a Venditti un’auto a un prezzo basso in cambio di favori. Un’accusa simile è rivolta al pm Mazza.


Il Nobel per la Letteratura 2025 va a László Krasznahorkai
Lo scrittore ungherese è considerato dalla critica il più importante scrittore ungherese vivente e uno tra i maggiori autori europei.
Simonetta Sciandivasci

Il Nobel per la Letteratura 2025 all’ungherese Lazlo Krasznahorkai
L’accademia svedese lo ha scelto perché “la sua opera visionaria, nel mezzo del terrore dell’apocalisse, riafferma il potere dell’arte”. A lui, andranno 11 milioni di corone svedesi, che equivalgono a 1,17 milioni di dollari. Il suo nome, come spesso accade, non era tra i più vociferati: in pochi ci avrebbero scommesso.
Come da tradizione, si tratta di un nome che difficilmente darà occasione di polemiche. Susan Sontag lo definì “Maestro dell’apocalisse”. Tutti i suoi libri, romanzi e raccolte di racconti, usciti in Italia sono stati pubblicati da Bompiani: Melancolia della resistenza (tradotto da Bruno Ventavoli, per anno a capo di TuttoLibri de La Stampa), Il ritorno del barone Wenckheim, Guerra e Guerra, Herscht 07769, Avanti va il mondo e Seiobo è discesa quaggiù. Krasznahorkai ha anche scritto con il regista Béla Tarr i film: Perdizione (Kárhozat, 1988), Satantango (1994), Le armonie di Werckmeister (Werckmeister harmóniák, 2000), L’uomo di Londra (A Londoni férfi, 2007) e Il cavallo di Torino (2011).
Dal 2018, anno in cui vinse Olga Tokarczuk, polacca, l’alternanza tra scrittori e scrittrici è stata impeccabile: un anno a testa. Il 2024 è stata scelta Han Kang, nel 2025 c’è un uomo (come quasi ovunque, e non in ottemperanza di una rotazione equa). Finora, comunque, le scrittrici hanno vinto 18 volte.
Sui giornali svedesi, i più accreditati erano: Christian Kracht, tedesco, 58 anni, Gerald Murnane, australiano, e Alexis Wright, aborigena. Meno quotati c’erano, oltre al vincitore, il rumeno Mircea Cartarescu, l’indiano Amitav Ghosh, la canadese Anne Carson e Haruki Murakami e lo statunitense Thomas Pynchon.
Sterminò la famiglia della fidanzata nel 1975, ora l’assalto armato a un imprenditore: Guido Badini torna in carcere
Il 73enne novarese è indagato per tentato omicidio nel Bresciano. Con la fidanzata Doretta fu protagonista del massacro di 50 anni fa di Marco Benvenuti

Un nome che torna alla ribalta delle cronache a distanza di cinquant’anni. La sera del 13 novembre 1975, con la fidanzata Doretta Graneris, sterminò a Vercelli cinque famigliari della ragazza, genitori, fratellino e nonni. Uno dei plurimi omicidi fra le mura di casa più cruenti della storia.
Già condannato all’ergastolo per quel massacro, poi ammesso alla semilibertà, Guido Badini, oggi settantatreenne e residente a Novara (lo era anche all’epoca, quando conviveva in città con la Graneris), è tornato in carcere qualche giorno fa nell’ambito dell’indagine sul tentato omicidio ai danni del titolare della Cavifer, società di Montichiari (Brescia) che opera nel settore dello smaltimento di materiali ferrosi. Per l’assalto a mano armata del marzo 2024 erano stati utilizzati proiettili provenienti dai lotti Nato, che i carabinieri lombardi hanno trovato nel corso delle perquisizioni proprio a casa di Badini – uno degli otto arrestati – assieme a numerose armi, due pistole, quattro fucili, e due mazze, e un ingente numero di munizioni. Del novarese il gip di Brescia scrive: «È un punto di riferimento per chi avesse bisogno di pianificare un’azione violenta e procurarsi armi, e che ha precedenti specifici, inclusa una condanna per tentato omicidio».
La sera del 1° marzo dello scorso anno l’imprenditore bresciano Angelo Ferandi, all’uscita della ditta, era rimasto gravemente ferito. Nell’azione criminale erano stati esplosi otto colpi di pistola calibro 9×19 Gfl (i proiettili Nato detenuti da Badini), sei dei quali lo raggiunsero all’addome, agli arti superiori e inferiori e all’interno coscia. In pericolo di vita, era stato trasportato in ospedale e salvato e poi dimesso dopo un lungo periodo di ricovero.
L’indagine sul fatto, condotta dai carabinieri, ha fatto luce sul possibile movente, un presunto vecchio debito non saldato dalla vittima, e anche su un’organizzazione criminale dedita allo spaccio. A sparare un pregiudicato albanese, in concorso con altre persone, mentre il novarese Badini avrebbe fornito le munizioni.
L’uomo, cinquant’anni fa, si presentò con la fidanzata Doretta a casa della ragazza, in via Caduti dei Lager a Vercelli: lì si preparavano a cenare Sergio Graneris, la moglie Itala Zambon, il figlio Paolo di 13 anni, e i nonni materni Romolo Zambon e Margherita Baucero. La coppia entrò con due pistole, una Beretta calibro 9 e una Browning calibro 7.65, con le quali freddarono tutti, anche il cane, perché abbaiava troppo. A provocare la mattanza, un risentimento della giovane verso la famiglia, che in precedenza aveva osteggiato il matrimonio con Guido. Badini, ai genitori di lei, non andava a genio. Ragioniere senza lavoro, divideva tutto il tempo fra tiro a segno e palestra. Era stato trascinato nel piano folle di Doretta con un amico, rimasto ad attenderli in auto. La Corte d’Assise di Novara aveva condannato i due all’ergastolo, e l’autista a 22 anni. Doretta aveva ottenuto la semilibertà nel 1992, e poi la condizionale nel 2000. Badini, invece aveva ottenuto la semilibertà nel 1993.

Aser: «Piena solidarietà e vicinanza ai cronisti rimasti feriti negli scontri in piazza a Bologna»
I tafferugli martedì 7 ottobre 2025, nel corso della manifestazione non autorizzata organizzata dai Giovani Palestinesi. Il sindacato regionale: «Sia fatta piena luce sull’accaduto, i responsabili vengano identificati e puniti».
L’Associazione della stampa Emilia-Romagna esprime, in una nota pubblicata mercoledì 8 ottobre 2025 anche sul proprio sito web, la «massima solidarietà e vicinanza ai giornalisti che sono rimasti feriti nel corso degli scontri tra manifestanti e forze dell’ordine avvenuti nella sera di martedì 7 ottobre a Bologna» durante la manifestazione non autorizzata organizzata dai Giovani Palestinesi.
Quattro – come riporta l’agenzia Ansa – i giornalisti rimasti feriti e contusi nel corso dei tafferugli, colpiti da manganellate delle forze dell’ordine o da oggetti lanciati dal corteo.
Per il sindacato regionale «non è accettabile che chi si trova a svolgere il proprio lavoro di cronista, esercitando un diritto costituzionalmente garantito, sia fatto oggetto di comportamenti violenti e aggressivi e, comunque, non venga tutelato».
In conclusione, Aser «auspica che sia fatta piena luce sull’accaduto e che i responsabili dell’attacco ai giornalisti vengano identificati e puniti». (mf)





















