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LA RASSEGNA STAMPA CON LE PRIME PAGINE DEI GIORNALI DI OGGI … a cura della redazione dell’Agenzia stampa “Cronache” direttore Ferdinando Terlizzi
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25 giugno 2025 alle ore 13:15
LA RASSEGNA STAMPA DI OGGI da… Briefing… per capire il mondo che cambia in 5 minuti – da America / Cina il Punto e Prima Ora dal Corriere della Sera – con Vaticano News, Anteprima, La Spremuta di giornali, di Giorgio dell’Arti e il meglio da: Il Fatto, D’Agospia, Notix e Cronachedi… con le prime pagine dei giornali di oggi a cura della redazione dell’Agenzia stampa “Cronache” direttore Ferdinando Terlizzi
PS: In esclusiva, ogni mattina, per tutti gli abbonati, su smartphone o tablet
PILLOLE DI NERA & GIUDIZIARIA
Alessandro Impagnatiello, assassino di Giulia Tramontano, è stato condannato all’ergastolo in appello ma non gli è stata riconosciuta l’aggravante della premeditazione, con disappunto della sorella della vittima
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Davide Gorla, un commerciante di Busto Arsizio (Varese), 65 anni, è stato accoltellato a morte nella sua cartoleria in pieno centro, non si sa ancora se per soldi o altro
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È stato trovato morto Matteo Formenti, 37 anni, uno dei bagnini che era in servizio nella piscina di Castrezzato, Brescia, quando è annegato il piccolo Michael Consolandi. L’uomo era nell’elenco degli indagati per omicidio colposo: probabilmente non ha retto ai sospetti e si è tolto la vita
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Una violenta esplosione nel deposito di un ristorante a Napoli ha causato un morto e quattro feriti. Si indaga sull’origine dell’incidente
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Secondo la testata Open qualcuno sta aiutando Francis Kaufmann, arrestato in Grecia col sospetto di aver ucciso mamma e bimba di un anno a Villa Pamphili, a cancellare prove compromettenti
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Sul caso Garlasco si terrà il 4 luglio un nuovo incidente probatorio
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È scontro aperto tra il ministro Matteo Salvini e lo scrittore Roberto Saviano: i due si sono incontrati in tribunale e sono volati gli stracci
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Un procedimento disciplinare sarebbe stato aperto contro Sigfrido Ranucci di Report. La Rai però nega.
ANCORA ALLA SBARRA PER LE SUE CAZZATE L’EROE DI CARTA
Insulti ai politici, Saviano torna in tribunale. Definì Salvini “ministro della mala vita”
NAPOLI – Nuovo processo per diffamazione per Roberto Saviano. Dopo la condanna in primo grado per aver definito l’attuale presidente del Consiglio di Ministri Giorgia Meloni “bastarda”, stavolta in tribunale a Roma si dibatte del testo in cui lo scrittore ha definito Matteo Salvini “ministro della mala vita”. Alle 13:15 in aula si è presentato lo stesso leader della Lega per essere ascoltato in qualità di parte lesa, accompagnato dal suo avvocato Mattia Celva. Salvini ha parlato di quando, a 20 giorni dal suo insediamento al Ministero dell’Interno, gli è stata segnalata la frase diffusa da Saviano attraverso i suoi canali. Ha spiegato che il riferimento alla “mala vita”, da parte di uno scrittore divenuto famoso per un romanzo sulla criminalità organizzata, lo ha letto come un “esplicito riferimento” a una contiguità alla mafia.
Questo il motivo per il quale ha deciso di denunciare: “Non è critica quella di Saviano, era esplicita l’allusione a una contiguità alla ’ndrangheta che mi fa inorridire. Intendo come gravemente lesivo della mia onorabilità quanto ha detto Saviano, visto fra l’altro che sono sotto scorta. Ci sono carabinieri che dedicano la loro notte a fare da scorta a Saviano ma non ritengo sia spendibile come argomento. Le scorte sono oggetto di valutazione tecnica e non politica, a mio avviso”. E poi ancora: “È stata lesa la mia onorabilità quale cittadino, segretario della Lega e ministro. Assumemmo varie iniziative per il contrasto alle mafia fra cui la confisca di sette miliardi e mezzo di beni alla criminalità. Tutto in contrasto con le frasi di Saviano”. A margine dell’udienza il politico ha teso la mano allo scrittore. “Ho stretto la mano a Saviano in aula – ha continuato Salvini – e lui mi ha detto vergognati. E’ un maleducato, ma non è certo un reato”.
Non è certamente la prima esperienza nelle aule di giustizia per lo scrittore campano. Nel 2015 la Corte di Cassazione lo ha condannato in via definitiva per aver copiato articoli di Cronache nel suo romanzo d’esordio, Gomorra. Una parte di quel giudizio è ancora in corso, sempre davanti alla Corte di Cassazione, per la determinazione del risarcimento che lui e la Arnoldo Mondadori Editore della famiglia Berlusconi, editrice di “Gomorra”, dovranno versare.
DAILY MAGAZINE
Rapina nella villa, imprenditore indagato per omicidio e occultamento di cadavere
CENTOLA – Indagato per omicidio e occultamento di cadavere il proprietario della villetta alla periferia di Centola, in provincia di Salerno, dove domenica scorsa sarebbe avvenuto un tentativo di rapina da parte di una banda composta da tre persone contro le quali il proprietario dell’abitazione avrebbe sparato, ferendone due, uno dei quali è morto.
L’imprenditore, avrebbe ammesso le proprie responsabilità, conducendo gli inquirenti al ritrovamento del corpo senza vita di un cittadino albanese, rinvenuto questa mattina in fondo a un dirupo, avvolto in alcuni teli. Le modalità del ritrovamento lasciano intendere che la morte non sia avvenuta sul posto, ma che il cadavere sia stato trasportato e nascosto successivamente. A indagare sono i carabinieri della compagnia di Sapri, coordinati dalla Procura della Repubblica di Vallo della Lucania. L’attività investigativa prosegue per ricostruire con esattezza la dinamica dell’accaduto e accertare eventuali responsabilità di altre persone coinvolte nel tentativo di rapina.
STEFANIA NOBILE TORNA IN LIBERTÀ: “NON SPACCIAVA DROGA NÉ GESTIVA PROSTITUTE NELLA GINTONERIA DEL SUO EX, DAVIDE LACERENZA, MA SI OCCUPAVA SOLO DELLA PARTE CONTABILE” – LA GIUDICE HA ACCOLTO L’ISTANZA DELLA DIFESA, MANTENENDO SOLO L’OBBLIGO DI DIMORA – LA 60ENNE, FIGLIA DI WANNA MARCHI, ERA STATA ARRESTATA A MARZO NELL’INCHIESTA SU PROSTITUZIONE E DROGA. DAVIDE LACERENZA RESTA AI DOMICILIARI. L’IPOTESI DEL PATTEGGIAMENTO POTREBBE CHIUDERE PIÙ RAPIDAMENTE LA VICENDA, ANCHE PER LACERENZA…
GIOVEDÌ 26 GIUGNO 2025
Clamoroso
Numero di jet privati atterrati a Venezia per le nozze di Bezos: 95. [leggi in Quarta Pagina]In prima pagina
• Un Donald Trump esultante ha suggellato il vertice Nato che ha accolto l’invito a destinare alle spese militari il 5 per cento del Pil. Il presidente Usa ha esaltato i bombardamenti sull’Iran (decisivi come Hiroshima, ha detto), ha strizzato l’occhio a Zelens’kyj sui missili per l’Ucraina, ma non ha firmato la dichiarazione contro Putin. E alla Spagna che si è sfilata dall’accordo sul 5 per cento ha lanciato un ammonimento: avrà dazi doppi
• Giorgia Meloni ha accolto la linea della Casa Bianca sulla Nato e considera ragionevole il dazio del 10 per cento con gli Usa. All’amico Donald, col quale ha cenato, avrebbe sollecitato un intervento per il cessate il fuoco a Gaza
• Teheran ha ammesso di aver subito gravi danni agli impianti nucleari. L’amministrazione americana ha intanto aperto un’inchiesta sulle fonti che avrebbero fornito a Cnn e New York Times notizie secondo le quali l’intervento Usa avrebbe solo rallentato di qualche mese i piani iraniani sul nucleare
• Trump vorrebbe imporre un giro di vite alle informazioni che la presidenza è tenuta a fornire al Congresso degli Stati Uniti
• Il giovane socialista democratico Zohran Mamdani, 33 anni, ha vinto le primarie dei democratici e correrà per la carica di sindaco di New York
• Alessandro Impagnatiello, assassino di Giulia Tramontano, è stato condannato all’ergastolo in appello ma non gli è stata riconosciuta l’aggravante della premeditazione, con disappunto della sorella della vittima
• Davide Gorla, un commerciante di Busto Arsizio (Varese), 65 anni, è stato accoltellato a morte nella sua cartoleria in pieno centro, non si sa ancora se per soldi o altro
• È stato trovato morto Matteo Formenti, 37 anni, uno dei bagnini che era in servizio nella piscina di Castrezzato, Brescia, quando è annegato il piccolo Michael Consolandi. L’uomo era nell’elenco degli indagati per omicidio colposo: probabilmente non ha retto ai sospetti e si è tolto la vita
• Una violenta esplosione nel deposito di un ristorante a Napoli ha causato un morto e quattro feriti. Si indaga sull’origine dell’incidente
• Secondo la testata Open qualcuno sta aiutando Francis Kaufmann, arrestato in Grecia col sospetto di aver ucciso mamma e bimba di un anno a Villa Pamphili, a cancellare prove compromettenti
• Sul caso Garlasco si terrà il 4 luglio un nuovo incidente probatorio
• È scontro aperto tra il ministro Matteo Salvini e lo scrittore Roberto Saviano: i due si sono incontrati in tribunale e sono volati gli stracci
• Un procedimento disciplinare sarebbe stato aperto contro Sigfrido Ranucci di Report. La Rai però nega
• Una nuova ondata di caldo sahariano è in arrivo in Italia: l’allerta meteo è scattata in sei città
• Secondo Bloomberg il gigante anglo-olandese Shell starebbe valutando la storica acquisizione dell’inglese British Petroleum
• La Ferrari si lancia nel mondo della vela da competizione. Lo ha annunciato John Elkann, che ha coinvolto nel progetto il campione Giovanni Soldini
• Accusati di bancarotta, rischiano 7 e 6 anni di reclusione i fondatori di The Rock Trading, piattaforma di criptovalute. Circa 250 clienti si sono costituiti parte civile
• Le borse di studio post-universitarie non potranno più usufruire delle agevolazioni Irpef
• La vecchia carta d’identità in cartoncino è destinata a scomparire entro un anno per essere sostituita da quella plastificata
• Nella Sicilia assetata d’acqua è stato lanciato il bonus-lavastoviglie, che dovrebbe incrementare l’uso dell’elettrodomestico e diminuire gli sprechi idrici
• Il Tar ha deciso che le elezioni comunali a Pescara saranno ripetute in 27 sezioni. Il sindaco e gli altri amministratori resteranno in carica fino al nuovo voto
• A Bologna un primario di 45 anni è scomparso prematuramente per una grave malattia e la sua morte è stata accolta con una pioggia di insulti da parte di haters no-vax
• A Centola, in Cilento, un uomo ha sorpreso i ladri in casa, ha sparato e dopo poco uno di loro è stato trovato morto
• In Islanda un aereo della United Airlines ha avuto un guasto ed è stato costretto ad atterrare: nessun ferito tra equipaggio e passeggeri
• Nella notte l’Inter ha sconfitto per 2-0 il River Plate e si è qualificata per gli ottavi di finale del Mondiale per Club
• Jeff Bezos e la futura moglie Lauren Sánchez stanno per convolare a nozze in una Venezia presa d’assalto dai vip
• È morta l’attrice romana Lea Massari (91 anni)Titoli
Corriere della Sera: Sì alle spese Nato, show di Trump
la Repubblica: La spesa militare raddoppia
La Stampa: Nato, Trump va all’incasso
Il Sole 24 Ore: Energia, meno vincoli per gli aiuti
Avvenire: A Gaza non c’è tregua
Il Messaggero: Nato, l’accordo sulle armi
Il Giornale: L’Europa si riarma
Leggo: Impagnatiello, ergastolo e veleni
Qn: xxNato e Iran, show di Trump / «Bombe come Hiroshima»
Il Fatto: Meloni s’inchina al 5% / 700 miliardi in 10 anni
Libero: Salvini-Saviano / duello in tribunale
La Verità: Il bluff delle spese militari Nato
Il Mattino: Nato, intesa sulle spese militari
il Quotidiano del Sud: Trump show si riprende la Nato
il manifesto: La Mela stregata
Domani: Nato, scambio tra Ue e Trump / Più spese per non mollare Kiev
IN TERZA PAGINA Anna Zafesova descrive l’ambiguità di Trump sul conflitto ucraino al vertice Nato. Marco Iasevoli sostiene che l’intesa su riarmo al 5 per cento è una sconfitta per l’Europa. Francesco Bertolino e Andrea Rinaldi fanno il punto sul risiko bancario in corso. Gianni Riotta fa il ritratto di Zohran Kwame Mamdani, il socialista che ha vinto le primarie democratiche e corre per la carica di sindaco di New York. Salvatore Merlo racconta che, mentre volavano i missili, al festival dell’Unità di Roma si ricordava Alvaro Vitali
IN QUARTA PAGINA Tutto quello che c’è da sapere sulle nozze di Jeff Bezos e Lauren Sánchez. Dalla proposta alle proteste, dai patrimoni al contratto prematrimoniale, dagli ospiti al catering
I leader della Nato hanno concordato un forte aumento della spesa per la difesa – pari al 5% del Pil entro il 2035 – e hanno ribadito il loro impegno a difendersi a vicenda in caso di attacco. Secondo l’accordo raggiunto, i Paesi spenderanno il 3,5% del Pil per la difesa di base e l’1,5% per misure di difesa più ampie, come la sicurezza informatica e interventi strutturali (Reuters). La dichiarazione è stata sottoscritta da tutti anche se la Spagna ha ottenuto un’esenzione dal nuovo obiettivo Nato, garantendo di poter rispettare ugualmente i propri impegni. Una mossa che ha provocato la disapprovazione del presidente Usa Donald Trump che ha minacciato ritorsioni commerciali, dicendo che Madrid dovrà “pagare il doppio” (Axios).
Per rispettare i nuovi impegni Nato, molti Paesi dovranno ricorrere a tagli di bilancio, riduzioni in settori chiave come sanità e istruzione, o riassegnazioni creative di spesa per farla rientrare nelle voci militari (Reuters).
La Stampa★ sottolinea il nodo dei fondi per raggiungere il nuovo obiettivo del 5% del Pil: gli Stati Ue devono trovare 2.500 miliardi di risorse, ma solo Berlino avrebbe la forza economica per sostenere lo sforzo.
Sostegno incondizionato Al vertice Nato, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha definito “sostenibile” per l’Italia l’impegno ad aumentare la spesa per difesa e sicurezza, escludendo l’uso della clausola di salvaguardia per il 2026, chiesta invece da dodici Paesi Ue per godere di uno spazio di bilancio aggiuntivo fino all’1,5% del Pil (Il Sole 24 Ore). Meloni ha aggiunto di aver toccato anche il tema dazi, tra il colloquio con Trump alla cena di martedì sera e la riunione di ieri mattina, e di essere d’accordo sull’ipotesi di chiudere l’intesa Ue-Usa al 10%, poiché “non sarebbe particolarmente impattante” per le imprese italiane (La Stampa).
Al vertice Nato, Meloni ha chiesto a Trump la stessa determinazione su Gaza e Kiev, e segnali concreti sui dazi: “Non possiamo competere tra alleati”, scrive Avvenire★.
La Segretaria del Pd Elly Schlein, è tornata ad attaccare Meloni sulle spese militari Nato: “Doveva dire no ai soldi per le armi, è un rischio per gli interessi nazionali” ((La Repubblica★).
Guerra e pace
Risultato incerto Trump ha annunciato che gli Stati Uniti e l’Iran terranno dei colloqui la prossima settimana per cercare di raggiungere un accordo sul programma nucleare di Teheran (Axios). Intanto il parlamento iraniano ha approvato quasi all’unanimità il piano per sospendere gli impegni assunti nell’ambito del Trattato di non proliferazione nucleare e cessare la cooperazione con l’Aiea a seguito degli attacchi ai suoi impianti nucleari (Dw).
Con l’inizio della tregua e il susseguirsi di versioni discordanti, il Corriere si interroga sulla destinazione dell’uranio di Teheran.
Visioni opposte Il presidente degli Stati Uniti e il Segretario di Stato Marco Rubio hanno respinto le conclusioni del rapporto preliminare dell’intelligence statunitense che sostiene che gli attacchi americani non avessero ostacolato significativamente le ambizioni nucleari dell’Iran (Nyt). Trump ha ribadito che il programma nucleare iraniano è stato annientato e ha paragonato l’impatto degli attacchi americani sui siti nucleari iraniani alle bombe atomiche lanciate degli Stati Uniti su Hiroshima e Nagasaki, che hanno posto fine alla Seconda Guerra Mondiale (Reuters). Anche il direttore della Cia John Ratcliffe è intervenuto sostenendo che, secondo nuove valutazioni, gli attacchi Usa hanno “gravemente danneggiato” il programma nucleare iraniano (Nyt).
Teheran ha parlato di “danni gravi” al programma atomico (Cnn), mentre la Commissione israeliana per l’energia atomica ha affermato che l’impianto di Fordow è stato reso inutilizzabile” (Cnn).
Progressi e regressi Gli attacchi israeliani nella Striscia di Gaza hanno ucciso almeno 45 palestinesi ieri, tra cui alcuni mentre cercavano aiuti nei centri di distribuzione del cibo (Bbc). Decine di coloni israeliani hanno attaccato una città palestinese della Cisgiordania, innescando uno scontro che si è concluso con l’uccisione di tre palestinesi da parte delle forze israeliane (Guardian). Intanto Hamas ha confermato un’intensificazione dei contatti per il cessate il fuoco con i mediatori in Egitto e Qatar, mentre Trump ha parlato di “grandi progressi” nei negoziati (Dw).
Con l’attenzione del mondo rivolta alla guerra con l’Iran, Israele ha intensificato gli attacchi contro i civili affamati a Gaza, colpiti persino durante la distribuzione degli aiuti. I palestinesi, scrive +972 Magazine, parlano di “Hunger Games” (Il Manifesto★)”.
Dopo il successo militare con l’Iran, per Netanyahu questo sarebbe il momento ideale per chiudere anche la guerra a Gaza e sigillare il consenso elettorale dove, secondo i sondaggi, potrebbe uscire vincitore o non totalmente sconfitto, scrive La Repubblica★.
Notizie da est
Incontro riuscito Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha incontrato Trump a margine del vertice Nato all’Aia, per cercare di convincere l’omologo statunitense a vendere armi all’Ucraina. Zelensky si è detto soddisfatto dell’incontro (Bloomberg) mentre Trump ha fatto sapere che sta valutando la possibilità di fornire all’Ucraina una maggiore quantità di missili antiaerei Patriot, su cui Kiev fa affidamento per difendersi dai crescenti attacchi russi (Reuters). Il presidente Usa ha anche assunto un tono più duro nei confronti della Russia, esprimendo frustrazione per le resistenze di Putin a porre fine alla guerra (Ft+). Trump ha avvertito che Putin potrebbe non fermarsi all’Ucraina, ma ha aggiunto che sarebbe “mal consigliato” (La Repubblica★). Ma il Segretario di Stato Usa ha ribadito che Trump non sosterrà nuove sanzioni europee contro Mosca, per non ostacolare possibili negoziati di pace (Politico).
In un in’intervista a La Stampa★, il politologo Charles Kupchan afferma che Trump sarebbe deluso da Putin e pronto ad aumentare il sostegno a Kiev e un impegno nella Nato.
Giustizia ad hoc Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha firmato un accordo con il Consiglio d’Europa per istituire un tribunale speciale sul crimine di aggressione, che perseguirà i vertici russi responsabili dell’invasione. Il tribunale, indipendente dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, potrà agire anche in assenza degli imputati e colma il vuoto giuridico lasciato dalla Corte penale internazionale (Ft+).
Agenda americana
Assedio scientifico Gli Stati Uniti sospenderanno i fondi a Gavi, l’alleanza globale per i vaccini, finché non migliorerà la trasparenza sulla sicurezza vaccinale, ha dichiarato il Segretario alla Salute americano Robert F. Kennedy Jr (Politico). La decisione arriva mentre il nuovo comitato da lui nominato ha messo in discussione le raccomandazioni sui vaccini infantili, sollevando forti timori tra gli esperti (Nyt).Botta e risposta Il presidente della Federal Reserve Jerome Powell, durante la sua audizione al Senato, ha avvertito che i dazi imposti da Trump potrebbero far salire l’inflazione nei prossimi mesi, motivo per cui la Fed intende attendere prima di tagliare i tassi. Trump lo ha attaccato duramente, definendolo “una persona molto stupida” e annunciando di avere già i nomi per sostituirlo nel 2026 (Ap).
Orizzonti
Protezionismo al bando Al World Economic Forum di Tianjin, il premier cinese Li Qiang ha promesso un’ulteriore apertura della Cina al commercio globale, mettendo in guardia contro la frammentazione delle catene di approvvigionamento e offrendo le tecnologie cinesi come open source (Ft+).Risiko bancario Il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti ha criticato le recenti operazioni bancarie, definite operazioni “di carta” senza reali investimenti, e ha ribadito che spetta al mercato valutarne la convenienza. Sul caso Mps-Mediobanca ha sottolineato il ruolo della Bce e la linea non interventista del Tesoro (Il Sole 24 Ore).Motori (poco) rombanti A maggio il mercato auto europeo è cresciuto dell’1,9% trainato da elettriche e ibride, secondo Acea (Bloomberg). Tesla segna però un quinto calo mensile consecutivo: -28% su base annua, con 13.863 veicoli venduti (Ft+).
Mondo reale
Treni bloccati Un furto di 200 metri di cavi in rame vicino alla stazione di Lille ha causato forti ritardi e cancellazioni ai treni Eurostar tra Londra, Parigi, Bruxelles e Amsterdam. Il traffico è ripreso nel pomeriggio (Guardian).Addio È morta a 90 anni Lea Massari, attrice italiana attiva tra cinema, teatro e televisione, nota per “L’avventura” di Antonioni e “Una vita difficile” di Risi. Ritiratasi dagli schermi negli anni ’90, aveva scelto da tempo una vita appartata (Ansa).
Sport
Coppa del mondo Nel terzo turno dei gironi del Mondiale per Club della Fifa, l’Inter ha chiuso l’ultimo match del Gruppo E battendo la squadra argentina River Plate 2-0 a Seattle, negli Stati Uniti. I nerazzurri si qualificano così per gli ottavi di finale dove sfiderà il Fluminense (Gazzetta).
Oggi
Bruxelles (Belgio), Consiglio europeo;Bruxelles (Belgio), audizione con il capo del Comitato militare della Nato, l’ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone, alla Commissione Sicurezza e difesa del Parlamento europeo;Marsiglia (Francia), accoglienza ufficiale dei primi scienziati statunitensi all’università Aix-Marseille;Stati Uniti, Pil primo trimestre, bilancia commerciale, nuove richieste sussidi (stima finale);San Francisco (Stati Uniti), 80º anniversario della firma da parte dei primi 50 Paesi della Carta delle Nazioni Unite, documento fondativo dell’Onu;Venezia (Italia), matrimonio di Jeff Bezos e Lauren Sanchez;
Italia, elezioni per eleggere il nuovo presidente del Comitato olimpico italiano (Coni), che succederà a Giovanni Malagò;
Orlando (Stati Uniti), Coppa del mondo per club FIFA – gruppo G, Juventus (Italia) – Manchester City (Inghilterra).
Prime:
Corriere: Sì alle spese Nato, show di TrumpRepubblica: La spesa militare raddoppiaLa Stampa: Nato, Trump va all’incassoIl Sole 24 Ore: Energia, meno vincoli per gli aiutiMf: Calta-Delfin all’esame BceIl Messaggero: Nato, l’accordo sulle armiIl Fatto Quotidiano: Meloni si inchina al 5%: 700 miliardi in 10 anniDomani: Nato, scambio tra l’Ue e Trump. Più spese per non mollare KievAvvenire: A Gaza non c’è tregua
Il Foglio: Il riarmo non fa paura
Il Giornale: L’Europa si riarma
Libero: Salvini-Saviano, duello in tribunale
La Verità: Il bluff delle spese militari Nato
il manifesto: La Mela stregata
Ft: Nato allies pledge to meet Trump’s demand for defence spending bump
giovedì 26 giugno 2025
Sì al 5 per cento delle spese Nato, ma è scontro tra Sanchez e Trump
di Alessandro Trocino
Buongiorno.
Se c’è un apparente vincitore a sorpresa di queste giornate convulse, questo sembra Donald Trump. Per giorni era sembrato traballante e debole, con un atteggiamento quasi di sudditanza verso Benjamin Netanyahu e di impotenza verso Vladimir Putin. Poi qualcosa è cambiato. Ha lanciato il blitz contro l’Iran, niente affatto risolutivo ma sbandierato come una vittoria (e, del resto, si considerano vincitori anche Teheran e Israele). Ha rivendicato la tregua tra India e Pakistan e la stabilizzazione del Kosovo. Ha imposto uno stop all’escalation tra Iran e Israele, cessazione delle ostilità che è sembrata più fragile di un cristallo e che invece sembra tenere. E ieri, ciliegina sulla torta, ha incassato un impegno epocale dei Paesi europei nel vertice Nato, riuscendo dove non erano riusciti i suoi predecessori, dando una lezione agli «alleati parassiti» e ottenendo un bel pacchetto di miliardi in acquisti di armi, da offrire alla sua bilancia commerciale. Non a caso, parla di «summit fantastico» e di «vittoria monumentale» per gli Stati Uniti.
Insomma, oggi, giovedì 26 giugno, di prima mattina, Donald Trump appare come il mattatore assoluto, dominatore incontrastato della scena politica e mediatica. Tra qualche ora, chissà, potrebbe essere il contrario. Perché le sue vittorie sono molto precarie, stentoree e fragili, ottenute con minacce, seguite spesso da passi indietro. E dunque, tutto può ancora cambiare. Ma la notizia più attuale, con la quale apriamo la Prima Ora di oggi è il vertice Nato. In questi casi si definisce «storico» e stavolta sembra proprio una definizione appropriata. Vediamo perché.
Un vertice storico, tre motivi
È il presidente della Finlandia, Alexander Stubb, a sintetizzare meglio le novità e i tre motivi per i quali si tratta di un vertice storico.
1 «Torniamo alle radici dell’alleanza, a funzionare cioè, come un sistema di difesa collettiva e globale per dissuadere la Russia».
2 «Torniamo ai livelli di spesa per la difesa della Guerra Fredda».
3 «Assistiamo alla nascita di una nuova Nato più equilibrata, con una maggiore responsabilità da parte dell’Europa».
Il secondo motivo, a rileggerlo, mette un brivido. Gioire per il ritorno della spesa militare a livelli paragonabili a quelli della Guerra Fredda, non dovrebbe essere un sollievo. Ma è probabile che le minacce attuali sul fronte internazionale siano più gravi e pressanti di quelle nate dal conflitto tra le due superpotenze dopo la seconda guerra mondiale.
Ma cosa ha stabilito il vertice di ieri? Nella dichiarazione finale del vertice Nato si è sancito ufficialmente «l’impegno» dei 32 Paesi membri a investire il 5% del Pil in spese militari entro il 2035. La spesa potrà essere così composta: almeno il 3,5% del Pil all’anno dovrà essere destinato alle spese militari e un ulteriore 1,5% alla sicurezza in senso più ampio, intesa come «protezione delle infrastrutture critiche». La motivazione adottata nella dichiarazione parla della necessità di essere «uniti di fronte alle profonde minacce e sfide per la sicurezza» e di fronte alla «minaccia a lungo termine rappresentata dalla Russia per la sicurezza euroatlantica e alla persistente minaccia del terrorismo».
A chi conviene? L’obiettivo principale, rivendicato sostanzialmente da tutti, è quello di aumentare la capacità di difesa della Nato, e quindi dell’Europa, in un momento in cui le minacce globali aumentano, a cominciare dalla Russia, e nel quale gli Stati Uniti di Trump minacciano un disimpegno, che potrebbe – nelle intenzioni dei leader – essere disincentivato dall’aumento delle spese nazionali dei Paesi membri. Aumento che, ricordiamolo, era già stato chiesto più volte anche da predecessori democratici di Trump, come Joe Biden e Barack Obama. Solo che questa volta c’è un presidente che ha deciso di mandare alle ortiche ogni etichetta e di pretendere, anche con le cattive, di raggiungere i suoi obiettivi. In caso contrario, Trump aveva già fatto capire che l’articolo 5 della Nato, quello che prevede un intervento difensivo dell’Alleanza in caso di attacco verso uno dei Paesi, non sarebbe più stato così automatico e stringente e andava «reinterpretato». Dunque, da una parte gli europei sostengono di aver scelto liberamente di aumentare la loro capacità difensiva; dall’altra sono stati sostanzialmente obbligati a farlo da Trump.
Ma il presidente americano che interesse ha a questo accordo? Il primo è quello di far sì che la difesa dell’Europa, attraverso la Nato, non sia pagata sostanzialmente solo dagli Stati Uniti, come è avvenuto dal dopoguerra a oggi. E poi c’è un altro obiettivo, ancora più concreto. Ed è quello di incassare una montagna di dollari: perché i Paesi europei spenderanno nei prossimi anni centinaia di miliardi in acquisti in armamenti. E da chi compreranno gli europei? Principalmente da aziende americane.
La Spagna firma ma forse non paga Nei giorni scorsi la Spagna era stata l’unica, insieme alla Slovacchia, a provare a resistere a questo forte aumento delle spese. Il premier Pedro Sánchez aveva spiegato che quella cifra non è sostenibile e che la Spagna arriverà al massimo al 2,1 per cento. Legittimo, se non fosse che gli altri Paesi della Nato, e figuriamoci Trump, non erano d’accordo. E così Sánchez ha sostenuto di aver ricevuto una deroga dal segretario generale della Nato, Mark Rutte, grazie a un carteggio in cui ha fatto cambiare il «noi» dell’impegno in un più generico «gli Alleati». Rutte non ha confermato la deroga. Ma Sanchez ha tirato dritto: «Ringrazio gli Alleati per aver dimostrato rispetto per la sovranità della Spagna». Poi si è arrivati alla firma. Nella dichiarazione finale del vertice Nato non si prevedono eccezioni, ma la Spagna, che ha firmato, ha fatto sapere che la spesa del 2,1 per cento sarà «sufficiente, realistica e compatibile con lo stato sociale» e consentirà alla Spagna di rispettare gli obiettivi di capacità concordati. In sostanza, Madrid non ha alcuna intenzione di arrivare al 5 per cento.
Trump non l’ha presa bene Naturalmente, il presidente americano non ha apprezzato l’eccezione spagnola e ha reagito da par suo. Minacciando: «Quando negozieremo con la Spagna per accordi commerciali le faremo pagare il doppio, perché è l’unico Paese della Nato che si rifiuta di pagare». Non una minaccia banale, perché la Spagna, vincolata all’Europa, non potrà rispondere singolarmente.
Quanto spenderemo? Secondo un calcolo della rivista Le Grand Continent per raggiungere il 5% del Pil gli europei dovrebbero spendere 510 miliardi di euro in più all’anno per la difesa: la Spagna dovrebbe spendere 65,3 miliardi in più, ovvero un aumento medio di 9,32 miliardi in più all’anno e l’Italia 82,9 miliardi in più cioè 11,84 miliardi all’anno. Per la Francia la cifra ammonterebbe a 92,7 miliardi di euro in più, ovvero un aumento annuale medio di 13,24 miliardi. Per la Germania lo sforzo aggiuntivo sarebbe di 136,1 miliardi di euro, pari a 19,44 miliardi in più all’anno.
L’Europa sigla la tregua con Trump? È inevitabile pensarlo, visto anche l’atteggiamento compiacente di alcuni leader europei. In particolare di Mark Rutte, segretario generale della Nato, secondo il quale il presidente Usa è «un uomo forte ma anche un uomo di pace» e «merita tutti gli elogi». Sarcina fa un bel ritratto di questo uomo capace di farsi concavo e convesso e che veniva chiamato «Teflon Rutte». In questi giorni si è lasciato andare a «vette di adulazione addiritture grottesche». Il presidente americano ne ha approfittato pubblicando i suoi sms. Ieri Rutte ha spiegato che «Trump per noi è come un paparino che talvolta deve alzare la voce per farsi ascoltare da bambini che si picchiano nel parco». Più tardi, davanti ai giornalisti, «daddy» Trump ha sorriso: «Che volete che vi dica, si vede che Mark mi è davvero affezionato». Sul tema, si esprime anche Massimo Gramellini, che trovate sotto.
Ma gli Stati Uniti ci arriveranno al 5 per cento? Incredibilmente, l’accordo sembra valere per tutti ma non per Washington. A prendere le difese di Trump, ecco ancora Rutte, secondo il racconto di Francesca Basso: «Secondo la nuova formula che considera la spesa per la difesa classica e aggiuntiva, tenuto conto che gli Usa sono al 3,4%, con “la loro enorme capacità in termini di lotta informatica, criminalità informatica, minacce ibride, quando si tratta di investimenti infrastrutturali e quando si tratta di sviluppare la base industriale della difesa”, gli Stati Uniti “sono più o meno già al 5%”». E tanto basti.
Ma gli impianti nucleari iraniani sono stati distrutti? Trump sostiene di sì. Non in questi termini, ma con una certa enfasi: arriva a paragonare le bombe sui reattori iraniani alle atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki. «Il raid a Fordow ha messo fine alla guerra». Per ora, pare proprio di sì. Ma molto probabilmente non ha messo fine alla capacità iraniana di dotarsi di ordigni nucleari. Il New York Times, che cita un rapporto riservato della Defense Intelligence Agency, spiega che le bombe americane non sono riuscite a provocare il crollo delle strutture sotterranee. Gli attacchi hanno causato danni, ma gran parte delle scorte di uranio arricchito era già stata spostata in altri luoghi prima del raid. E se prima dell’operazione, per l’intelligence statunitense l’Iran avrebbe potuto costruire una bomba in tre mesi, ora la previsione arriva a sei mesi. Dunque, i B2 americani avrebbero ritardato la bomba di soli tre mesi. Fake news, le ha definite Trump, scagliandosi contro New York Times, Cnn e Msnbc.
Ma ora che succede Se è vero che gli iraniani possono continuare a costruire la bomba, e visto che hanno appena vietato all’Aiea le ispezioni ai loro siti, che succederà ora? Trump è tranquillo: «Con l’Iran ci parleremo la prossima settimana. Un accordo sul loro nucleare è possibile. Ma è superfluo. L’ultima cosa che vogliono fare ora è arricchire l’uranio, non costruiranno la bomba per molto tempo. Il nucleare di Teheran è finito». Ora, probabilmente, ricominceranno i negoziati. E si vedrà anche se Israele ha finito il suo «lavoro» in Iran o intende proseguire.
Netanyahu ringrazierà Trump con un negoziato a Gaza? A proposito di Israele, Davide Frattini ragiona su quel accadrà. Trump potrebbe chiedere una ricompensa a Netanyahu, dopo aver sganciato le bombe micidiali sugli impianti iraniani. E questa passerebbe dal cessato il fuoco, dalla normalizzazione dei rapporti con l’Arabia Saudita e dall’inizio di negoziati. Con, prospettiva finale e ormai quasi fantascientifica, la creazione di uno Stato palestinese. Considerando la storia di Netanyahu, le sue pendenze giudiziarie, la sua necessità di continuare la guerra per restare in sella, la dipendenza del governo dagli oltranzisti e dai coloni messianici, è difficile che questo percorso si avvii davvero. Ma nell’autunno prossimo ci sono le elezioni: Netanyahu, scrive Frattini, potrebbe scaricare gli estremisti e ottenere consensi grazie a un accordo con l’Arabia Saudita.
Il «presidente essenziale» in conferenza stampa Giuseppe Sarcina racconta quel che ha detto Trump in conferenza stampa. Uno show dei suoi, con attacchi ai cronisti e alle testate più invise, e il solito affastellarsi di iperboli. Sarcina riprende una vecchia definizione degli anni ’90 dell’allora Segretaria di Stato, Madeleine Albright, che definì gli Stati Uniti «la Nazione essenziale». Ora è Trump a porsi come un «presidente essenziale», l’uomo sempre decisivo (anche quando non lo è affatto).
Ucraina trascurata, ma Zelensky porta a casa qualcosa Nel 2024, il vertice Nato aveva messo per iscritto che l’entrata nell’Alleanza dell’Ucraina era irreversibile. E condannato l’aggressione russa. Ma allora c’era Biden, oggi c’è Trump. E così Volodymyr Zelensky ha scelto di cercare obiettivi più concreti. Come i Patriot. Trump ha nicchiato, ma non escluso: «Ne abbiamo dati molti a Israele e ci vorrà del tempo per fabbricarne altri». Ma Zelensky ha portato a casa altri risultati. L’intelligence americana ha ripreso a fornire agli ucraini informazioni complete sui movimenti delle forze armate russe. E il Tesoro Usa si è impegnato a versare la metà dei fondi mancanti per il deficit dell’Ucraina, che nel 2025 ammonterà a 38 miliardi di dollari.
Meloni: «Neanche un euro tolto alla sanità» Dove si troveranno tutti questi miliardi? La domanda se la stanno ponendo tutti. L’opposizione in modo indignato, facendo notare che già la sanità ha subito un arretramento spaventoso, ora l’aumento delle spese militari rischia di sottrarre altri fondi. Ma anche al governo, evidentemente, stanno facendo i conti. Per ora Giorgia Meloni si limita a dire che è un impegno «sostenibile» e che «non sarà distolto neanche un euro dalle altre priorità a difesa e tutela degli italiani». Anzi, le spese militari, dice la premier, creeranno un circolo virtuoso per l’economia («se siamo bravi»).
E i dazi? Meloni ci prova, Trump annuisce Marco Galluzzo racconta nel suo retroscena che la premier, in un incontro a porte chiuse, si sarebbe rivolta direttamente a Trump, spiegando: «Non può esserci una competizione fra alleati se dobbiamo raggiungere insieme tutti questi obiettivi, il target del 5% delle spese di difesa insieme alla creazione di un’area di free trade fra le due sponde dell’Atlantico sono due facce della stessa medaglia». In sostanza: noi paghiamo le spese militari, ma tu rinunci alla battaglia dei dazi. Trump, a quanto risulta, avrebbe annuito.
E Schlein che dice? Polemizza, attacca Meloni, lancia l’allarme sullo Stato sociale a rischio. Ma nel mirino della leader Pd, scrive Maria Teresa Meli, c’è anche Ursula von der Leyen, che ha fatto retromarcia sul dossier green: «I nostri voti non sono garantiti e vi assicuro che i nostri voti contano. Il gruppo dei democratici e socialisti è fortemente critico con la Commissione».
Slittano premierato e riforma della giustizia
Slitta l’esame di premierato e giustizia, che era previsto per luglio. L’opposizione attacca: sono divisi. La maggioranza sembra cadere dalle nuvole. Paola Di Caro spiega cosa sta succedendo davvero, dietro le quinte: «La vera riforma che si vuole portare a termine in tempi brevi, e che andrà sicuramente al referendum visto che non ci saranno i due terzi, è quella sulla giustizia. Sul premierato invece calma e gesso. Non tanto, giurano, per divisioni interne, ma perché l’idea sarebbe quella di vararla a fine legislatura, usarla come grande risultato in campagna elettorale e poi, semmai, il referendum si terrebbe nella legislatura successiva».
Scontro Saviano-Salvini in tribunale
Il ministro dei Trasporti e delle Infrastrutture Matteo Salvini si è presentato in tribunale, dove ha detto di non voler rimettere la querela nei confronti dello scrittore e imputato Roberto Saviano. Si ritiene «gravemente diffamato» da quel post del 21 giugno 2018, quando era titolare dell’Interno: «Salvini — scrisse Saviano — oggi è definibile ministro della malavita, espressione coniata da Gaetano Salvemini». Nel libro di Salvemini la frase incriminata era riferita a Giovanni Giolitti, accusato di pescare voti nel profondo Sud, disilluso e demotivato. Ma a Salvini, che ammetterà poi di non aver letto il libro, è suonata «gravemente lesiva dell’onorabilità di un ministro». Scrive Ilaria Sacchettoni: «Il ministro arriva e non saluta, anche se poi sosterrà di averlo fatto. Saviano gli rivolge un vergognati». Il ministro leghista dice in Aula: «Quelle frasi di Saviano furono un’esplicita allusione a una contiguità con la ‘ndrangheta che mi fa inorridire. Mia figlia di 5 anni si preoccupò». Saviano rende dichiarazioni spontanee: «Ritengo di avere tutto il diritto di utilizzare il paradigma di Salvemini per criticare Salvini. Era riferito a Giolitti, un politico di razza, non come Salvini. Quando i partiti del nord andavano tra i “terroni” a manipolarli, a condizionarli. Salvini difende il suo deputato Domenico Furgiuele, suocero di Salvatore Mazzei, condannato per estorsione aggravata dal metodo mafioso. E del resto è ancora al suo posto malgrado le condanne del suocero Denis Verdini. In un Paese serio sarebbe stato già allontanato. In Calabria disse che il vero problema era l’immigrazione. È il motivo per cui pubblicai quella frase».
New York, sorpresa Mamdani per i democratici
Per la nomination democratica a sindaco di New York era stato rispolverato Andrew Cuomo, ex governatore costretto alle dimissioni per molestie sessuali meno di quattro anni fa. Le primarie, però, le ha vinte, come scrive Matteo Persivale, «un carneade socialdemocratico in politica dal 2020 e cittadino americano dal 2018, Zohran Mamdani: 43,5% contro 36,4%, sette punti abbondanti di distacco. I votanti? Più di un milione, un democratico su tre, affluenza record. Umiliazione galattica per l’establishment del partito a Washington che, a questo giro, difficilmente riuscirà a normalizzare la crescita della sua ala sinistra».
Le altre notizie
Femminicidio di Giulia Tramontano, confermato in appello l’ergastolo ad Alessandro Impagnatiello. Come nel primo grado, confermata l’aggravante della crudeltà ed esclusa quella della premeditazione.
Bimbo annegato in piscina, si uccide il bagnino dell’acquapark di Castrezzato (Brescia).
Francis Kaufmann, l’uomo accusato di avere ucciso la moglie e la figlia, trovate cadavere a Villa Pamphili, a Roma, è stato interrogato in Grecia e ha negato. Anzi, ha attaccato, con una difesa che si spera per lui migliore in Aula: «In Italia mi hanno arrestato i mafiosi».
È morta a 91 anni Lea Massari, attrice di Monicelli e Antonioni. Antidiva, a 57 lasciò le scene e si ritirò a vita privata.
Nel podcast «Giorno per giorno», Francesca Basso spiega le decisioni prese al vertice Nato dell’Aja sui contributi finanziari degli Stati membri. Giuseppe Guastella parla della sentenza d’appello per l’uccisione di Giulia Tramontano, con la conferma della condanna per il suo ex fidanzato Alessandro Impagnatiello. Vera Mantengoli racconta dei preparativi per i tre giorni di festeggiamenti (e proteste) a Venezia per le nozze tra il proprietario di Amazon Jeff Bezos e Lauren Sanchez.
Il Caffè di Massimo Gramellini
Rutte libero
«Ammetto di avere un debole per il segretario generale della Nato, l’olandese Mark Rutte. In un mondo di ipocriti che ti attaccano in pubblico e ti lisciano in privato, o viceversa, egli brilla per la sua cristallina coerenza. Nei giorni scorsi aveva inviato a Trump un sms di elogi sperticati. Al confronto, Fantozzi che biascica “come è umano lei” mentre il megadirettore galattico lo fa fustigare in sala-mensa sembra il Gladiatore. L’oggetto del gorgheggiare di Rutte era il trasferimento degli oneri della difesa comune dalle tasche degli americani a quelle dei contribuenti europei. Per questi ultimi non si tratta di una splendida notizia. Invece Rutte l’ha trasformata in una festa, attribuendone il merito a Trump e ringraziandolo per averci offerto questa straordinaria opportunità di impoverirci.
Trump ha reso pubblico il messaggio: per narcisismo e anche per quella sottile forma di disprezzo che i potenti dispettosi nutrono verso chiunque superi i livelli consentiti di servilismo. Ma è qui che Rutte ha sbalordito persino noi ammiratori. Incontrando Trump ieri all’Aia, avrebbe potuto mantenere un contegno dignitoso. E invece, proprio quando il bauscia d’oltreoceano bacchettava israeliani e iraniani, lui lo ha interrotto per incensarlo. «Paparino a volte deve esser duro!», ha detto, sottolineando la battutona con una risatina convulsa. Perché almeno questo gli va riconosciuto: in pubblico come in privato, Rutte ha una sola faccia. E una sola lingua».
(in sottofondo «Believer», di Annahstasia. La trovate nella nostra Playlist, aggiornata ogni venerdì con le nuove uscite di musica pop, rock e indie).
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La Rassegna: Trumpismo in picchiata, De bello persiano, il Sultano laconico, un’omelia da meditare, la Cinebussola
mercoledì 25 giugno 2025
Trumpismo in picchiata, De bello persiano, il Sultano laconico, un’omelia da meditare, la Cinebussola
Donald Trump
di Luca Angelini
Bentrovati.
I sondaggi che bocciano Donald E lo bocciano su tutto: economia, inflazione e perfino (anche se di poco) immigrazione. Da una parte è il suo modo di fare a nuocergli: più si agita, più perde consensi. Dall’altra c’è un meccanismo di fondo che i politologi chiamano «effetto termostato», e che sottrae consensi ai governi. I democratici per ora non ne approfittano. Ma potrebbero riuscirci nel voto di midterm dell’anno prossimo. Ne parla Gianluca.
Ha perso la Persia? Andrea Nicastro, in questi giorni inviato a Beirut, scrive per la Rassegna che Israele ha vinto una battaglia ma non la guerra con l’Iran. E il rischio atomico, al di là dei proclami, rimane alto.
Il Sultano silente Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan è stato tra i più feroci critici dell’attacco israeliano all’Iran e, prima ancora, della guerra a Gaza. Eppure, sull’appoggio militare di Trump a Netanyahu (che aveva cercato fino all’ultimo di evitare) non ha fatto quasi sentire la sua voce. Proviamo a capire, con l’aiuto di alcuni analisti mediorientali, cosa potrebbe esserci sotto.
La nuova parabola dei talenti Nel suo Frammento di oggi, Ferruccio de Bortoli segnala un’omelia dell’arcivescovo di Torino, Roberto Repole, che gli sembra rivoluzionaria. Perché punta il dito contro i possessori di grandi capitali della sua città, «che preferiscono tenere i soldi in banca anziché investirli nel circuito delle imprese e nello sviluppo dell’economia reale».
La Cinebussola L’horror 28 anni dopo di Danny Boyle lancia qualche stoccata polemica al Regno Unito post Brexit, ma il nostro Paolo Baldini non gli perdona «certe incongruenze della trama, con una storia pretestuosa che perde sovente il filo, picchia in testa».
Perché Trump è in calo in tutti i sondaggi (perfino sull’immigrazione)
Gianluca Mercuri
Donald Trump non è mai stato così impopolare da quando è tornato alla Casa Bianca. Il dato è ancora monco dell’effetto Iran, ma non è detto che questo sia un vantaggio per il presidente americano, perché l’effetto patriottico del rally-around-the-flag, tutti attorno alla bandiera, è meno automatico di quanto si pensi, in particolare in una fase storica in cui la propensione all’interventismo non è certo marcata.
È certo invece che la media dei sondaggi aggregati dal sito RealClearPolling dà una percentuale di elettori scontenti dell’operato di Trump maggiore di quelli contenti in tutti i settori chiave: economia (55,4% contro 42,6), inflazione (59,3 contro 39,2: e questo è forse il dato più preoccupante per il leader, visto che l’inflazione dell’era Biden è stata decisiva per il suo successo dell’anno scorso), politica estera (53,5% contro 42,3, ma sono rilevazioni precedenti al bombardamento dei siti nucleari iraniani e al successivo cessate il fuoco) e – sorpresa – perfino immigrazione: qui il divario si riduce – il 49,5% disapprova le scelte di Trump mentre il 47,9 le approva – ma colpisce che anche sul tema che è diventato la bandiera del movimento Maga (Make America Great Again) il presidente sia in difficoltà. Per quanto sembri controintuitivo – per quanto cioè l’apparato propagandistico trumpiano abbia propalato la tesi di un grande consenso di fondo – i raid anti-immigrati condotti in California dalle squadre dell’Ice (l’Immigration and Customs Enforcement), e soprattutto il dispiegamento della Guardia Nazionale e dei Marines in risposta alle proteste di piazza, hanno fatto scendere il sostegno alle politiche di Trump sull’immigrazione al punto più basso di quest’anno (vedi il grafico di YouGov sotto). Un calo nettissimo che esprime la dilapidazione di un grande capitale politico, espresso dall’indice di gradimento al momento dell’entrata in carica in gennaio e soprattutto dalla netta vittoria contro Kamala Harris alle Presidenziali di novembre.
Ma il dato più importante di questo terremoto nei consensi al presidente è prettamente politico: contrariamente a quello che tende a pensare lui stesso, Trump più si agita più cala nei sondaggi, e più sta tranquillo più risale. Per dirla meglio con Zack Beauchamp, un grande studioso dei populismi di destra, «quando Trump è al centro delle cronache, usa il suo pulpito prepotente e compie sforzi di alto profilo per perseguire la sua agenda, la sua popolarità cala. Quando si ritira sullo sfondo e il pubblico si concentra altrove, la sua popolarità si riprende un po’». In pratica, «più la gente presta attenzione a Trump, meno le piace, il che genera una sorta di enigma. Trump, che è in grado di catturare le luci della ribalta, ha dimostrato di essere anche incapace (o non disposto) a fare qualcosa in silenzio».
Questo trend è stato costante negli ultimi sei mesi, visto che ogni mossa o annuncio presidenziale – dai tagli indiscriminati alla spesa federale imposti da Elon Musk fino alla guerra dei dazi scatenata dalla Casa Bianca – ha finito per confermarlo. Al contrario, quando Trump ha ridimensionato sia Musk sia il suo approccio aggressivo sulle tariffe commerciali, il suo indice di gradimento è tornato a salire. Lo stesso andamento si è riscontrato sull’immigrazione. Se l’opinione pubblica è tendenzialmente favorevole all’espulsione dei clandestini, i metodi spicci di Trump e la continua sollecitazione di un clima emergenziale sono invece respingenti. Può sembrare curioso ma è quello che sta succedendo: Trump sta facendo quello che ha promesso in modo martellante durante la campagna elettorale, e che lo ha fatto vincere. Ma il modo in cui lo sta facendo gli sta rivoltando contro una fetta importante di opinione pubblica.
Non è però un tratto unico della presidenza Trump: era successo anche a Barack Obama e a Joe Biden. I due ultimi presidenti democratici hanno visto calare i consensi appena hanno realizzato le politiche su cui si erano impegnati, come l’Obamacare o il ritiro dall’Afghanistan. L’opinione pubblica si sposta dunque nella direzione opposta a quella presa dal governo, secondo quello che i politologi, spiega Beauchamp, chiamano «modello termostatico»: «Proprio come si alza o si abbassa la temperatura di un termostato a seconda delle sensazioni che si provano in una stanza, l’opinione pubblica reagisce positivamente o negativamente a seconda delle azioni intraprese dal presidente e dal partito al potere». Possiamo vederlo, a essere ottimisti, come una sorta di riflesso pavloviano di massa, o come un meccanismo autocorrettivo ed equilibratore proprio di una grande democrazia, con la gente che frena qualsiasi tipo di eccesso di qualsiasi governo. Lo studioso entra nei dettagli: «L’opinione pubblica sostiene i tagli alla spesa quando il governo inizia a spendere di più, diventa più liberal sulle questioni sociali quando un presidente conservatore se ne appropria (come per l’immigrazione e la giustizia razziale durante gli anni di Trump), e il sostegno all’Affordable Care Act (l’Obamacare) aumenta quando i repubblicani cercano di tagliarlo». Tecnicamente si chiamano spostamenti anti-incumbent, cioè movimenti di opinione contrari al leader in carica, e in teoria preludono a futuri vantaggi per l’opposizione. Ma è solo teoria: per ora, «il fatto che l’opinione pubblica si stia raffreddando nei confronti di Trump non significa che si stia scaldando nei confronti dei democratici». Tutt’altro: «L’opinione pubblica sul Partito democratico è ancora clamorosamente negativa: poco più di un terzo degli americani ha un’opinione favorevole del partito o dei democratici al Congresso, entrambe inferiori a quelle dei repubblicani». Un dato può però far sperare gli anti-Trump in America e nel mondo: «I democratici godono di un leggero vantaggio nei sondaggi generici in vista delle elezioni di metà mandato del prossimo anno». Quelle che, se gli togliessero il controllo del Congresso o almeno di una Camera, farebbero di Trump la classica anatra zoppa e ricollocherebbero il presidente più destabilizzante di sempre nelle normali dinamiche democratiche. Quelle che sembra spesso incline a sovvertire.
Rassegna mediorientale/1
Israele ha vinto una battaglia, non la guerra. E il rischio atomico resta
Andrea Nicastro
Israele ha vinto una battaglia, ma non la guerra. Non sappiamo quel che resta del programma nucleare, ma qualunque cosa sia stata distrutta si può ricostruire, basta averne le capacità e il tempo. L’Iran ha tutt’e due. Una decina di scienziati uccisi non sradicano un’intera scuola di ricerca e sviluppo e, se il caso, la conoscenza si può anche comprare. La Corea del Nord, per fare un esempio, sarebbe disponibile a vendere il suo know how. Quel che non è riuscito al tandem Bibi-Donald è stato di abbattere il regime e convincere l’Iran a passare con i bagagli, ma senza le armi, nel fronte Occidentale. In altre parole, non hanno ottenuto la resa degli ayatollah. Cosa penseranno ora gli iraniani? Che per sopravvivere devono essere più armati, non meno. E la bomba atomica è la regina di tutte le deterrenze.
La strategia di Netanyahu è da sempre la sottomissione del nemico: ogni volta che qualcuno alza la testa lo si colpisce per indebolirlo, disarmarlo, intimidirlo. Le periodiche incursioni contro i suoi nemici più vicini si chiamano in gergo militare andare a tagliare l’erba. L’immagine rende bene l’idea. Dopo la strage del 7 ottobre, la dottrina securitaria di Netanyahu sembra aver fatto un salto di qualità ed è diventata l’annientamento del potenziale pericolo. C’è riuscito in Palestina e continua a lavorarci, ci è riuscito in Siria con il filoiraniano Bashar al-Assad, c’è quasi riuscito il Libano più che dimezzando le forze di Hezbollah. Non ci è riuscito in Iran. Novanta milioni di persone sono ancora guidate da clerici e militari che vedono in Israele il nemico.
Cosa serve per una pace duratura? Proprio quel «magnifico futuro» auspicato da Trump per quei due che «non sanno neppure più perché si combattono»? Serve che le esigenze di ciascuno siano almeno parzialmente rispettate. Che entrambi siano in parte scontenti di ciò che ha ottenuto l’altro, ma non spaventati. L’approdo finale deve essere che Teheran smetta di proclamare la distruzione di Israele come fine ultimo e che Israele smetta di espandersi a spese dei suoi vicini per «autodifesa».
La strada è lunga, ma gli interessi economici possono fare miracoli. Se gli Stati europei hanno smesso di combattersi tra loro dopo la Seconda Guerra Mondiale, c’è speranza anche per il Medio Oriente. L’alternativa è peggiore per tutti. Se l’Iran uscisse dal Trattato di non proliferazione nucleare per cercare la sua Bomba «difensiva», uscirebbero subito (e sempre per «autodifesa preventiva») anche Arabia Saudita, Turchia e Qatar. Poi toccherebbe all’Egitto, quindi a cascata al Sudan e all’Etiopia. (Dei rischi di proliferazione nucleare globale avevamo già parlato in questa Rassegna, ndr)
Tra le cause della prima Guerra Mondiale c’era lo «spazio vitale» delle grandi potenze, oggi la «minaccia esistenziale» delle potenze di mezzo. Il risultato allora fu la più grande strage della storia. Oggi potrebbe essere peggio.
Rassegna mediorientale/2
Perché Erdogan è stato (quasi) zitto sui bombardamenti Usa in Iran
Luca Angelini
Sabato, ad attacco israeliano in pieno corso, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan aveva di nuovo paragonatoil premier israeliano Benjamin Netanyahu a Hitler. Dopo l’intervento dei bombardieri americani B-2 per sganciare le «super bombe» sul sito nucleare di Fordow, si è limitato a un «non approviamo in alcun modo gli attacchi alla sovranità dell’Iran.Stiamo lavorando molto duramente per impedire che gli attacchi di Israele e dei suoi sostenitori contro il nostro vicino Iran si trasformino in un disastro ancora più grave». E poche ore fa, nella foto di rito al vertice Nato dell’Aia, Erdogan si è piazzato giusto di fianco a Donald Trump.
Il presidente turco Erdogan accanto a Trump al vertice Nato dell’Aia (foto Afp)
Sul sito del Middle East Institute, la politologa Gönül Tol aveva elencato i molti motivi per cui l’attacco israeliano all’Iran scombussolava l’agenda del «Sultano» Recep Tayyip Erdogan: «La vittima più immediata della guerra tra Israele e Iran potrebbe essere l’agenda economica di Erdogan. L’impennata dei prezzi globali del petrolio sta aggravando la vulnerabilità della già fragile economia turca, minacciando di superare gli obiettivi di inflazione e di ampliare il disavanzo con l’estero. (…) Le minacce dell’Iran di chiudere lo Stretto di Hormuz – una rotta chiave per le importazioni turche da Iraq, Qatar e Arabia Saudita – alzano ulteriormente la posta in gioco. I funzionari minimizzano il rischio e gli analisti affermano che una mossa del genere sarebbe un suicidio economico per Teheran. Tuttavia, in un conflitto così volatile, anche i rischi a bassa probabilità hanno un peso. La guerra sta inoltre mettendo a rischio più direttamente la sicurezza energetica della Turchia, con prevedibili conseguenze economiche. L’Iran fornisce il 16% del fabbisogno annuo di gas della Turchia, in gran parte prodotto dal giacimento offshore di South Pars. L’impianto di lavorazione è stato colpito da attacchi aerei israeliani. La produzione è stata parzialmente interrotta e ulteriori danni potrebbero paralizzare il sito per un periodo prolungato. Con le sanzioni che limitano la capacità dell’Iran di effettuare riparazioni, qualsiasi interruzione prolungata esporrebbe la Turchia a carenze di approvvigionamento di gas o a picchi di prezzo».
Dall’Iran, anziché il gas, sarebbero potuti, in compenso, arrivare in Turchia sfollati in fuga. Il che avrebbe creato un problema aggiuntivo tutt’altro che trascurabile per Ankara. Non soltanto per una questione di numeri. «Il Paese – ricorda Tol – ospita quasi 4 milioni di rifugiati siriani da oltre un decennio, il che ha alimentato nel tempo un crescente risentimento pubblico e, di conseguenza, ha eroso il sostegno al partito al governo di Erdogan. Ankara condivide inoltre una frontiera lunga e porosa con l’Iran, una rotta a lungo considerata un rischio per la sicurezza a causa degli attraversamenti illegali e delle sospette infiltrazioni di militanti legati al Partito dei Lavoratori del Kurdistan (Pkk), con base nei campi sul lato iraniano. Per affrontare questi timori, la Turchia ha iniziato a costruire un muro di sicurezza lungo il suo confine nel 2017. La costruzione ha subito un’accelerazione nel 2021, dopo la presa del potere da parte dei talebani in Afghanistan, quando 300.000 afghani sono entrati nel Paese ed Erdogan ha promesso di bloccare ulteriori arrivi. Ora, con gli attacchi israeliani contro l’Iran che stanno provocando una rinnovata instabilità, sono riemerse notizie di civili iraniani che hanno attraversato il confine con la Turchia. Mentre il governo minimizza la possibilità di una nuova ondata di rifugiati, i media dell’opposizione lanciano l’allarme. In risposta, Ankara ha rafforzato la sicurezza lungo il confine iraniano per prevenire ulteriori afflussi e possibili infiltrazioni di militanti».
Ankara ha di recente avviato colloqui di pace con il Pkk in patria, culminati nella sorprendente decisione del gruppo di disarmarsi e sciogliersi – una mossa che Erdogan spera gli faccia ottenere il sostegno del partito filo-curdo in parlamento, aprendo la strada all’estensione del suo governo oltre il 2028.
Le ricadute regionali della guerra tra Israele e Iran, tuttavia, rischiano di far deragliare il piano: «Ankara teme che il conflitto possa rivitalizzare l’ala iraniana del Pkk, il Partito della Vita Libera del Kurdistan (in curdo, Partiya Jiyana Azad a Kurdistanê o Pjak), rimasto in gran parte inattivo dalla dichiarazione di cessate il fuoco nel 2011». Anche Soner Cagaptay del Washington Institute of Near East Policy conferma all’agenzia France Presse che «Ankara non vuole assolutamente che l’Iran sprofondi nel caos, la decentralizzazione o la guerra civile potrebbero creare minacce transfrontaliere o nuovi flussi di rifugiati» e ricorda che già in Iraq e Siria, la destabilizzazione ha creato un vuoto di potere che era stato sfruttato dallo Stato islamico e dai militanti curdi del Pkk «per lanciare attacchi contro la Turchia».
In proposito, Tol sottolineava che gli israeliani avevano fatto intendere che i loro attacchi miravano non solo a paralizzare il programma nucleare iraniano, ma anche a indebolire, se non addirittura rovesciare, il regime stesso. «Tuttavia, in assenza di una valida opposizione pronta a intervenire, il collasso del regime potrebbe lasciare l’Iran sull’orlo del fallimento, aggiungendo un altro fragile vicino al già instabile confine meridionale della Turchia. La Turchia sta già affrontando le conseguenze del caos in Siria e Iraq, che ha portato ondate di rifugiati, minacce transfrontaliere e difficoltà economiche. Un Iran destabilizzato amplificherebbe questi problemi, proprio mentre Erdogan affronta crescenti pressioni interne in vista delle elezioni del 2028».
Se tutto questo è vero (e spiega perché, fino all’ultimo, Erdogan abbia spinto nel proporsi come mediatore fra Usa e Iran e abbia sperato che Trump non dicesse sì all’intervento militare americano), perché, si chiede Ragip Soylu su Middle East Eye, il «Sultano» ha evitato di criticare l’intervento americano con la foga usata, ad esempio, contro il governo Netanyahu per la guerra a Gaza? C’è stata, sì, una presa di posizione del ministro degli Esteri turco per denunciare i rischi per la stabilità regionale di un allargamento del conflitto; ma, nota Soylu, «questo tono misurato è in netto contrasto con le osservazioni del presidente turco Erdogan del giorno prima, in cui aveva descritto gli attacchi israeliani come “banditismo”».
Stefano Mazzola ha scritto, sul Foglio, che «alla Turchia, che a Damasco ha sostituito russi e iraniani nel ruolo di kingmaker, il “lavoro sporco” di Israele fa comodo, soprattutto alla luce del processo di pace avviato con Pkk. Consapevole della volontà di diversi attori esterni, tra cui l’Iran, di strumentalizzare la questione curda per rallentare l’integrazione della Siria nella sfera di influenza turca, Ankara ha avviato con il Pkk un processo di pacificazione che ha portato allo scioglimento del gruppo».
La risposta di Soylu è, però, diversa: «Nonostante la sua retorica infuocata, Erdogan si muove spesso su un filo sottile nei conflitti regionali, cercando di evitare di schierarsi per posizionare la Turchia in modo vantaggioso. L’appartenenza della Turchia alla Nato e il suo continuo stretto rapporto con Washington le conferiscono una leva sia con gli avversari che con gli alleati nel perseguimento dei suoi obiettivi strategici». Insomma, Erdogan pensa probabilmente di poter ancora convincere Donald Trump (o almeno la sua metà «isolazionista» che non vuole impelagare di nuovo gli Usa in lunghi conflitti in Medio Oriente) a mettere un freno a quelli che, in un articolo su Daily Sabah segnalato dallo stesso Soylu, Murat Yesiltas, esperto di sicurezza del think tank Seta e membro del Consiglio per le relazioni estere della presidenza turca, ha chiamato i progetti di «israelizzazione» del Medio Oriente.
«Dal punto di vista di Ankara – ha scritto Yesiltas – la posizione strategica di Israele non riflette una politica di deterrenza, ma un tentativo di imporre un’egemonia militare nella regione, utilizzando l’alleanza con gli Stati Uniti come moltiplicatore di forza. Questo passaggio dalla sicurezza al dominio mina qualsiasi speranza concreta di diplomazia regionale. La guerra è diventata una normalità e il conflitto non è più l’ultima risorsa, ma una tattica ripetuta per ottenere un vantaggio geopolitico. La Turchia rifiuta categoricamente questo modello e mette in guardia dalle sue conseguenze a lungo termine». (…) In sintesi, la posizione della Turchia sul conflitto Israele-Iran non si basa su considerazioni politiche a breve termine. Questa posizione deriva da una necessità strategica a lungo termine: mantenere l’equilibrio regionale, difendere la sovranità e limitare il revisionismo militarizzato e nucleare. I rischi non sono astratti. Includono minacce dirette alla sicurezza territoriale, alla sicurezza energetica, agli obiettivi economici e alla stabilità demografica della Turchia».
Giusto per far capire cosa questo comporti in concreto, Yesiltas specifica: «L’idea che la diplomazia possa da sola proteggere gli Stati dalle influenze regionali non è più valida. In un contesto di sicurezza caratterizzato da attacchi di precisione, minacce asimmetriche, incertezza nucleare e competizione regionale, la Turchia deve ricorrere alla deterrenza strategica supportata da capacità militari avanzate. Ciò significa investire non solo nell’esposizione di forze convenzionali, ma anche in nuove tecnologie di difesa come l’intelligenza artificiale, i sistemi senza pilota, la ricognizione spaziale e la difesa aerea di nuova generazione. L’industria della difesa interna turca è un punto di forza, ma deve essere integrata da una solida dottrina, sistemi interoperabili e prontezza d’intervento in più teatri operativi».
Si potrebbe tradurre il tutto in un modo un po’ più brutale: Erdogan ha visto con favore l’indebolimento dell’«asse della resistenza» iraniano (ossia i colpi inflitti a Hezbollah e agli houthi e la caduta di Assad). Ma non intende accettare che le prospettive di rafforzamento regionale della Turchia che quell’indebolimento prometteva, vengano cancellate dalla prospettiva di un Israele unico arbitro o gendarme del Medio Oriente.
In questa sua contrarietà alla «israelizzazione» dell’area, il «Sultano» potrebbe trovare un principe comealleato. Giorni prima dell’attacco israeliano all’Iran e dell’intervento dei bombardieri Usa, Anthony Samrani ha scritto, sul quotidiano libanese L’Orient/Le Jour, un editoriale pubblicato anche da Internazionale con il titolo «Il progetto saudita per il Medio Oriente»: «L’era iraniana si è conclusa. Ma l’era saudita probabilmente non vedrà mai la luce. Il regno è riuscito a imporsi come capofila del Golfo, ma il resto del Medio Oriente è un terreno più ostico. Anche se l’Iran è in difficoltà, anche se l’Arabia Saudita ha migliorato la propria posizione in Libano e in Siria, Riad non può stabilizzare la regione senza un alleato potente. E non ci riuscirà se non viene risolta la questione palestinese. L’Europa è troppo assente per avere un peso nei colloqui. Gli Stati Uniti di Trump sono troppo disinteressati e soprattutto troppo filoisraeliani per essere l’elemento di punta di un progetto di pace. E Israele, un tempo potenziale alleato contro l’Iran, è il peggior sabotatore del piano di MbS (il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman, ndr). La politica israeliana minaccia non solo Gaza e la Cisgiordania, ma anche l’Egitto, la Giordania, il Libano e la Siria. Come si può promuovere la pace in un contesto simile? Ma c’è ancora un altro protagonista di cui non abbiamo parlato. Il rivale storico, che tuttavia sembra essere il tassello mancante del progetto di MbS. Un’alleanza tra l’Arabia Saudita e la Turchia, tra il principe Bin Salman e il sultano Erdogan, sembra innaturale. I due Paesi hanno avuto una crisi diplomatica alla fine del decennio scorso, dopo il blocco imposto dall’asse saudita-emiratino contro il Qatar (alleato di Ankara) e l’omicidio di Jamal Khashoggi nel consolato saudita di Istanbul. Oggi, però, hanno interesse a una distensione. I due leader si fidano poco l’uno dell’altro. Ma insieme, con i petrodollari dell’uno e la forza dell’altro, potrebbero costringere Israele a negoziare e potrebbero riuscire a stabilizzare la regione. Un’alleanza tra i due Paesi potrebbe segnare perfino l’inizio di un’era turco-saudita in Medio Oriente».
È a quella che, nel suo insolito silenzio sull’impiego dei bombardieri Usa, il «Sultano» sta pensando?
Frammenti
L’arcivescovo di Torino contro l’immobilità dei capitali
Un’omelia quasi rivoluzionaria quella pronunciata dal cardinale nel Duomo della sua città. Che però è passata, ingiustamente, inosservata. Dovrebbe invece suscitare un dibattito più ampio. Ovviamente Repole è tutt’altro che un sovversivo. Non ha proposto la patrimoniale, che peraltro sarebbe errata. Non ha negato la libertà di chi ha ampi patrimoni di cercare redditività maggiori in giro per il mondo. Repole ha riproposto, se volete, una versione aggiornata della parabola dei talenti del Vangelo di Matteo.
Contro l’immobilità dei capitali tipica di una società anziana o, più correttamente, contro la scarsa propensione a investire nel proprio Paese cercando occasioni, del tutto legittime, dall’altra parte del mondo. L’Italia pesa per il massimo del 2 per cento nelle allocazioni del risparmio gestito da parte dell’asset management italiano.
Dunque, più che di immobilità bisognerebbe parlare di esoticità, magari da parte di investitori contrari alla globalizzazione e simpatizzanti di partiti sovranisti (piccola contraddizione). L’ultimo rapporto Ubs sulla ricchezza mondiale, vede crescere a 1,3 milioni i milionari (in dollari) italiani – l’equivalente degli abitanti di Milano – che siamo sicuri, anzi sicurissimi, avranno pagato le loro brave tasse.
Ora se vogliamo dare seguito laico all’omelia di Repole dovremmo chiedere loro se sarebbero disposti a fare un po’ di più per le loro città, le comunità nelle quali hanno vissuto, studiato, e operato con successo. E a credere di più nell’Italia. L’esempio conta più dei soldi.
La Cinebussola
Da Boyle un horror che punzecchia i pro Brexit (ma zoppica troppo)
Paolo Baldini
Terzetto wow: Danny Boyle regista, Alex Garland sceneggiatore e l’Apocalisse come convitato di pietra. Boyle, oggi 68 anni, divenne celebre nel 1996 con Trainspotting. Garland, 55 anni, è autore di Civil War e di Warfare – Tempo di guerra, in uscita in estate. Ma se il talento della compagnia è indubbio, sembra davvero uno spreco utilizzarlo per un horror tanto banale e prevedibile basato sugli effetti che può generare a livello individuale e pubblico un crash esistenziale a così alto potenziale.
L’ambizioso Boyle parla – spettacolarizzando al cubo – dei soliti contagi maligni, dei soliti egoismi puniti dal destino, dei soliti sensi di colpa post traumatici. 28 anni dopo è il terzo capitolo della saga iniziata nel 2002 con 28 giorni dopo e proseguita nel 2007 con 28 settimane dopo, primo atto di una nuova trilogia di cui è già pronto il secondo episodio, Il tempio delle ossa, che uscirà nel 2026. L’idea che innerva l’intera saga è il diffondersi di un virus sganciato da un disattento laboratorio: un’epidemia di rabbia che trasforma uomini e donne in non-morti azzannatori, divisibili in una scala evolutiva chedai grassi, lenti e voraci porta ai giganti Alfa dalla forza sovrumana. La mutazione devasta i corpi degli infetti, ma anche chi è miracolosamente scampato subisce una metamorfosi, e non in meglio.
La Gran Bretagna è ormai una terra di mostri. I pochi superstiti si sono raccolti su un’isola-fortino, Holy Island, prigionieri di un’imposta quarantena, formando una piccola comunità di stampo rurale, senza comodità né tecnologie: contadini e cacciatori con arco e frecce, uniti dal rispetto per le tradizioni british. Il collegamento con la terraferma può avvenire solo, e per un tempo limitato, quando l’alta marea si ritira.
Chiari sono i riferimenti (polemici) allo storico isolazionismo britannico, ma soprattutto alla Brexit, rospo mai digerito, e al lungo stop pandemico. Boyle scandisce la storia come una mefistofelica metafora / ballata con risvolti politici, mentre dai televisori, spuntano le immagini deformate dei Teletubbies e di altri simboli dell’identità britannica.
Assistiamo dunque all’assalto iniziale delle creature, che uccidono e feriscono, attaccando persino un sacerdote in preghiera che prima di essere sbranato dal branco invita ad avere fede. Poi gran salto temporale 28 anni dopo: lo choc resta vivo e devastante. Sull’isola vive il guerriero Jamie (Aaron Taylor-Johnson) con la moglie Isla (Jodie Comer) in preda a crisi isteriche e sull’orlo della follia e il figlio Spike (Alfie Williams), 14 anni. Jamie decide di portare Spike sulla terraferma per valutarne il coraggio e le virtù da combattente, in pratica per completare un’educazione alla violenza come legittima difesa dal male. L’iniziazione prende una brutta piega, gli zombie sono ossi duri e sembrano moltiplicarsi. Ma per un soffio padre e figlio riescono a tornare a casa.
Spike diventa per tutti un eroe della resistenza ai bruti d’oltremare, ma quando scopre papà in intimità con una ragazza s’impone di prendere la tutela della mamma. È triste perché vede franare l’unione tra Jamie e Isla, ma per la prima volta non si sente in colpa con quell’ingombrante papà che lo vuole a tutti i costi forte e coraggioso. Madre e figlio intraprendono dunque un viaggio nella terra degli infetti alla ricerca del dottor Ian Kelson (Ralph Fiennes), un visionario medico-stregone rimasto a presidiare l’area off limits, l’unico che forse può guarire la donna dalle sue turbe.
Boyle fa entertainment e sperimentazione girando con una pluralità di telefonini e muovendo la cinepresa a ridosso dei personaggi per conferire all’azione un senso spasmodico. Si perdonano a Boyle gli eccessi splatter, i dettagli brutali, la ricerca insistita di panorami da fine del mondo, il complessivo perdersi in un esercizio di stile. Non si perdonano invece certe incongruenze della trama, con una storia pretestuosa che perde sovente il filo, picchia in testa e in pratica si divide in tre parti con lo stesso schema: 1) Spike e papà intrepidi tra gli infetti, 2) Spike e la mammina fragile da salvare, 3) Spike da solo ad affrontare il mondo ostile. L’ex ribelle Boyle si limita un generoso elogio della famiglia, dell’onestà che sempre paga, dei buoni principi, della resilienza antivirus. Avvolge il film in una nuvola distopica seguendo con occhio cupo la parabola di Jamie, contagiato da un mondo senza umanità.
Alti e bassi nel cast: Aaron Taylor-Johnson si porta addosso come una seconda pelle il personaggio di Kraven il Cacciatore e dà al film solo un contributo in quota Avengers. Meglio Jodie Comer, eroina preraffaelita. Scene cult: il parto nel vagone ferroviario, l’apparire della piramide di teschi, macabro omaggio ai morti nell’epidemia, la fuga all’ultimo respiro con l’Omone Alfa alle calcagna che corre più veloce Usain Bolt.
28 ANNI DOPO di Danny Boyle
(Gran Bretagna-Usa, 2025, durata 126’, Eagle Pictures)
con Jodie Comer, Aaron Taylor- Johnson, Ralph Fiennes, Jack O’Connell Giudizio: 3+ su 5 Nelle sale
mercoledì 25 giugno 2025
Spesa e difesa: Nato appesa al numero 5
Donald Trump durante la cena di ieri all’Aia. In primo piano, sfuocato, il segretario generale Rutte (Ap)
di Samuele Finetti
Oggi partiamo da un numero: 5. Come le lettere di «Trump», come la percentuale del Pil che i Paesi della Nato si impegneranno a spendere nella Difesa, come l’articolo del Trattato Atlantico che il presidente americano mette in dubbio da dieci anni. Tra polemiche e messaggi velati, oggi il summit olandese dell’Alleanza entra nel vivo. Attesa per l’incontro tra Trump e Zelensky, per gli impegni economico-militari che verranno siglati e per il comunicato finale dei 32 membri.
Torniamo poi in Medio Oriente, per raccontare i retroscena della tregua tra Israele e Iran e le 24 ore «folli» di The Donald che prima esulta, poi insulta, e poi esulta di nuovo. Questa mattina, durante un punto stampa con Mark Rutte, il presidente Usa ha paragonato i raid su Fordow alle atomiche su Hiroshima a Nagasaki: «Hanno chiuso la guerra». Ma i dubbi sulla reale portata dei danni ai siti nucleari di Teheran iniziano a emergere.
Continuiamo con le vittime di Gaza, dove la tregua è un miraggio. Come ha ricordato più volte il giovane Zohran Mamdani, che stanotte ha vinto a sorpresa le primarie democratiche in vista delle comunali di New York. Sempre in tema elettorale, in Francia è partita la corsa all’Eliseo. Per finire, voliamo prima in Giappone e poi in Messico.
Donald Trump risponde alle domande dei giornalisti durante un punto stampa questa mattina (Ap)
Donald Trump è arrivato ieri sera all’Aia per partecipare al vertice Nato. Ma si è fatto precedere dalle sue dichiarazioni rilasciate ai giornalisti, in volo sull’Air Force One.
Il presidente americano si prepara a incassare l’impegno degli altri 31 partner dell’Alleanza ad aumentare la spesa militare dal 2 al 5% del Prodotto interno lordo. Un cambio di passo imposto dalla Casa Bianca, ma anche dalla convinzione largamente diffusa che Vladimir Putin costituisca una minaccia concreta per altri Paesi europei.
Il segretario generale della Nato, Mark Rutte, ha incardinato l’intera agenda del summit su questo passaggio, cercando di evitare incidenti di qualsiasi tipo con il presidente americano. Ma nel pomeriggio, Trump ha pubblicato sul suo social Truth, l’untuoso sms che Rutte gli aveva appena inviato. Eccolo: «Signor presidente, caro Donald, congratulazioni e grazie per la tua azione decisiva in Iran, davvero straordinaria, nessun altro avrebbe osato realizzare. Ci rende tutti più sicuri. Stasera (ieri per chi legge, ndr) volerai verso un altro grande successo a L’Aia. Non è stato facile, ma siamo riusciti a far firmare a tutti il 5%! Donald, ci hai guidati verso un momento davvero importante per l’America, l’Europa e il mondo. Raggiungerai qualcosa che nessun presidente americano è riuscito a fare negli ultimi decenni. L’Europa pagherà molto, come è giusto che sia, e sarà una tua vittoria. Buon viaggio e ci vediamo alla cena di Sua Maestà!».
Inevitabile l’imbarazzo generale, proprio nelle ore in cui gli «sherpa» della Nato stavano sudando per convincere la Spagna e altri a sottoscrivere l’impegno sul 5%. Trump ha trasformato questo numero in una specie di feticcio. E gli altri governi si sono adattati, pur di blandirlo.
E alla domanda: rispetterebbe l’articolo 5 del Trattato Nato, correndo in soccorso di un partner aggredito?, il presidente americano ha risposto ambiguamente: «Ci sono diverse definizioni dell’Articolo 5, lo sapete? Comunque mi impegno a essere loro amico».
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2. Difesa reciproca, la storia decennale di una polemica
I leader della Nato questa mattina all’Aia (Getty)
(Giuseppe Sarcina, dall’Aia) La polemica trumpiana sull’articolo 5 del Trattato dell’Alleanza Atlantica compie 10 anni. Fin dalla sua prima campagna elettorale, cominciata nel giugno del 2015, l’allora costruttore newyorkese aveva messo in dubbio il vincolo chiave della Nato: in caso di attacco contro un Paese, tutti gli altri corrono in soccorso. Periodicamente, nel corso di tutti questi anni, Trump ha seminato dubbi tra gli alleati, mettendo in discussione l’obbligo di difendere, come invece sostengono tutti gli altri alleati, «ogni centimetro del territorio Nato». Anche ieri, martedì 24 giugno, rispondendo ai giornalisti sull’«Air Force One», Trump ha riproposto il suo approccio ambiguo: «Come sapete ci sono tante interpretazioni dell’articolo 5, dipende da quale interpretazione scegliamo». Stamattina il Segretario generale della Nato, Mark Rutte, si è assunto l’onere di garantire per il presidente americano: «Per quanto mi riguarda l’impegno degli Stati Uniti sull’articolo 5 non è in discussione».
Ma quali sono le «possibili interpretazioni dell’articolo 5»? La lettura del testo rivela alcuni passaggi lasciati alla discrezionalità dei singoli Stati. La prima parte dell’articolo prevede che l’attacco armato contro un Paese dovrà essere considerato un attacco contro tutti. Alcuni analisti obiettano che la forma verbale «shall be considered» implica un margine di incertezza, ma in realtà il significato è chiaro: «shall» significa «deve» e per altro il verbo è largamente usato anche nella Costituzione americana per indicare un obbligo o un’attribuzione di poteri precisa, senza che nessun giurista ne abbia mai contestato il senso.
Il punto più ambiguo arriva alla fine dell’articolo: tutte «le parti» andranno in aiuto del partner aggredito, anche con un intervento armato, ma solo se «such action as it deems necessary», cioè se «questa azione sarà ritenuta necessaria». In sostanza Trump potrebbe obiettare che, giusto per citare uno dei suoi esempi ricorrenti, un’incursione russa in un villaggio estone non richiederebbe la mobilitazione militare della Nato. Naturalmente manca la controprova ed è difficile prevedere come reagirebbe il presidente Usa in un caso concreto. Tuttavia nel summit dell’Alleanza, in corso all’Aia, la vera preoccupazione è che lo svuotamento dell’articolo 5 sia la prova che gli Stati Uniti si preparino a disimpegnarsi gradualmente dalle strutture militari, lasciando di fatto agli europei il compito di fronteggiare eventuali aggressioni russe. L’articolo 5 è stato applicato una sola volta nella storia: nel 2001 quando tutti i Paesi affiancarono gli Stati Uniti nella guerra in Afghanistan per stanare i terroristi di Al Qaeda.
3. Il caso Spagna: chi imita, chi critica
francesca basso
inviata all’Aia
Il premier spagnolo Pedro Sánchez ieri all’Aia (Afp)
La mossa della Spagna di mettere in discussione, a poche ore dall’inizio del summit dell’Aia, il nuovo target Nato di spesa per la difesa imposto dagli Stati Uniti, ha fatto crescere il timore, tra i membri dell’Alleanza, che oggi si possa assistere a una scenata plateale da parte del presidente degli Stati Uniti Donald Trump.
Soprattutto, Madrid ha creato emuli e malumori tra i partner. La premier danese Mette Frederiksen ha detto, senza nominare la Spagna, di non essere d’accordo con l’idea di «un’esclusione volontaria» per un Paese dai target Nato perché non è «giusto».
Il premier spagnolo Pedro Sánchez giovedì scorso aveva bloccato la dichiarazione finale che i leader dei 32 Paesi membri della Nato dovrebbero adottare oggi formalmente, ritenendo «irrazionale» il nuovo target per la difesa pari al 5% del Pil, di cui il 3,5% da destinare alla spesa per la difesa in senso classico e l’1,5% per infrastrutture e sicurezza informatica. La cifra del 5% pretesa dagli Stati Uniti è difficile da raggiungere specialmente per i Paesi con un alto debito pubblico, che a fatica si stanno mettendo quest’anno al pari con l’obiettivo del 2% concordato dalla Nato nel 2014. Dopo una trattativa con il segretario generale della Nato Mark Rutte, l’impasse è stata superata domenica grazie a una formula ambigua del testo, che Madrid ha accettato.
Il giorno dopo il premier slovacco Robert Fico ha annunciato di voler seguire l’esempio della Spagna e raggiungere gli obiettivi di capacità per la difesa fissati per il proprio Paese senza portare la spesa militare al 5% del Pil. E il Belgio ha fatto sapere di avere chiesto, ma senza tirarsi indietro dai propri obblighi, la «massima flessibilità».
Ieri, tra le diverse delegazioni nazionali il fastidio era palpabile perché, è la spiegazione che ritorna, in gioco c’è la capacità dell’Europa di difendersi. Diversi Paesi puntano sulla revisione al 2029. Alcuni la leggono come un’opportunità «per ridiscutere tutto eventualmente in modo più critico», spiegava ieri una fonte diplomatica, altri come un modo per richiamare i recalcitranti agli impegni presi.
4. Zelensky avverte l’Ue: «Mosca vi colpirà»
Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, in carica dal 2019 (Afp)
(Giuseppe Sarcina, dall’Aia) In attesa dell’impatto con Donald Trump, previsto per oggi, Volodymyr Zelensky semina inquietudine al vertice della Nato: «Alla nostra intelligence risulta che Mosca stia preparando operazioni ostili contro altri Paesi europei. Gli obiettivi di Vladimir Putin vanno oltre l’Ucraina. Putin vuole solo la guerra».
All’Aia lo ha accolto il Segretario generale dell’Alleanza, Mark Rutte, premuroso quasi fino all’eccesso. Davanti alle telecamere, Rutte ha dichiarato che i Paesi membri della Nato non abbandoneranno l’Ucraina e anzi, «possiamo stimare che nel 2025 il contributo degli alleati supererà quello del 2024, che era stato pari a 50 miliardi di euro».
Più tardi, nei colloqui a porte chiuse, sono emersi scenari più preoccupanti. Zelensky e gli esperti della Nato hanno concordato su un punto: i russi sono pronti a intensificare l’offensiva lungo tutta la linea del fronte, da Sumy, a nord-est, fino a Zaporizhzhia, nel centro del Paese. Nelle ultime settimane, secondo le stime della Nato, l’armata putiniana ha perso 1.300 soldati al giorno. Un numero terrificante. Così come, per un altro verso, è impressionante la capacità produttiva dell’industria bellica russa. Due soli esempi: 130 carri armati alla settimana; tre milioni di droni, sempre più sofisticati, all’anno.
L’economia russa è certamente in difficoltà, ma gli analisti della Nato hanno detto a Zelensky che Putin può reggere il ritmo della guerra almeno fino al 2027. Nessuno, qui all’Aia, pensa che il Cremlino si fermerà. Ieri un bombardamento con missili, droni e artiglieria ha colpito, tra l’altro, 19 scuole e 10 asili in diverse città ucraine: 24 morti e oltre 200 feriti tra la popolazione civile.
5. Insulti, post, minacce: la folle giornata di The Don
Matteo Persivale
inviato a New York
Trump ieri mattina nel giardino della Casa Bianca, prima della partenza per l’Olanda (Epa)
La «folle giornata» (come la definisce Mozart nelle Nozze di Figaro) di Donald Trump–Conte di Almaviva comincia di buon mattino sul prato della Casa Bianca, a poca distanza dalle ruspe che stanno asfaltando lo storico Giardino delle Rose che non gli è mai piaciuto: «Fondamentalmente abbiamo due Paesi che combattono da così tanto tempo e così duramente che non sanno più che cazzo stanno facendo».
Liquida così Israele e Iran (con particolare riprovazione per Israele, alla faccia di chi lo accusa di essersi fatto usare da Netanyahu togliendogli le castagne nucleari dal fuoco), con una parolaccia utilizzata per enfasi in pubblico per la prima volta nella storia presidenziale americana (finora erano stati, peraltro rarissimi, i precedenti ma sempre fuori onda, mai volutamente davanti ai microfoni).
Forse perché l’altroieri una deputata democratica del Texas l’aveva definito «mofo», abbreviazione di «motherfucker», un insulto volgarissimo (ed è stata un’altra prima volta nella storia americana), si assiste così al definitivo sdoganamento della parolaccia politica (quando l’amico giornalista Ben Bradlee negli anni ’70 dopo la morte di John Kennedy pubblicò un bel libro con i virgolettati senza censure di Jfk, che usava volentieri espressioni colorite, ci fu uno scandalo: altri tempi).
Salito poi sull’Air Force One diretto al vertice Nato in Olanda, si è connesso al suo social media Truth e ha cominciato a postare messaggi per celebrare il cessate il fuoco in quella che ha definito («Attenzione, Trump è un maestro del branding», avvertì inascoltato il vecchio volpone della politica Bill Clinton quando nel 2015 l’allora palazzinaro si candidò tra l’ilarità generale) «la guerra dei dodici giorni» tra Israele e Iran.
Ecco allora un lutulento fiume digitale di foto modificate dalla AI di sé stesso in pose trionfali, meme patriottici, aquile, bandieroni a stelle e strisce. Ringraziamenti a Jeb Bush (da lui ridicolizzato nel 2016) per i complimenti relativi al blitz iraniano, riproduzione integrale della lettera d’un deputato carneade repubblicano all’Accademia svedese per conferire il Nobel per la Pace a Trump (una sua fissazione, per pareggiare i conti con l’odiato Obama).
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6. Come si è arrivati alla tregua
Massimo Gaggi
Una bandiera israeliana sventola fuori da un palazzo colpito a Ramat Gan (Ap)
Se Donald Trump è riuscito a trasformare in spettacolo non solo la politica, ma anche la guerra, può succedere anche questo: che i bombardamenti americani coi B-2 ma anche le rappresaglie missilistiche iraniane e forse perfino l’ultima controrappresaglia israeliana, siano attacchi «telefonati»: modi esplosivi di esporre al vento la propria bandiera, di costruire narrative con le quali ogni Paese coinvolto nel conflitto può dichiararsi vincitore o almeno salvare la faccia davanti al suo popolo.
I passaggi che hanno portato in poco più di due giorni dal bombardamento Usa dei tre siti nucleari di Teheran a una (precaria) tregua tra Iran e Israele portano il marchio della spregiudicata diplomazia muscolare di Trump — martellare un Iran già messo alle corde dall’offensiva dello Stato ebraico per costringerlo a negoziare — ma anche quello dell’efficace opera di mediazione del Qatar, Stato cerniera che ospita basi americane ma ha rapporti molto stretti col regime degli ayatollah. Un ruolo di persuasione nei confronti di Teheran potrebbe poi averlo avuto anche Vladimir Putin, una volta ottenuta l’assicurazione da Trump della rinuncia a un regime change in Iran, anche se sulla sua rete sociale il presidente aveva ipotizzato il contrario.
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7. Le previsioni di Petraeus sull’Iran
Viviana Mazza
Una donna in piazza a Teheran (Afp)
Quando il generale David Petraeus era a capo del Centcom, il comando centrale Usa per il Medio Oriente, tra il 2008 e il 2010, l’America testò la super bomba che sabato scorso è stata sganciata su Fordow. Subito dopo la limitata rappresaglia iraniana senza vittime contro le basi americane in Qatar e nel nord dell’Iraq, il generale ha detto alla tv britannica Channel 4: «I leader americani, israeliani e iraniani possono procedere con un cessate il fuoco e con i negoziati; idealmente questo significherebbe in sostanza la capitolazione dell’Iran e la rinuncia al suo intero programma nucleare, oppure il conflitto continuerà e finiranno per avere la peggio, come sta già accadendo». Ieri il generale ha risposto via email alle domande del Corriere. E ha aggiunto: «Ma almeno potrebbe accadere che l’estensione del cessate il fuoco sia il risultato, nel breve periodo».
Pensa che l’amministrazione Trump abbia mostrato competenza con un attacco giustificato oppure è stato l’inizio del caos?
«La prima, non la seconda».
In che modo questi attacchi hanno cambiato gli equilibri in Medio Oriente?
«L’Iran e le sue milizie per procura, l’Hezbollah libanese e Hamas, sono drammaticamente indeboliti. E la Siria non è più un alleato. Il danno al programma nucleare dell’Iran, alle sue forze di sicurezza e alla leadership, alle sue difese aeree e balistiche, alla sua riserva di missili e lanciamissili ha notevolmente ridotto le capacità iraniane per l’immediato futuro. Insomma, le azioni intraprese dal 7 ottobre hanno cambiato il Medio Oriente».
Quali lezioni della Guerra in Iraq possono essere utili in questa guerra?
«Sono conflitti completamente diversi, con obiettivi diversi. Ci sono molte lezioni da trarre dall’Iraq ma non credo si applichino qui. Non penso ci siano forze di opposizione in Iran con numeri e armi sufficienti per rovesciare il regime e dubito che qualcuno dall’interno del regime rovescerà la leadership. Gli ayatollah devono stare attenti al rischio che gli elementi curdi, turkmeni, azeri, beluci all’interno del Paese cerchino di unirsi con gruppi fuori dal Paese. Ma per il momento penso che, se si fermano ora, potrebbero mantenere il controllo del Paese».
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8. Taccuino | La «battaglia» sui danni
Guido Olimpio
I crateri aperti dalle GBU-57 americane nella montagna di Fordow, che ospita un sito nucleare (Maxar)
Proclamato il cessate il fuoco è iniziata la seconda battaglia: quella sull’esito dei bombardamenti sui siti nucleari iraniani. Durerà a lungo.
Quattro punti. 1) Primissime valutazioni dell’intelligence Usa ritengono che l’attacco possa ritardare il programma solo di pochi mesi. 2) Una previsione cauta su possibili effetti degli strike era ampiamente circolata da mesi. 3) Forse è un po’ presto per arrivare ad un report conclusivo. 4) L’analisi tecnica si mescola a considerazioni politiche, scontri tra Casa Bianca e spionaggio Usa. Nessuno è «sereno».
I pasdaran hanno confermato l’uccisione di altri tre alti ufficiali mentre è riapparso ad una manifestazione Esmail Qaani, il comandante della Divisione Qods, apparato speciale dei guardiani. Lo avevano dato per morto e in passato c’erano state voci incontrollabili che fosse finito sotto inchiesta.
9. A Gaza non si ferma la conta delle vittime
Il dolore di una donna palestinese dopo l’uccisione di un parente vicino a Khan Younis (Afp)
(Guido Olimpio) Fronte di Gaza. Ancora decime di vittime tra i civili palestinesi, resta l’assedio e ogni tanto i guerriglieri usando tecniche consolidate tentano il colpo. Sette militari israeliani sono caduti durante le operazioni nella Striscia. Sei erano a bordo di un blindato distrutto da una carica magnetica applicata da un militante. Magari è spuntato da un tunnel.
10. Sorpresa Mahdani per New York
Mamdani sul palco questa notte dopo la vittoria (Ap)
(Matteo Persivale, da New York) L’outsider di sinistra Zohran Mamdani ha vinto le primarie del Partito Democratico per l’elezione a sindaco di New York che si disputeranno a novembre. È stato il suo principale rivale, l’ex governatore Andrew Cuomo, a concedergli per primo la vittoria nella notte, a spoglio ancora in corso. «Stasera non era la nostra serata… Ha vinto lui», ha ammesso Cuomo davanti ai suoi sostenitori, quando con oltre il 90% delle schede scrutinate, Mamdani era in testa con oltre il 43% dei voti, rispetto al suo 36%.
Poco dopo la mezzanotte americana Mamdani si è proclamato vincitore:«Amici miei, ce l’abbiamo fatta», ha detto questo 33enne che si definisce «progressista e musulmano» rivolgendosi a una folla in festa a Long Island City, nel Queens. «Sarò il vostro candidato democratico a sindaco di New York City».
Mamdani, che a parte una breve esperienza da rapper ha nel curriculum soltanto due anni in consiglio comunale, è un attivista filopalestinese allineato alle proteste nei campus dopo il 7 ottobre e sostiene la necessità di sostituire la polizia con «social worker» nelle zone più difficili della città.
Alle accuse di antisemitismo, Mamdani ha risposto con un’uscita – sostiene che «globalizzare l’intifada» sia una frase pacifica — che gli è valsa un duro spot nel quale il figlio del Nobel per la pace Elie Wiesel, Elisha, lo attaccava duramente chiedendo di votare chiunque tranne lui.
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11. I primi «scatti» nella corsa all’Eliseo
stefano Montefiori
corrispondente da Parigi
Raphaël Glucksmann, a sinistra, e l’ex premier Dominique de Villepin
La situazione internazionale fa passare in secondo piano gli affanni del traballante premier François Bayrou, mentre il presidente Emmanuel Macron torna protagonista in ciò che gli piace di più, la politica internazionale. Ma intanto, a Parigi, cominciano a chiarirsi i ruoli di chi proverà a prendere il suo posto, tra due anni, quando alle elezioni presidenziali l’attuale capo di Stato non potrà ricandidarsi per la terza volta.
Questa settimana hanno scoperto le carte due possibili concorrenti: a sinistra la rivelazione delle ultime europee Raphaël Glucksmann, e nel centrodestra un esperto navigatore della politica francese, l’ex premier di Jacques Chirac, Dominique de Villepin, riportato in auge dal ricordo del celebre discorso all’Onu contro la guerra in Iraq, e dai moniti di oggi contro nuove avventure belliche in Medio Oriente.
Se il più giovane Glucksmann deve difendersi dall’accusa di essere «un Macron di sinistra», il 71enne Dominique de Villepin è chiamato a convincere i detrattori di non essere «un Mélenchon di centrodestra». Molto vicino alle ragioni dei palestinesi e molto critico delle scelte del premier israeliano Netanyahu, pronto a difendere le sue attività di consulenza negli affari con Qatar e Arabia Saudita, de Villepin ha annunciato ieri la creazione del partito «La Francia umanista».
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12. Il Giappone sdogana i test missilistici in casa
Il test del Type 88 a Hokkaido (Lapresse)
Per la prima volta nella storia del Paese, il Giappone ha testato un missile sul proprio territorio: il Type 88, un vettore superficie-superficie antinave, messo alla prova contro una nave bersaglio a 40 chilometri dalla costa meridionale dell’isola di Hokkaido.
Fino a oggi, il Giappone aveva condotto i suoi test missilistici negli Stati Uniti, storici alleati, e in Australia, uno dei principali partner difensivi. L’esercito nipponico ha dichiarato che il test ha avuto successo. Ne è previsto un altro entro domenica, a sottolineare l’impegno di Tokyo sulla strada di una maggiore autosufficienza militare. Soprattutto nell’ottica della deterrenza verso la sempre più aggressiva attività navale cinese nel Mar Cinese meridionale e negli altri mari della regione. Suscitano preoccupazione anche le frequenti esercitazioni congiunte di Pechino e Mosca nell’area.
A questo scopo, il Giappone ha in progetto la costruzione di un poligono di tiro missilistico sull’isola disabitata di Minamitorishima, l’isola più orientale del Paese, nel mezzo del Pacifico occidentale. Un’area in cui due portaerei cinesi hanno navigato insieme per la prima volta all’inizio di questo mese. Tokyo si sta attrezzando per schierare missili da crociera a lungo raggio, inclusi i Tomahawk acquistati dagli Stati Uniti, entro la fine dell’anno. E sta sviluppando i vettori Type 12, con una gittata di circa 1.000 chilometri, mentre i Type 88 hanno una gittata di circa 100 chilometri.
13. Anche i narcos hanno i carri armati (fai-da-te)
(Guido Olimpio) Messico. Distruzione di alcuni di blindati fai-da-te sequestrati dalle forze di sicurezza. I cartelli della droga li impiegano ormai in modo massiccio negli scontri a fuoco nelle zone contese. E questo costringe i criminali a ricorrere a droni che sganciano ordigni rudimentali oppure a cariche esplosive.
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Vertice Nato: 5% del Pil per la difesa entro il 2035. La Spagna si sfila. Trump: “Pagheranno dazi doppi”
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LE NOTIZIE DI OGGI
Vertice Nato: 5% del Pil per la difesa entro il 2035. La Spagna si sfila. Trump: “Pagheranno dazi doppi”
Giornata decisiva al vertice Nato dell’Aja, con una fitta agenda di incontri ad alto livello. Donald Trump ha detto che «sull’articolo 5 sta con gli alleati», ribadendo che «la Nato sarà forte». Gli alleati Nato si impegnano a portare la spesa annua nella difesa, e nella sicurezza, al 5% del Pil entro il 2035. All’Aja si discute però del caso Madrid e della richiesta di deroga all’aumento delle spese militari. Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, e il primo ministro spagnolo, Pedro Sanchez, occupano scranni vicini, ma i due leader non si sono salutati neanche una volta dopo essere entrati nella sala del World Forum dove si sta svolgendo l’incontro. Ieri Trump aveva definito un «problema» la contrarietà di Madrid all’obiettivo di spesa del 5% del Pil in difesa, sul quale Sanchez sostiene di aver ricevuto una deroga dal segretario generale della Nato, Mark Rutte, che ha però smentito. Il presidente degli Stati Uniti aveva poi definito l’atteggiamento della Spagna «ingiusto» nei confronti degli altri alleati. «Quando negozieremo un accordo commerciale con la Spagna, la faremo pagare il doppio», ha avvertito Trump.
Bimbo annegato in piscina: trovato il corpo di Matteo Formenti, il bagnino scomparso
Tragedia in provincia di Brescia. Gli inquirenti confermano infatti che il cadavere trovato a Cologne è quello di Matteo Formenti, il 37enne bagnino del centro acquatico dove venerdì era annegato un bambino di quattro anni. L’uomo, secondo i primi riscontri, si sarebbe tolto la vita. Domenica gli era stato sequestrato il telefono nell’ambito dell’inchiesta per la morte del bimbo e lunedì aveva fatto perdere le proprie tracce. Sul luogo del ritrovamento del cadavere, infatti, c’era parcheggiata l’auto dell’uomo. Il giovane lavorava nella piscina “Tintarella di luna” di Castrezzato, nel Bresciano, dove è annegato venerdì Michael Consolandi. Lunedì mattina i carabinieri avrebbero dovuto notificargli l’avviso di iscrizione nel registro degli indagati per l’annegamento del bambino, ma il trentasettenne non era già più in casa. Nelle scorse ore ci sono stati numerosi appelli sui social come quello del sindaco di Chiari, Gabriele Zotti: «È scomparso questo ragazzo di Chiari, se qualcuno lo ha visto, lo segnali subito ai carabinieri».
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