Il mistero di Bardellino: per l’intelligence nei primi anni Novanta era ancora vivo in Amazzonia
SAN CIPRIANO D’AVERSA – Il corpo non è mai stato trovato, ma per i giudici della sentenza ‘Spartacus’ non ci sono dubbi: Antonio Bardellino è stato assassinato nel 1988 per mano di Mario Iovine. Un delitto voluto da chi, nel giro di pochi anni, sarebbe poi diventato il capo mafia nell’Agro aversano: Francesco Schiavone detto Sandokan. Una ricostruzione, però, che non convince fino in fondo gli inquirenti della Direzione distrettuale antimafia. Conversazioni intercettate, avvistamenti, dichiarazioni di testimoni e fotografie hanno spinto la Procura di Napoli a ipotizzare una storia diversa. A offrire un ulteriore elemento in linea con le perplessità dei magistrati è stata l’inchiesta ‘Lo Spettro’ di Andrea Palladino, andata in onda ieri sera su La7, un lavoro proprio “sulle tracce di Antonio Bardellino, il Pablo Escobar italiano”, realizzato nell’ambito della trasmissione ‘100 minuti’ di Corrado Formigli e Alberto Nerazzini.
Tra i numerosi spunti ed elementi offerti dall’inchiesta, che alimentano i dubbi sul fatto che il mafioso, originario di San Cipriano d’Aversa, abile a muoversi tra Spagna e Sudamerica, sia stato ucciso a Buzios il 26 maggio 1988, c’è un documento che Palladino ha recuperato tra gli atti dell’intelligence brasiliana, declassificati qualche anno fa e depositati nell’archivio nazionale di Rio de Janeiro. L’atto in questione, del febbraio 1993, è un’informativa commissionata alla polizia federale brasiliana sulla figura di Bardellino. E in questa carta il sanciprianese viene definito, scopre Palladino, “uno dei principali uomini d’onore di Cosa nostra siciliana in Brasile”. Il suo destino, si legge, “sarebbe al momento sconosciuto”.
Gli investigatori brasiliani sostengono che nel 1988, cioè dopo la presunta morte, Bardellino possa essere fuggito di nuovo in Spagna. L’aspetto ulteriormente interessante che emerge dal documento è il collegamento del mafioso con la zona di Tabatinga, in Amazzonia, al confine con Colombia e Perù, dove avrebbe iniziato a trafficare droga verso l’Europa. Quell’area, ha accertato il giornalista, era uno degli snodi principali usati dal cartello di Medellín, controllato da un fedelissimo di Pablo Escobar. Insomma, l’intelligence brasiliana aveva nel suo archivio un atto in cui si parla di un Bardellino in vita dopo il 1988 e in cui il sanciprianese viene pienamente connesso al narcotraffico internazionale, in particolare in relazione a una rotta che, verso la fine degli anni Novanta, passerà quasi del tutto sotto il controllo della ‘ndrangheta.
L’atto dell’intelligence brasiliana recuperato da Palladino rappresenta sicuramente un elemento che potrà essere sfruttato dagli investigatori che ora stanno indagando sul presunto asse criminale tra gli eredi di Bardellino, stabilitisi a Formia, e gli odierni referenti del clan dei Casalesi (organizzazione nata proprio dopo la presunta morte del sanciprianese). È proprio nel corso di questa inchiesta, ancora aperta, condotta dal pm Vincenzo Ranieri, che la Dda ha messo nero su bianco i propri dubbi sull’assassinio del boss in Brasile per mano di Iovine.
Clamoroso
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Il gran tabù dell’Antimafia: silenzio sulle stragi del ’93
L’unico obiettivo sembra quello di trovare un nesso tra la bomba di via D’Amelio e la solita inchiesta “Mafia e Appalti”

Le stragi del 1993 che hanno insanguinato l’Italia continentale, il loro movente, la connessione con la stagione precedente delle stragi in Sicilia del 1992 sono un tabù per l’Antimafia guidata da Chiara Colosimo. Come le questioni relative ai rapporti tra la mafia e la politica nel passaggio tra prima e seconda repubblica nei primi anni ‘90. Questi temi non interessano l’attuale Commissione Parlamentare o meglio chi la guida e ne detiene il controllo. L’unico tema che interessa è la ricerca di un nesso tra la strage di via D’Amelio (e solo quella) con l’azione timida della Procura di Palermo sul rapporto di indagine ‘mafia e appalti’ del ROS dei Carabinieri.
LEGGI – “Mori e De Donno cercano vendetta verso i magistrati che li processarono”
Ieri si è svolta questa scena a Palazzo San Macuto: un generale in pensione, Mario Mori, si è visto porre da due membri della commissione di inchiesta (rappresentanti del popolo, ancorché in minoranza) la garbata richiesta di dire la sua sul legame tra via D’Amelio e le stragi del 1993 e sui reali interessi politici di Cosa Nostra in quegli anni. Domanda non solo ammissibile ma inevitabile. Basti dire che la strage Borsellino nel 1992 è opera di Giuseppe Graviano, il boss delle stragi di Firenze e Milano e dell’attentato all’Olimpico di Roma, fallito il 23 gennaio 1994, tre giorni prima del suo arresto a Milano.
Da anni il generale Mori e il suo collaboratore dell’epoca, il colonnello Giuseppe De Donno, con libri e interviste connettono il movente di via D’Amelio all’interesse di Borsellino per la loro indagine mafia-appalti. Tesi mai dimostrata ma cara a buona parte del centrodestra. La Commissione Colosimo ha scelto una linea di ricerca che sposa le tesi di Mori e la convocazione dei due ex ROS è il botto finale dopo i fuochi delle audizioni pregresse.
Mori ha ribadito la sua lettura dei fatti, contenuta in una relazione consegnata alla Commissione e oggetto di una contro-relazione del gruppo M5S di cui ci occupiamo a fianco. Walter Verini e Giuseppe Provenzano del PD hanno cercato di riportare al centro la logica e i fatti. Hanno chiesto a Mori cosa pensasse delle bombe del 1993-94 e della connessione evidente con la strage di via D’Amelio; del rapporto tra mafia e politica in quegli anni che non può essere ridotto al tema degli appalti. Mori ha evitato di rispondere a Verini opponendo la ‘regola di San Tommaso’. Provenzano ha riproposto le domande invitando Mori a fregarsene del ‘non vedo non credo’ fornendo invece le sue valutazioni sui temi sollevati da Verini. Provenzano ha chiesto soprattutto a Mori di dire la sua su Marcello Dell’Utri e Antonio D’Alì, due politici di FI condannati per concorso esterno mafioso e poi gli ha riproposto il tema principale: “il legame tra le stragi del 1992 e quelle del 1993 (…) difficilmente può essere mafia-appalti”. Poi, dopo essersi lamentato del clima da ‘fan zone’ con gli applausi a Mori, il deputato Pd ha chiuso con un pò di veleno chiedendo a Mori “se anche in altre funzioni, al SISDE (servizio segreto civile guidato dal generale con Berlusconi nel 2001-2006, Ndr) ha avuto modo di entrare in contatto con i fratelli Graviano”. La presidente Colosimo alla fine ha redarguito Provenzano: “i qui presenti non sono sottoposti a interrogatorio quindi è loro libertà decidere se rispondere; non è carino imboccare gli auditi con le risposte (loro) sono qui per indicare perché Borsellino ha indicato la Procura di Palermo come un covo di vipere non per far suggestioni sull’allora situazione politica. Ferma restando la liceità delle domande la prego di avere rispetto delle risposte che vogliono o non vogliono dare (…) è mio dovere mantenere il motivo dell’audizione”. Un richiamo stonato con quanto era accaduto prima. Il deputato De Corato di FDI ha potuto citare il libro dei due auditi chiedendo chi fosse ‘l’architetto’ del passaggio alla seconda repubblica. Il leghista Gianluca Cantalamessa ha chiesto dell’indagine napoletana del ROS nel 1996 sugli appalti TAV. E de Donno ha concionato liberamente per 15 minuti sulle gesta dell’infiltrato del ROS Verricchio-Paticchio, con verve salernitana. La presidente lo ascoltava colpita dalla ‘geniale’ indagine senza domandarsi cosa c’entrassero quelle gag ambientate nel 1996 con la strage che ha insanguinato Palermo nel 1992. Però quando i membri del PD hanno osato chiedere a Mori di rispondere alle domande sulle stragi del 1993, su Dell’Utri e la politica, Colosimo è intervenuta. Non erano domande astruse. Dell’Utri è stato condannato per i suoi rapporti con Cosa Nostra ed è indagato per le stragi del 1993 realizzate da Graviano come quella di via D’Amelio.
Mori non ha risposto, come era suo diritto. Quel che non torna è la limitazione di ciò che è ‘carino’ con la scusa dell’oggetto dell’audizione. Forse bisogna davvero cominciare a parlare di un conflitto di interesse in Antimafia. Non quello sollevato dal centrodestra contro i senatori Roberto Scarpinato e Federico Cafiero De Raho per quanto fatto nel loro ruolo precedente di magistrati.
Il conflitto di interesse che ieri è emerso è quello del centrodestra e di Mori. Perché oggi il generale è indagato dalla Procura di Firenze per concorso nelle stragi del 1993 a Firenze e a Milano e per gli attentati di Roma del 1993 e 1994, indagine nella quale era indagato fino alla sua morte il leader ventennale del centrodestra Silvio Berlusconi e resta indagato Marcello Dell’Utri, cofondatore di Forza Italia.