Napoli, 1860 – La storia di Giuditta Guastamacchia che uccise il suo secondo marito, con la complicità di tre suoi amanti: il killer compensato con prestazioni sessuali orali.  Di Ferdinando Terlizzi (*)

Questa volta vi racconto la storia del fantasma della Vicaria al secolo Giuditta Guastamacchia, nata a Terlizzi di Bari, e arrivata a Napoli che uccise il suo secondo marito, con la complicità di tre suoi amanti: un cugino prete, un giovane medico e un ufficiale dell’esercito. Ma ebbe per amante anche un barone e istigò un suo amico – con prestazioni sessuali orali – ad uccidere il secondo marito. Il singolare caso di istigare un delitto con prestazioni sessuali mi riporta alla mente per analogia la vicenda di Petronilla D’Agostino, la Circe di Mondragone, che nel 1971 fece uccidere il marito dal fidanzato della figlia con il compenso di una prestazione sessuale orale. La testa di Giuditta fu esposta per decenni in una gabbia attaccata a un muro di Castel Capuano, a fianco in un’altra capa della Vicaria, quella della madre figlicida Coletta Esposito, detta anche la Medea di Porta Medina. Una sorte – l’esposizione della testa dopo l’impiccagione – che subirono anche coloro che Giuditta aveva coinvolto come complici nell’efferato omicidio del marito, un delitto che per l’astuta concertazione, il numero dei complici, le circostanze dell’esecuzione ed il tentativo di liberarsi del cadavere fece particolare scalpore e per questo portò all’esemplare sentenza.  Il suo primo amante era un cugino prete, che l’aveva sedotta, Stefano D’Aniello, di anni 30. Quantunque vestisse l’abito talare, era un uomo rotto ad ogni vizio, che si era quasi interamente dedicato al culto di Bacco e Venere.  Era accaduto che il padre di Giuditta, Nicola Guastamacchia – che trafficava in abiti usati da rivendere ai mercatini della Puglia – spesso si assentava per recarsi a Napoli.  Al suo ritorno, dopo vari mesi, Nicola si accorse che era avvenuto il guaio. La figlia sedotta dal nipote prete, e il disonore della famiglia.  A questo punto tentò di maritare la figlia e la ricerca cadde su di un uomo che messo al corrente dello stato dei fatti doveva far finta di essere innamorato e ignorare il grave precedente. Ma le cose presero un verso diverso dopo un tempo, infatti il povero marito a seguito di una abbondante libagione di moscato e zagarese ingurgitata in seguito ad una festa di famiglia fu colpito da apoplessia fulminante ed era che bello e morto. Giuditta rimase vedova. Ma per sottrarsi al controllo del padre e per poter fare vita libera con il suo drudo lo invitò a trasferirsi a Napoli. Gregorio Sorbo da Terlizzi, ladro, balordo e pregiudicato uccise il secondo marito di Giuditta e per corrispettivo ebbe prestazioni sessuali.

Bisognava però ritrovare un secondo marito, dello stesso stampo del fu Francesco e ciò non era facile; ma Stefano (il prete) assunse egli l’incarico di rinvenirlo, avendo fin da quel primo momento pensato a chi rivolgersi per l’oggetto. Che poi fu soppresso dal killer venuto da Terlizzi. Il tribunale della camorra bianca formato da un prete lussurioso, da un chirurgo rattuso, da un padre cornuto e da una puttana nata, decretò la morte del secondo marito di Giuditta. Si stabilì di uccidere l’uomo in casa.  Giuditta infame donna, perfida figlia, impudica sposa non peritossi per un istante e felicitò il sicario delle sue bellezze, per ottenere più facilmente il compimento del delitto immaginato e nel dargli un ultimo abbraccio lo baciò  e volle ancora essere promesso che il marito sarebbe stato ucciso.  Ad una certa ora si sentì bussare alla porta era Gregorio che era venuto a Napoli per compiere il delitto. E mentre tutti erano intorno al tavolo Gregorio cavò di tasca il pugnale e con tutta la rapidità possibile lo alzò al di sopra della testa di Domenico e gliel’ho immerse nella nuca del collo. Subito il chirurgo si accinse a far l’operazione di tagliarlo in pezzi. L’assassino però mentre cercava di liberarsi di un pezzo del cadavere, fu fermato da una pattuglia di gendarmi. Pertanto, fermato e arrestato confessò il delitto e fece la cosiddetta chiamata di correità accusando i suoi complici: la bella Giuditta, il padre Nicola, il cugino prete ed è il chirurgo. L’intera Napoli attendeva lo svolgimento di quel processo. Una folla grandissima inondava l’aula del tribunale. Nel corso del dibattimento, come spesso accade, ognuno cercava di accusare l’altro. Dopo le arringhe difensive, il procuratore del re, chiese per il barbero misfatto la condanna dell’estremo supplizio ed il pubblico esempio per tutti. Vi fu una serie di discussione – non per vagliare le ragioni dei rei, esse erano inapprezzabili, il delitto era provato, provatissimo, ma per l’applicazione della pena. Taluni opinavano per l’estremo supplizio altri avrebbero voluto mostrare meno rigore ma dopo un’ora e un forte battibecco, la causa fu risoluta. La sentenza fu pronunziata. Il prestigio della bella operazione disparve completamente i magistrati, dopo aver svolto diverse teorie e ragioni, si unirono tutti nella stessa opinione. La legge parlava chiaro. La infamia del delitto era specchiata, l’orrore prodotto indicibile. La giustizia fu soddisfatta; la conculcata umanità fu vendicata, la società ebbe un esempio per il suo futuro avvenire, e quei magistrati discordi da principio, ma sempre integerrimi, non contraddirono per nulla la loro missione. I rei furono condannati. Furono condannati ad essere trascinati per la città, afforcati, e le loro teste poscia mozzate ed appese al pubblico esempio all’esterno delle mura del tribunale.

 

– Fonte – Giacomo Marulli – Giuditta Guastamacchia – D’Amico Editore – Nocera Superiore – 2024