Napoli 1913, a Via Chiaia, un’attrice uccise per errore il suo amante che era un nobile napoletano. Accusata di omicidio preterintenzionale fu assolta col parziale vizio di mente. (*) di Ferdinando Terlizzi
OGNI DOMENICA IN ESLUSIVA SU
Ettore Turdò, appartenente ad una nota famiglia della nobiltà napoletana, aveva conosciuto a Roma, nel 1909, un’attrice drammatica della compagnia Galli-Guasti, Giustina Pia Fornaris, conosciuta in arte col nome di Jvonne Willespreux. La Fornaris, di Como, giovane e molto bella, suscitò una forte passione in Turdò e quando la Compagnia si recò a Napoli, il dottore riuscì ad indurre la Fornaris ad abbandonare l’arte e a vivere con lui. Si iniziò così una relazione che sembrava agli amici dei due giovani, delle più affettuose, delle più tenere, quando il 9 marzo del 1910, una scena tragica avvenne nell’appartamento di via Chiaia abitato dall’attrice. Ettore Tardò era andato a trovare l’amante che si trovava a letto e accusava una forte emicrania. Nella mattinata le aveva scritto una lettera nella quale le esprimeva la sua grave preoccupazione per un fratello morfinomane che egli teneva presso di sé a Napoli per curarlo. Le diceva che doveva condurre il fratello in provincia e che perciò era giocoforza separarsi, almeno per qualche tempo, epperò la pregava di non addolorarsi per quel distacco, che non sarebbe stato definitivo. A proposito di questa temporanea separazione tra i due giovani si accese una breve disputa. Ad un tratto l’Jvonne manifestò il desiderio di uscire con l’amante per andare insieme con lui a trovare Luigi Tardò, il fratello ammalato. Discese dal letto e accostatasi ad un mobile prese una rivoltella che aveva riposto pochi giorni prima, nascondendola in un velo che si mise sul braccio. In quello istante il dottore si avvicinò per abbracciarla. L’aveva già cinta con le braccia, quando udì un colpo di rivoltella e si sentì colpito al ventre. Ettore Tardò si gettò riverso su di un divano mentre l’amante si chinò su di lui gridando: – Non è nulla… non è nulla! Trasportato all’ospedale Ettore Tardò dieci giorni dopo moriva. Prima di morire disse al giudice istruttore che l’amante aveva tentato di ucciderlo nel timore di essere abbandonata. Il giudice gli chiese se credesse ad una disgrazia, ma il giovane disse soltanto: –Non voglio querelarmi. L’autrice dichiarò invece che la tragedia era dovuta ad una disgrazia. L’arma le era stata consegnata dallo stesso Ettore Turdò che l’aveva tolto al fratello. Quando l’amante le annunciò il suo proposito di partire, ella si levò dal letto dicendo: – Allora riprenditi la rivoltella. Aprì il cassetto del secretaire, prese l’arma, che era senza sicura e si avvicinò al giovane. Non ero adirata per nulla – disse piangendo al giudice istruttore – Del resto egli non mi ha detto nulla di oltraggioso… Avevo l’arma in mano, e non so come sia scattata, se sotto la pressione della mano di lui o sfiorando un mobile…Perché avrei dovuto ucciderlo? Ma la donna aveva avuto una infanzia difficile. A 12 anni la madre l’aveva abbandonata e se neera a andata a Parigi a fare la cocotte. Una perizia la ritenne affetta da isterismo. Il suo nobile amante le aveva trasmesso la sifilide. Prima di essere arrestata aveva tentato il suicidio. Tratta al giudizio della Corte di Assise di Napoli, per rispondere di omicidio preterintenzionale e difeso dall’avvocato Giovanni Porzio, i giurati ritennero la irresponsabilità dell’accusata e l’assolvettero per involontarietà col vizio di mente.