*Elezioni Usa, una scelta difficile* di Vincenzo D’Anna*

In queste ore a Chicago si sta tenendo il congresso del partito democratico per indicare, in via ufficiale, il candidato alla carica di presidente e di vicepresidente degli Stati Uniti. Già da tempo l’assemblea dei delegati ha indicato nel tandem formato dall’attuale “numero due” di Joe Biden, Kamala Harris, e dall’eminente giurista e docente universitario Douglas Emhoff, la coppia giusta per la corsa alla Casa Bianca. Tutto fatto direte voi, si così sembra. Eppure, alla vigilia del voto, non sono mancate talune “turbative” che hanno finito con l’investire proprio una parte dei delegati democratici. Tali “scossoni” sono scaturiti dal malcontento circa la repentina scelta, da parte dello stesso Biden, di indicare il suo successore proprio nella Harris, pare – a sentire i soliti beninformati di turno – per impedire che il nominativo fosse proposto da Barak Obama. Quest’ultimo, infatti, è ritenuto il vero king maker (colui che regge il gioco) della repentina svolta arrivata con il ritiro dell’attuale inquilino della Casa Bianca, pur avendo, in precedenza, l’ex presidente, sostenuto la riconferma dello stesso Biden. Un cambio di opinione fulmineo che ha influenzato non poco gli altri “pezzi da novanta” del partito (e della stampa amica), conclusosi con il forzoso “gran rifiuto” da parte dell’anziano leader democratico. Una scelta inevitabile, quella di Biden, presa per evitare che la débâcle elettorale potesse rivelarsi certa, a patto però di poter indicare lui il proprio successore optando per l’attuale sua vice. Insomma, il vecchio leone ha abdicato ma non ha rinunciato ad imporre la propria idea in merito al passaggio di consegne. Questo ha comportato, per il congresso democratico, trovarsi al cospetto di decisioni già assunte in nome della conciliazione tra l’urgenza di sostituire un candidato ormai sempre più alle prese con evidenti segni di debolezza senile, decisamente svantaggiato contro l’aggressivo e lanciatissimo nei sondaggi Donald Trump, e l’ottenimento delle sue dimissioni per urgente ed indifferibile precario stato di salute. Morale della favola: la strada della designazione del duo Harris-Emhoff è apparsa più che obbligata. Altro elemento di malcontento è derivato dalla richiesta da parte di una frangia di delegati, di sospendere gli aiuti militari ad Israele che, cinica ed imperterrita, starebbe continuando la spietata guerra a Gaza. Tuttavia anche l’elettorato della potente lobby ebraica deve essere coltivato e quindi l’esito di questa…”condizione” è finito, almeno per il momento, sub iudice. Queste dunque le trombe squillate in una convention apparsa, finora, tutt’altro che pacifica (checché ne dicano i media di parte), nel mentre, sul versante opposto, quello repubblicano, Donald Trump continua imperterrito a suonare le proprie campane andando spesso fuori dal seminato con accuse personali lanciate contro i propri avversari. Non ci sono, tuttavia, solo modi inurbani e sgarbati nelle parole del “tycoon”, quanto anche propositi che appaiono per nulla condivisibili per gli interessi politici del vecchio continente europeo. Il primo tra tutti è il teorema che si debbano tagliare le tasse agli americani. Peccato non venga detto come e di quanto e soprattutto a chi siano poi destinati quei tagli. La tesi trumpiana contempla come corollario economico l’introduzione di dazi sulle merci straniere, a tutto svantaggio dei mercati europei. Che dire? Nel mentre la vittoria di Harris darebbe un seguito all’attuale politica, alle scelte di campo già fatte dagli Usa, quella del miliardario americano minaccia di aprire un’incognita anche in politica estera, con non secondari e pericolosi riflessi per la Ue, in particolare per quanto concerne il sostegno a Kiev nella guerra tra Russia e Ucraina e per il ruolo mondiale che gli States recitano, da sempre, nella Nato. L’inclinazione di Trump, infatti, è quella di fare il “qualunquista”, sia per la rozzezza culturale e politica del soggetto, sia per la sua, non disinteressata, vocazione a preferire gli interessi propriamente se non solamente americani. Insomma tagliare le spese più dispendiose per il ruolo internazionale che Washington esercita, come super potenza, nel mondo. Con Trump alla Casa Bianca l’alleanza atlantica diventerebbe un ombrello difensivo a pagamento, proprio nel momento della sua massima estensione geo politica. Il che comporterebbe l’impellenza di dare subito vita ad un esercito europeo con tanto di relativi costi e tagli ai bilanci nazionali. Ma il vero discrimine con la Harris è rappresentato dalla faciloneria spavalda con la quale “the Donald” intende affrontare i delicati equilibri internazionali: i sorrisi e le amichevoli pacche sulla spalla non basterebbero se la vocazione del leader repubblicano dovesse rimanere quella dell’appeasement, ossia della facile arrendevolezza, a tutti i costi. Una boccata di ossigeno per Mosca ed il suo Satrapo. Cosa sia diventato, in fondo, l’Afghanistan in mano ai Talebani (e sotto l’egida dei cinesi), dopo il ritiro americano, lo hanno visto tutti. La stessa cosa potrebbe capitare alla Corea del Sud, a Taiwan ed al sud est asiatico una volta che il guardiano a stelle e strisce si fosse ritirato per coltivare i fatti suoi. Insomma l’America oggi non è messa granché bene costretta, com’è, a scegliere tra il meno peggio (la Harris, indicata per ripicca di Biden) ed la gestione di Trump fatta di rigurgiti reazionari. E non sono messi beni neanche quelli che all’America guardano da sempre come l’amico fidato, il paese che si batte per mantenere libertà e prosperità in Occidente. Mentre nel Belpaese va in onda l’ennesima farsa del moralismo interessato.

*già parlamentare