Inverare

in-ve-rà-re (io in-vé-ro)

SIGNIFICATO Rendere vero; come intransitivo pronominale, acquisire concretezza, realizzarsi

ETIMOLOGIA composto parasintetico di vero, con prefisso in-.

  • «La sua azione invera il mio giudizio su di lei.»

La ricercatezza dei pensieri, il loro modo di non essere i soliti, a stento pensati, non passa necessariamente attraverso l’uso di parole  e complicate, dal volto  e dalle astruse geometrie di significato. Anche parole formate in una maniera schiettamente familiare, per quanto insolite, sanno darci la possibilità di pensare ciò che non avevamo pensato, o di pensarlo in un’altra maniera. Oggi, ancora una volta, vediamo la magia operata da un modesto (o ?) prefisso.

‘Inverare’ è una parola che in qualunque discorso decifriamo automaticamente, anche se non l’abbiamo mai vista. È innanzitutto (sorpresa!) un ‘rendere vero’. Posso parlare di come il risultato abbia inverato la previsione; di come l’esperimento  inveri tutta la teoria; della prova che invera la ricostruzione della difesa. Lo sentiamo: da un lato è una parola di tenore letterario, dall’altro è completamente accessibile, quasi un ‘confermare’. È anche un meccanismo semplice, se ci facciamo caso: il suo essere insolita dà rilievo al suo concetto.

Ma è un verbo straordinario anche e forse soprattutto in veste di intransitivo pronominale — inverarsi. E qui probabilmente vediamo meglio la differenza con l’avverarsi, un verbo che frequentiamo proprio come verbo da  e da profezia, tutto volto al futuro, di cui perdiamo un po’ cenerentolescamente il corpo.

Avverarsi: quel prefisso a- non ha contorni; mostra un avvicinamento, ma non si ficca in una verità concreta, anche se sembra portarla a un certo compimento. Invece l’inverarsi, con quel prefisso in-, è cacciato dentro al vero, acquista realtà dal di dentro, sviluppa concretezza. Senti che meraviglia semplice e potente: inverarsi, farsi vero, significa prendere concretezza. E si usa in una maniera stupenda: posso parlare di come la testimonianza di un sacrificio inveri un ideale; posso raccontare di come in un incontro si siano inverate le mie speranze; posso riportare il modo in cui la difficoltà ha inverato il nostro rapporto; posso dire che una prima esperienza ha inverato il mio desiderio.

L’avverarsi è conclusivo: lo vediamo lì, sulla  del vero, con l’inquadratura che sfuma. L’inverarsi no. Germinale, dà corpo, compie un tassello di verità, quasi fa una rivelazione. Ha il sapore di un principio, più che di una fine… Anche se naturalmente Dante qui deve strafare.

‘Inverarsi’ è un verbo che puzza di Paradiso da lontano: poteva il poeta non cogliere (in un certo senso inventare) questa affilatissima, potentissima possibilità per raccontare qualcosa del celestiale estremo?
Quando si perde nella vertigine verticale della vista concentrica dei cerchi angelici, con un centro luminoso di luce ultima (nel XXVIII canto), il Pellegrino d’Oltremondo nota che il cerchio più luminoso (con la fiamma più sincera) è quello che dista meno da quel puro,  centro — e perché? Crede, il Poeta, sia perché quel cerchio s’invera di più di quel centro. Detto bene:

e quello avea la fiamma più sincera
cui men distava la favilla pura,
credo, però che più di lei s’invera.

Nella prosa spietata dei dizionari, si legge che inverarsi di quel centro significa immedesimarsi con la verità divina, immedesimarsi con Dio, penetrare la verità divina. Ma l’abbiamo sentito: inverarsi è un prendere concretezza (di Dante sono le prime attestazioni di ‘vero’ nel senso di ‘effettivo’), un accedere di ciò che era solo potenziale all’atto. Un significato teologico molto sofisticato, che però è una mera conseguenza (per quanto estrema) di un pensiero condiviso e comune, che ci fa vivere il ‘vero’ come concreto, effettivo, reale.  male questo ‘inverarsi’, eh?

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