di Stefania Parmeggiani

La Repubblica, 2 marzo 2024

Processi da rifare. Indagini chiuse e poi riaperte. Commissioni parlamentari. Errori giudiziari, colpi di scena e depistaggi. Ecco perché certi fantasmi non ci lasciano mai. Non finisce mai. Non in Italia, non con certe storie. Prendete Rosa e Olindo: la foto che li ritrae dietro le sbarre, sorridenti, un attimo prima della condanna all’ergastolo, è tornata sui giornali, in televisione, online. Dappertutto. Ha ricominciato a circolare un anno fa, quando un magistrato di Milano ha presentato istanza di revisione del processo contro il parere del procuratore generale. “Per una questione di coscienza”, ha detto, e subito quella foto è rimbalzata dagli archivi della cronaca alle nuove trasmissioni di crime. Qualcuno ha ricordato le parole del vecchio avvocato dei due coniugi: “Osservate le espressioni, semplici come le loro menti”.

Diciassette anni dopo la strage di Erba, siamo tornati a guardarli in faccia e quindi a chiederci: possibile che dietro il massacro con spranga, coltello e fuoco di tre adulti e un bambino vi siano veramente loro, quei vicini di casa dallo sguardo vuoto? Pazienza se nel frattempo ci sono stati tre gradi di giudizio e ventuno giudici che li hanno dichiarati colpevoli, una confessione ritrattata dieci mesi dopo e un testimone oculare sopravvissuto per miracolo. In attesa che la Corte d’Appello di Brescia, oggi la prima udienza, decida se ci sono nuove prove e se queste siano sufficienti alla revisione del processo, il racconto di Erba può ricominciare.

Non è l’unico. Anche ad Avetrana sono tornate le telecamere. Michele Misseri, che ha finito di scontare otto anni di carcere per aver gettato nel 2010 il corpo della nipote quindicenne Sarah Scazzi in fondo a un pozzo, va giurando di essere l’assassino. Dopo averlo detto alla Giustizia, che non gli ha mai creduto, lo ripete a “Farwest”, il programma di Rai Tre condotto da Salvo Sottile: “L’ho ammazzata io e volevo suicidarmi”. Sua figlia Sabrina e la moglie Cosima, condannate all’ergastolo perché considerate le uniche responsabili, hanno fatto ricorso alla Corte europea: sostengono che i diritti della difesa sono stati violati.

E chissà se torneremo a parlare di Alberto Stasi, l’ex bocconiano condannato a sedici anni per l’omicidio della fidanzata Chiara Poggi, a Garlasco, 13 agosto 2007. Le indagini sono state riaperte già due volte, ma l’ipotesi alternativa, quella che metteva sotto accusa Andrea Sempio, amico del fratello della vittima, si è sempre risolta in un nulla di fatto: il Dna maschile rinvenuto sotto le unghie di Chiara è troppo degradato per permettere confronti. I legali di Stasi non demordono, parlano di una scena del crimine inquinata e anche loro si rivolgono a Strasburgo.

Certi fantasmi non hanno mai pace. Alcuni poi, ci tormentano da decenni. Simonetta Cesaroni, Emanuela Orlandi, le otto coppie uccise dal “mostro di Firenze” continuano a ossessionarci: non c’è un colpevole, o quando la sentenza c’è, come nel caso dei “compagni di merenda” di Pacciani, si porta appresso una serie di misteri, concatenati uno all’altro, che fanno dubitare della verità giudiziaria non solo i mostrologi che affollano Internet, ma anche i famigliari delle vittime.

Le indagini promettono svolte che non arrivano mai, accendono i riflettori su presunti colpevoli, si perdono tra perizie, lettere anonime, mezze verità, ritrattazioni, testimoni che riacquistano la memoria e prove che scompaiono dagli archivi giudiziari. Un pentolone che ribolle in continuazione e chissà alla fine di chi parla veramente: delle vittime, degli assassini, o di noi spettatori che chiediamo sempre nuovi enigmi e colpi di scena?

Contabilità omicida – Un passo alla volta. Gli omicidi in Italia non sono frequenti. Invasi da notizie di cronaca nera ci sentiamo sotto assedio, ma non è vero: in Europa siamo tra i Paesi con meno morti ammazzati. Nel 2021 la Lettonia aveva un tasso di 5,8 omicidi per 100 mila abitanti. Noi eravamo fermi a 0,51, ben al di sotto della media europea di 0,83, peggio solo di Lussemburgo, Irlanda, Repubblica Ceca, Slovenia e Malta. Nel 2022 siamo arrivati a un tasso dello 0,55: vale a dire 322 persone morte ammazzate, 196 uomini e 126 donne, delle quali 106 vittime di violenza di genere. La contabilità invita a più di una riflessione, ma lascia pochi margini al mistero: il presunto colpevole, nel 93,7 per cento dei casi, è un uomo che agisce per futili motivi e rancori personali (53,1) oppure spinto da un movente economico, rapina compresa (14). A distanza di un anno, secondo il rapporto dell’Istat pubblicato lo scorso novembre, restavano avvolti dalle ombre 37 casi, tre con vittima una donna. Le indagini sono in corso, difficile dire quanti si trasformeranno in cold case, ma di sicuro la percentuale è drasticamente inferiore a quella che si registrava una decina di anni fa: nel 2012 i delitti irrisolti sfioravano il 40 per cento e perlopiù avevano una chiara matrice di stampo mafioso.

“Il delitto perfetto appartiene al passato”, spiega Antonio Del Greco, ex funzionario della squadra mobile di Roma che nel 1990 diresse le indagini di via Poma e oggi direttore operativo Italpol. Di quel caso non si è mai liberato. Qualche anno fa scrisse un libro con il giornalista Massimo Lugli e finì sommerso da nuove segnalazioni. Tra le tante, una sembrava promettente: smentiva l’alibi di Francesco Caracciolo di Sarno, ex presidente dell’Associazione italiana alberghi della gioventù, l’ufficio dove Simonetta lavorava. Solo che nel frattempo l’uomo, molestatore seriale secondo una vecchia informativa della Digos, era morto.

L’inchiesta si fermò lì dove doveva iniziare e anche adesso, che è stata riaperta per la terza volta, si parla di archiviazione: nel radar c’è Mario Vanacore, figlio del portiere che morì suicida durante il processo all’ex fidanzato di Simonetta. La procura ha già detto che sono solo suggestioni, finirà in niente. “Oggi, per risolvere un delitto come quello di via Poma, basta visionare le telecamere di sorveglianza”, dice Del Greco, “ma allora non c’erano. Stiamo parlando di un’altra epoca con una tecnologia e protocolli operativi diversi”. Non c’erano cellulari a inchiodare un indagato sulla scena del crimine e tantomeno sofisticate analisi delle tracce biologiche. Il Dna era entrato per la prima volta in un’aula di tribunale solo quattro anni prima, ma in Inghilterra. In Italia le indagini erano ancora deduttive, si mettevano assieme gli indizi, si puntava a una confessione, non si parlava di “prova regina”.

La firma dell’assassino – Questione di poco. Nel 1998 l’impronta genetica inchioda il serial killer Donato Bilancia, diciassette omicidi in sei mesi tra Liguria e Piemonte, e ben presto si rivela fondamentale per risolvere vecchi casi, dall’omicidio di Elisa Claps al delitto dell’Olgiata, anche se è con l’omicidio di Yara Gambirasio che arriva la svolta.

Sui leggins e sugli slip della tredicenne, uccisa il 26 novembre 2010 a Brembate di Sopra (Bergamo), viene trovata una traccia biologica mista – Dna della vittima e Ignoto 1: un’indagine a tappeto porta a un muratore di Mapello, Massimo Bossetti. Considerata determinante in tre gradi di giudizio, quella traccia ancora oggi scatena gli innocentisti: pochi giorni fa la Cassazione ha ribadito che nessun nuovo esame è ammesso, la difesa non potrà fare le controanalisi su cui puntava per riaprire il processo.

Anche se il Dna è considerato un testimone silenzioso infallibile, i problemi non mancano. Lo dimostra l’omicidio della studentessa inglese Meredith Kercher a Perugia, nel 2007. Gli investigatori rilevano quello di Amanda Knox su un coltello da cucina e quello di Raffaele Sollecito su un gancetto del reggiseno della vittima. Pensano che il caso sia risolto e invece si sbagliano: i periti dimostrano violazioni nelle procedure dei sopralluoghi e nel campionamento dei reperti, la Cassazione assolve i fidanzati.

Del resto “la prova regina” non sempre si trova. È il caso di Serena Mollicone, la diciottenne di Arce abbandonata nel 2001 in un boschetto del frusinate, le mani e i piedi legati da scotch e fil di ferro, la testa chiusa in un sacchetto. Per la sua morte è indagato l’ex maresciallo Franco Mottola in concorso con la moglie e il figlio Marco. L’accusa pensa che Serena sia entrata in caserma per denunciare come spacciatore proprio il figlio del carabiniere, che sia stata colpita e poi lasciata agonizzare per cinque ore, ma sul suo corpo e sul nastro adesivo utilizzato per immobilizzarla non ci sono tracce biologiche dei Mottola. Anche i microframmenti di legno rinvenuti tra i suoi capelli, quelli che secondo i Ris confermerebbero luogo e dinamica dell’aggressione, in primo grado non sono stati sufficienti a condannarli. Ora c’è l’appello e chissà se, dopo anni di depistaggi e un suicidio misterioso, si riuscirà a fare chiarezza.

Quanti sbagli – Non è facile. In Italia la verità sembra spesso provvisoria. Non ci sono solo indagini pasticciate e dietrologie un tanto al chilo, ma anche errori giudiziari. “E non sono pochi” dice Valentino Maimone, giornalista che insieme al collega Benedetto Lattanzi ha fondato l’associazione “Errorigiudiziari.com” con il relativo archivio online degli innocenti: centinaia di uomini e donne finiti in carcere ingiustamente. Si è dato un codice di condotta: non commentare i casi mediatici, non prima che il rumore si traduca in qualcosa di concreto. Per la contabilità si attiene alla definizione tecnica di errore giudiziario: persone condannate con sentenza definitiva e assolte dopo la revisione del processo. Negli ultimi trent’anni sono state 222, sette all’anno.

“L’ultimo è il pastore sardo Beniamino Zuncheddu: quasi 33 anni in carcere per un triplice omicidio che non ha commesso. Un caso che ha fatto quasi impallidire altre clamorose ingiustizie come quella subita da Angelo Massaro, condannato per via di un’intercettazione mal interpretata: nel 1996 lo accusano di avere ucciso un amico fraterno. Non c’è corpo, arma del delitto o movente, solo una telefonata alla moglie. Una mattina, trainando un bobcat per lavori edilizi, le dice in dialetto: tengo nu muers. Lui intende che sta trasportando “un coso ingombrante”, chi ascolta capisce muert, un morto”. È l’inizio di una vicenda kafkiana, che si conclude solo nel 2017 quando viene dichiarato innocente. Era stato condannato a 24 anni, ne ha trascorsi 21 in cella. “I contorni dell’emergenza si vedono meglio dai numeri dell’ingiusta detenzione: 985 casi all’anno, da oltre trent’anni”.

Ma perché accade? “Per errori nelle intercettazioni, come sa bene Massaro, per testimonianze e riconoscimenti sbagliati, per accuse false formulate per vendetta, ripicca o convenienza, per le dichiarazioni di collaboratori di giustizia inaffidabili che vogliono fare un favore alla cosca, vendicarsi o trarne qualche vantaggio personale come è accaduto con Enzo Tortora. Infine, per scambi di persona, alcuni clamorosi”.

Tiro al piccione – Certo, i media non aiutano. Spiega Maimone: “Per Tortora si mise in piedi un ignobile tiro al piccione: fu fatto sfilare, schiavettoni ai polsi, davanti a frotte di fotoreporter e telecamere convocati per l’occasione. Oggi vediamo paginate di intercettazioni irrilevanti, oltraggiose e umilianti non solo per l’indagato, ma anche per chi gli è vicino”. È la cronaca che diventa show, i plastici della villetta di Cogne, i dettagli della vita privata di Amanda, le illazioni sulla famiglia Castagna, le troupe televisive che trasformano Avetrana in Hollywood… Il circo mediatico-giudiziario che non ha rispetto per nessuno: né per gli indagati, né per i famigliari delle vittime.

Valter Biscotti, avvocato penalista, protagonista di processi della cronaca nera più profonda, ha visto cambiare negli anni la narrazione. “L’attrazione morbosa per certi delitti c’è sempre stata. Una volta i giornali facevano edizioni straordinarie, le piazze davanti ai tribunali si riempivano di gente, ma a un certo punto, con la televisione, il racconto è deflagrato”.

A Perugia, dove difendeva Rudy Guede, c’erano torri davanti al tribunale per permettere ai cameramen di inquadrare l’ingresso di colpevoli e testimoni. Ad Avetrana, poi, erano tutti impazziti: “Assistevo i familiari di Sarah Scazzi e per raggiungere la casa della madre dovevo superare il muro delle troupe televisive. Non va bene, certi eccessi rischiano di influenzare le indagini e a volte trasformano una persona nel colpevole perfetto”.

Ricorda Salvatore Parolisi, l’assassino di Melania Rea. Lo ha difeso fino all’ultimo grado di giudizio dove è stato condannato a vent’anni. “Una pena che per un delitto così orribile è poca cosa, ma allora che senso ha? Non c’era quasi nulla che lo collegasse alla scena del delitto, solo una minuscola traccia di Dna nella bocca di Melania, sua moglie. In un delitto d’impeto, con 35 coltellate, le tracce sono ben altre, ma lui in quel momento era l’uomo più odiato d’Italia. Sembra quasi che in alcuni tribunali aleggi il detto “poche prove, poca pena”. Il che è terribile, una negazione del diritto”.

I detective del web – Per lui il colpevole ideale è anche Pietro Pacciani: “Cercavano una persona spregevole, hanno trovato un contadino ignorante e privo di freni inibitori, che aveva già ucciso un rivale d’amore, maltrattato la moglie e abusato delle figlie. Gli hanno attribuito otto duplici omicidi premeditati e mutilazioni eseguite con precisione chirurgica”. Ecco, alla fine si torna sempre lì, al caso dei casi, l’eterno mistero italiano: il “mostro di Firenze”.

“Esistono anche i processi farsa” dice l’avvocato “e io ho deciso di dedicare gli ultimi anni della mia professione a smascherarli. Nelle carte dell’inchiesta c’è sempre la verità”. Sperava di dare un’occhiata alle foto scattate dalla coppia di francesi massacrata nel bosco degli Scopeti. “Giancarlo Lotti disse che la loro tenda era stata squarciata da Mario Vanni la notte del delitto. Io ritengo che fosse un vecchio strappo e dimostrarlo avrebbe invalidato quella testimonianza”. Poche settimane fa gli scatoloni con i reperti sono stati riaperti, ma sorpresa: i rullini erano scomparsi. Il “mostro di Firenze” è destinato a tenerci compagnia ancora a lungo.

Così come l’ombra di pedofili in clergyman, criminali romani, agenti segreti bulgari e terroristi di destra, sempre presenti sullo sfondo del caso Orlandi. Più di 40 anni dopo, ci sono tre inchieste aperte: quella vaticana, quella della Procura di Roma e quella della Commissione parlamentare. Il fratello Pietro, che cerca la verità dal 22 giugno 1983, quando Emanuela uscì da una lezione di musica e scomparve nel nulla, ha incontrato un uomo che all’epoca era vicino ai Nar, in contatto con la Banda della Magliana e con il cardinale Poletti. Dice che la quindicenne è stata portata a Londra e lì segregata per alcuni anni. Come prova gli consegna una foto: si vede la mano di un uomo con una collanina di fili intrecciati. Chissà se è quella di Emanuela o se siamo davanti all’ennesimo depistaggio. Di certo è un particolare utile a fiction, talk, film e serie tv.

Giancarlo De Cataldo, ex magistrato e romanziere, spiega: “L’Italia è un Paese ossessionato dalla cronaca nera. A inizio Novecento i bestseller erano i resoconti dei processi, in pratica dei libretti di true-crime. Poi è arrivata la televisione, con i primi casi mediatici. La svolta si ha nel 1953 con il delitto di Wilma Montesi e l’opinione pubblica divisa tra opposte tifoserie: innocentisti e colpevolisti. Allora il dubbio si nutriva della sensazione che qualcosa fosse stato occultato, oggi di un sentimento di sfiducia che investe le sentenze in quanto tali”.

Del resto, sulla scena del crimine non si muovono più solo poliziotti, magistrati o giornalisti. Ci sono i famigliari delle vittime che non restano più alla finestra ma, come Pietro Orlandi, svolgono indagini in proprio. Ci sono i detective del web, ossessionati dalle incongruenze: nelle loro mani qualsiasi caso (non per forza cold) viene messo in discussione. E ci sono i criminologi, figure a metà strada tra Clarice Starling del “Silenzio degli innocenti” e lo psicologo di famiglia.

“Certo, esistono domande legittime e vittime che ancora attendono giustizia” precisa De Cataldo “ma esiste anche un uso strumentale della cronaca nera, la sua trasformazione in arma di distrazione di massa”. Nulla di inedito? “La sopravvivenza ciclica di alcuni misteri, anche quando misteri non sono più”. Insomma, giocheremo ad Agatha Christie ancora un po’: con il fiato sospeso fino al prossimo omicidio.