*Adda passà ‘a nuttata*

di Vincenzo D’Anna*

C’è ancora chi si meraviglia che, nonostante sia trascorso un secolo e mezzo dall’unità d’Italia, la questione meridionale sia rimasta ancora irrisolta. Che nelle regioni del Sud la popolazione sia ancora largamente scettica sugli esiti del nostro “Risorgimento”, ancorché questi sia stato bellamente illustrato nei libri di scuola del secolo scorso come un atto di liberazione dalla tirannia ottusa e retriva dei Borbone. Insomma: la narrazione epica, ed al tempo stesso, in gran parte farlocca, dell’epopea garibaldina e dell’acuto nonché lungimirante disegno del Conte di Cavour e del re dello stato sabaudo Vittorio Emanuele II non e’ quella che ci hanno lasciato intendere. Quella che non trovava spazio nei sussidiari scolastici era la parte meno “romantica”, ma più veritiera e cruda, di quelle stesse gesta pseudo-eroiche: ossia con quali reali finalità e con quanti episodi di crudeltà quella “unità” fu concepita e poi realizzata. Sfrondato dell’alone della propaganda patriottarda il cosiddetto “Risorgimento” fu decisamente ben “altro”. Per capirci: il regime dei Borbone più che di un “impero del male” fu artefice di uno Stato florido la cui capitale, Napoli, fu città tra le più popolate ed emancipate d’Europa. Molti primati appartennero al Regno delle due Sicilie, nel campo del commercio, dell’arte, della scienza, della letteratura, della musica e del teatro. Ed ancora nel campo di un’industria evoluta, con una marineria da far invidia a quella inglese che pure ambiva a dominare i mari con la propria flotta per sorreggere economicamente il vasto impero di sua maestà britannica. Che ci fossero poi zone rurali nelle quali vivessero contadini analfabeti o che il regio governo poco si curasse poco dell’emancipazione delle masse e dei diritti di cittadinanza, è certo vero, ma non per questo il tutto va ricondotto alla considerazione che il regno delle due sicilie fosse stato un ricettacolo di povertà e di ignoranza. Peraltro situazioni del genere erano riscontrabili anche in altri Stati europei considerati “civili” e “progrediti” come la stessa Francia, ad esempio. Una condizione sociale, null’altro che il segno dei quei tempi e della civiltà rurale. Solo negli ultimi decenni questa verità esaminata senza partigianerie è venuta a galla. E’ accaduto quando finalmente è stata tolta la sordina a talune verità. Prima la monarchia sabauda e poi il ventennio fascista, infatti, avevano messo a tacere taluni aspetti storici per esaltare il proprio ruolo di preminenza negli avvenimenti. Il conformismo degli intellettuali che si sposava con la loro codardia di correre in soccorso del vincitore, aveva seppellito certe evidenze che stonavano sia nel regime monarchico, sia in quello mussoliniano, contrastavano con quella politica che tendeva a sottacere della verità storica, per calcoli d’apparato del regime stesso. Insomma: prima il fascismo con le sue tesi nazionaliste e le smanie imperiali di dover ricreare i fasti e la potenza dell’antica Roma e successivamente la Repubblica, con la smania di immaginare il popolo capace di farsi artefice della propria redenzione, mutatis mutandis, hanno confermato l’interpretazione di una storiografia che ha sempre fatto il gioco del potere costituito. Ma veniamo ai tempi nostri. La crisi della Prima Repubblica, la fine delle ideologie e della partitocrazia ha reso inutile e superato il racconto romanzato degli eventi risorgimentali ed unitari. Il mito del Risorgimento è quello della stessa resisistenza al nazi fascismo sono stati rivisitati senza più destare scandalo. Sono venute fuori, ad opera di molti storici, tra cui Renzo De Felice, Augusto Del Noce, Indro Montanelli, Remo Bodei, Pino Aprile, Alessandro Barbano, nuovi studi e narrazioni, scevri da ridondanze e pregiudizi. La storia vera, o meglio completa ed obiettiva, ha preso a narrare non dei “mille” garibaldini bensì dei diecimila armati sbarcati ad ondate successive il Sicilia; di agenti provocatori come Francesco Peluso, introdotti per sobillare la popolazione, di navi inglesi alla fonda nei pressi della costa per poter intervenire, in caso di necessità, a sostegno delle “camice rosse”. Un racconto che ridimensiona lo scontro tra Davide e Golia, tra i pochi ed ardimentosi “liberatori ” e l’esercito duosiciliano, senza tralasciare il tradimento prezzolato degli ufficiali di Francesco II. Una storia che ha preso a narrare dei saccheggi, delle fucilazioni e dei crimini commessi dai bersaglieri del generale Cialdini, dell’internamento di migliaia di soldati napoletani dopo la caduta della fortezza di Gaeta. Questi ultimi rinchiusi nella fortezza piemontese di Fenestrelle, situata sulle Alpi Craie a picco sulla Val Chisone. In molti tra loro morirono di stenti e di freddo: le loro gesta e l’eroico comportamento che gli ultimi “fedelissimi” di Franceschiello seppero tenere furono narrati dal poeta Ferdinando Russo il quale seppe affidare, nel poema “ il soldato di Gaeta”, alla straziante storia dell’io narrante di un uomo solo e disperato, Michele Migliaccio “fu Giesummino”, il ricordo degli anni giovanili in cui aveva versato il sangue, perso un braccio e quasi un occhio per il re di Napoli che lo aveva premiato con una medaglia al valore. Esempi di fedeltà e valore per l’ultimo erede dei Borbone. E come lui a migliaia, vinti e cancellati dalla Storia d’Italia da quei libri in cui si scrive solo di altri eroi e di altre storie come quelle della piccola vedetta lombarda, di Amatore Sciesa, dei fratelli Bandiera e di Carlo Pisacane. Così come si è taciuto sulle ricchezze, riserve in moneta d’oro, del Regno Borbonico depredate dai Savoia per rimpinguare le loro esengui casse. E pure si è taciuto dello smantellamento dell’apparato industriale duosiciliano trasferito a Nord. Insomma un saccheggio di guerra vero e proprio. Eduardo diceva “Adda passà ‘a nuttata”. Io aggiungo: finalmente anche per il popolo del Sud.

*già parlamentare