*Delle…élite e delle pene*

di Vincenzo D’Anna*

Il titolo di questo articolo richiama, ironicamente, il saggio “Dei delitti e delle pene” scritto nel 1764 dal famoso giurista milanese Cesare Beccaria. Un testo che segnò un significativo passo in avanti nella concezione della giustizia intesa come rispettosa del reo e strumento di recupero sociale del medesimo. Insomma: principi di civiltà giuridica che si erano persi nei secoli precedenti durante i quali, sostanzialmente, i codici penali altri non erano che un’organica applicazione della legge del taglione: occhio per occhio dente per dente. Beccaria rilanciò principii e idee che oggi chiameremmo “garantisti” asserendo che la pena dovesse essere proporzionale alla tipologia di reato commesso e che la condanna a morte, largamente in uso in quel periodo storico, non avesse quel potere di deterrenza dal delinquere che pure le si attribuiva. Anzi, al contrario, era la pena detentiva, giustamente irrogata, a fungere da monito e poi a recuperare il delinquente. Il perché della trasformazione di quel titolo lo illustreremo nel corso di questo pezzo imperniato su una tematica che da decenni è al centro del dibattito politico in Italia, sopratutto in relazione al rapporto instauratosi tra l’ordine giudiziario (i magistrati) che si è trasformato, via via, in un vero e proprio blocco di potere ed i bracci legislativo ed esecutivo che appartengono, rispettivamente, al Governo ed al Parlamento e quindi al popolo che elegge quest’ultimo. In verità anche la giustizia è esercitata in nome del popolo italiano, ma in tale ambito questi non decide nulla e tutto viene determinato dall’agire dei giudici. Un’azione, la loro, che spesso ha dato l’impressione, se non la prova concreta, di poter essere orientata ideologicamente e più in generale di essere in grado addirittura di prevalere sugli apparati istituzionali della politica, ancorché questi ultimi fossero democraticamente individuati attraverso libere elezioni. Salteremo, a piè pari, una lunga casistica di forzature e sconquassi posti in essere dalle toghe, soprattutto dai pubblici ministeri, nel corso del tempo. Non ci soffermeremo sugli abusi e la discrezionalità assoluta di un potere insindacabile ed intangibile, che ha mistificato l’indipendenza prevista per l’ordine giudiziario in assoluta irresponsabilità innanzi anche agli errori più clamorosi commessi da taluni giudici. Ignoreremo l’iniqua situazione secondo la quale i magistrati fanno carriera per anzianità e notorietà, senza altri titoli o selezioni di merito, e che tale notorietà si acquisisce inquisendo e processando persone note ed influenti più che sospettate di reati commessi. Taceremo sui molti altri casi in cui la politicizzazione ha orientato l’azione giudiziaria attraverso l’uso di leggi costruite per consuetudine di giurisprudenza dai magistrati medesimi, come il concorso esterno in associazione mafiosa e la gestione dei pentiti direttamente da parte dei pubblici ministeri, ossia l’accusa. Stenderemo un velo pietoso sulla orribile circostanza che vede oltre ventimila cittadini dietro le sbarre in attesa di giudizio (anticipo della pena senza sentenza !!). Insomma: trascureremo tutti gli argomenti che sono alla base dell’indispensabile riforma giudiziaria di cui tanto e da tanto tempo si discute inutilmente nel nostro Paese. Il nocciolo della questione che affronteremo sarà di tipo complementare, ma non certo marginale, al problema della riforma. Si tratta di ragionare su quali e quanti siano gli abitanti del Belpaese che hanno esatta cognizione del problema, delle urgenze che questo pone in una società che tutti i giorni innalza sul più alto pennone la bandiera della libertà assoluta, spesso priva del suo naturale corollario rappresentato dalla responsabilità, ma che non teme le insidie e le minacce che a quella libertà individuale o collettiva vengono mosse dallo strapotere giudiziario e dalle sbilenche condizione in cui si trova ad operare la giustizia. Ci chiediamo: nella vasta gamma dei componenti della variegata e complessa società digitale, dei costumi mutevoli, della cancellazione della scala dei consueti valori morali, del relativismo etico, a chi tocca principalmente dichiararsi attenti e vigili sui diritti civili legati alla persona ed alla sua libertà? In parole povere: l’interessamento su tali questioni dovrebbe riguardare innanzitutto quella parte della società più avveduta culturalmente. Quella che in altri campi dell’agire sociale, si rende disponibile, si mobilita e si distingue dalla massa dei noncuranti. Quindi si dovrebbe cominciare dalle élite a discutere e sostenere la riforma della giustizia. Invece tale argomento, che suscita negli ignavi apprensione e cautele, viene trascurato come circostanza che avvilisce chi delinque o chi, suo malgrado, capita nel tritacarne della giustizia mediatica e faziosa. Francois Marie Aruet, in arte Voltaire, valutava la civiltà di un popolo dai suoi tribunali e dalle sue carceri. Ed allora siamo una nazione civile? E se la civiltà non viene difesa da chi conosce ed è erudito chi mai e chi altri la potrà difendere?

 

*già parlamentare

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