Che Cazzo

di Salvatore Merlo

Il Foglio

In principio fu Cesare Zavattini, estroso intellettuale che con notevole scandalo, nell’Italia del 1976, sparò un sonoro “cazzo” (pardon) mentre conduceva una trasmissione sulla radio Rai. E a riprova forse che il turpiloquio non è sempre espressione di malcostume né soltanto una patologia lessicale, in questi ultimi giorni i colpi di “cazzo” (pardon) nel nostro paese sono stati ben tre: quello celebratissimo di Dario Nardella all’imbrattatore ambientalista a Firenze (“che cazzo fai?”), quello spiritosissimo di Checco Zalone e Aldo Cazzullo sul Corriere (Zalone: “Non faccio un cazzo”, Cazzullo: “Quella parola non si può dire sul Corriere”, Zalone: “Capisco. E, conoscendo il suo cognome, capisco anche il suo dramma”) e domenica infine Lucia Annunziata rivolta al ministro Eugenia Roccella: “Prendete la responsabilità di fare queste leggi, cazzo!”. Una lingua deprivata della parolaccia è probabilmente una lingua menomata, come sanno i filologi e i linguisti, tra cui Federico Roncoroni, che si sono a lungo dedicati all’argomento: una lingua condannata al disarmo. E se è vero che la volgarità è una ferita, tuttavia l’uso consapevole, per non dire equilibrato, del turpiloquio può persino essere un approdo di civiltà. Purché si segua l’antica regola culinaria, dunque scientifica, del quanto basta. Il turpiloquio è difatti ignobile se frequente, ma è nobile se è eccezionale. Ed è efficace, e spicca, soltanto quando non diventa la pastella che avvolge un mucchio caotico di aggressività alla grillina. Può esistere insomma anche una maestria della malaparola, che – attenzione – non è la negazione o la sostituzione del linguaggio triviale. Chi non ricorda per esempio Berlusconi, quando gli sbatterono il microfono tra i denti, e invece di esclamare uno spontaneo “cazzo!”, se ne uscì con un fantastico “Cribbio!”? Il Cavaliere sembrava un po’ quel personaggio del romanzo di Kurt Vonnegut che decide di non usare parolacce e si limita a espressioni come “che pezzo di escremento!”, “che testa di pene!”, “siamo in una bella casa di tolleranza!”. Essere dei parlanti competenti, saper usare la propria lingua, significa anche saper escogitare il turpiloquio giusto al momento giusto. “Torni a bordo, cazzo!”. Liberatorio come quello di Nardella di fronte al mistero insondabile della stupidità umana. Irresistibilmente comico come quello di Zalone e Cazzullo. E infine veritativo e partigiano come quello di Lucia Annunziata, la Badessa del centrosinistra il cui talento sta anche in quella faziosità che nel giornalismo italiano ha sempre avuto una sua grandezza, da Fortebraccio a Bocca fino a Michele Santoro. Lei voleva sfidare la ministra Roccella e tutto il governo di destra. Forse avrebbe dovuto dire: “Fatela questa legge, organo esterno dell’apparato genito-urinario maschile a forma di appendice cilindrica!”. Ma non sarebbe stata all’altezza di Zavattini.

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