Moretti di Claudia Guasco il Messaggero
La seconda vita di Mario Moretti sta tutta in un quartiere di Brescia. Casa in una delle nuove vie della vita notturna, volontariato in una Rsa e un altro impegno in una associazione che si occupa del reinserimento dei detenuti. Questo fino alle dieci di sera, quando deve rientrare in carcere. E a meno di permessi speciali, come quello che ha ottenuto per l’ultimo dell’anno: la notte di San Silvestro e i primi giorni di gennaio li ha trascorsi nel suo appartamento, con l’obbligo di rimanerci fino alle sette della mattina successiva.
Mario Moretti, 77 anni, sei ergastoli, figura di spicco delle Brigate Rosse, si è appuntato al petto quella che ritiene una medaglia al valore dello stragismo: mai pentito e mai dissociato. Nel 1993 ha dichiarato di essere stato l’esecutore materiale dell’omicidio di Aldo Moro, di avere guidato il commando delle Br che compì la strage di via Fani nella quale vennero massacrati gli uomini della scorta. E fu sempre lui a interrogare Moro nei 55 giorni di prigionia. È in carcere dal 1981 e poco alla volta si sono aperti spiragli sul mondo esterno: dal 1997 gode del regime di semi-libertà e grazie agli sconti di pena e alla buona condotta ha ottenuto diversi benefici. Come i permessi premio e le licenze straordinarie che gli permettono di trascorrere alcune notti fuori dal carcere. Ma anche guidare la macchina della compagna, muoversi liberamente in città e provincia con i mezzi pubblici, andare a Milano dove collabora come assistente informatico nello studio di un avvocato. La sua esistenza è defilata, ma ricca di impegni ed è a Brescia che l’ex Br, padre di una figlia, si è fermato. Due pomeriggi alla settimana si presenta negli uffici di una Rsa, settore amministrativo: disbriga pratiche, non ha alcun contatto con i degenti e ha il divieto assoluto di percepire stipendio. «Lo fa per passare il tempo», spiegano dalla struttura. È stato lui a proporsi e non è stato un cammino facile. «Noi accogliamo e seguiamo i detenuti nei percorsi alternativi al carcere, ma quando si è fatto avanti Moretti era chiaro che non ci trovavamo di fronte a un condannato qualunque», sottolineano. Il candidato ex terrorista era un personaggio divisivo, non tutti all’interno erano favorevoli a un suo inserimento. Un conto è leggere il nome sul giornale, altra cosa trovarselo come vicino di scrivania. Alcuni hanno reagito con imbarazzo, altri hanno inizialmente opposto un rifiuto e mostrato indignazione: «Ma come, accogliere un ex brigatista e che per di più non si è mai dissociato». La struttura ha organizzato incontri, confronti su testi specifici e dopo mesi di approfondimento tutti si sono detti pronti e la richiesta di Moretti è stata accolta. Da inizio gennaio lavora due pomeriggi alla settimana. «È una persona attenta, scrupolosa e gentile. Mantiene un basso profilo e ha rapporti cordiali con i colleghi», dicono.
Sul citofono della palazzina nella quale abita c’è l’etichetta con il suo cognome, scritto in nero su fondo bianco, unica traccia visibile di un uomo restio alle apparizioni pubbliche. Tra i pochi a convincerlo è stato, nel 2004 e nel 2005, l’allora direttore della scuola di giornalismo della Provincia di Milano, Enrico Fedocci. Agli studenti Moretti ha spiegato: «Ho preso le distanze perché il movimento non poteva dare più nulla, aveva esaurito il suo compito». E qualcuno gli ha chiesto: ma perché allora non si è pentito? «Sarebbe stato troppo comodo. È stato sbagliato e me ne assumo le responsabilità». Del dibattito i ragazzi hanno fatto un articolo, e ognuno ha di lui un’impressione diversa. Chi lo descrive come «un professore qualunque», chi «tormentato», per altri «non tradisce la minima emozione». Lui legge, risponde con una lettera e nel finale torna a immergere la penna nell’inchiostro della lotta armata: «Ringrazia i tuoi allievi da parte mia. Tutti. Anche quelli che pensano come un carabiniere, parlano come un carabiniere e fortunatamente, non avendo l’equilibrio di un carabiniere, non sono armati come un carabiniere».
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