«Il congresso del Pd
è un dramma senza contenuti.
Le sembra ci si possa appassionare?»
Massimo Cacciari
Pd
di Milena Gabanelli, Simona Ravizza, Alessandro Riggio
Corriere della sera
In una democrazia le istituzioni funzionano correttamente quando c’è una solida maggioranza che governa e una opposizione sana che fa da contrappeso. Per dirla con le parole di Adenauer: «In parlamento una buona opposizione è una assoluta necessità che deve essere esercitata da un grande partito di opposizione». Quel grande partito è il Pd, ma è riuscito a sbriciolarsi da solo. In 15 anni, dal 2007 a oggi, i segretari sono otto: Walter Veltroni, Dario Franceschini, Pier Luigi Bersani, Guglielmo Epifani, Matteo Renzi, Maurizio Martina, Nicola Zingaretti ed Enrico Letta. Il più longevo, e al tempo stesso il più divisivo, è Renzi, l’unico a vincere due volte la sfida per la segreteria: oggi è leader di un altro partito. Nessuno ha mai concluso il mandato di quattro anni previsto dallo Statuto. I motivi delle dimissioni: sconfitta elettorale o spaccature nel partito diviso in correnti.
Vediamo allora dove si posizionano oggi le diverse anime e come le primarie stanno definendo nuovi equilibri. Lo facciamo incrociando i database dei politologi Luca Verzichelli (CIRCaP-Università Siena), Luca Carrieri (Unitelma-Sapienza), e Giulia Vicentini (Università Napoli Parthenope) e una laboriosa raccolta di informazioni sul campo.
Le correnti
Il Partito democratico riunisce già dalla sua origine due fazioni: una più di sinistra e laica e un’altra più centrista e cattolica. Succede che quando una delle due diventa minoranza, a seguito della sconfitta alle primarie o alla perdita della leadership, si arma dando vita a una nuova corrente. Nel corso del tempo le divisioni ne generano di nuove, che vanno oltre le differenti sensibilità politiche e sconfinano in lotte di potere o nel mantenimento di interessi personali. Partiamo dalle correnti: come si formano e chi sono i principali esponenti. La lista completa dei nomi è pubblicata nella versione online su Corriere.it.
Ala sinistra, che a sua volta riunisce cinque sottocorrenti. 1) I Giovani turchi: lanciati da Matteo Orfini nel 2010 in piena era berlusconiana. Ne fanno parte la deputata Chiara Gribaudo e il senatore Francesco Verducci. Si sono staccati e ora sono autonomi il sindaco di Roma Roberto Gualtieri e il senatore a lui vicino Claudio Mancini. 2) Sinistra Dem: creata da Gianni Cuperlo a un mese dalla sconfitta alle primarie contro Renzi nel dicembre 2013. La sostiene il senatore Andrea Giorgis. 3) I Dems fondati da Andrea Orlando nell’agosto 2017, a pochi mesi dalla propria sconfitta alle primarie di aprile contro Renzi. Tra gli esponenti di spicco, i parlamentari Peppe Provenzano (vicesegretario Pd con Letta) e Antonio Misiani (responsabile economico del Pd). 4) Prossima: lanciata nel maggio 2021 dopo le dimissioni di Zingaretti dai suoi fedelissimi Stefano Vaccari (responsabile dell’organizzazione del Pd), Marco Furfaro (responsabile Comunicazione) e Valentina Cuppi (presidente del Pd). Tra i più conosciuti Cecilia D’Elia (portavoce delle Donne democratiche), l’ex sindaco di Bologna Virginio Merola e Ouidad Bakkali. 5) Coraggio Pd: creata da Brando Benifei nell’autunno 2022.
Area Dem : nasce nel 2009 per volontà di Dario Franceschini dopo la sconfitta alle primarie contro Bersani. L’ex coordinatore della Margherita rappresenta i cattolici di sinistra, come i parlamentari Bruno Astorre (segretario regionale Pd Lazio), Alberto Losacco (commissario Pd Marche) e Anthony Barbagallo (segretario regionale Sicilia). Nel tempo aderiscono ad Area Dem anche deputati e senatori ex comunisti come Piero Fassino, Franco Mirabelli, Marina Sereni e l’ex ministra di origine diessina Roberta Pinotti.
Base riformista (nota come gli ex renziani): esordisce nel maggio 2019 per arginare le fuoriuscite dal partito verso Italia viva, che Renzi fonderà pochi mesi dopo. È capitanata da Lorenzo Guerini e conta tra le sue file i deputati Antonella Forattini, Andrea Rossi, Luciano D’Alfonso, Mauro Laus, Nicola Carè e i senatori Alessandro Alfieri, Simona Malpezzi, Alfredo Bazoli, Dario Parrini, Daniele Manca e Nicola Irto.
26 febbraio: o si svolta o si muore
I separati in casa ora devono scegliere il nuovo segretario in una sfida che sta rimescolando le correnti. Gli autocandidati sono quattro.
Stefano Bonaccini , 56 anni, da sempre nel Pd, una carriera politica costruita sul territorio come assessore comunale poi consigliere regionale e due volte presidente dell’Emilia-Romagna. Con la sua rielezione nel gennaio 2020, facendo leva sulla buona Sanità e la tenuta del sistema produttivo in anni di crisi, riesce ad arginare una avanzata del centrodestra a trazione salviniana che sembra inarrestabile. Nella corsa alle primarie compatta Base riformista, la maggioranza di sindaci e governatori del Pd, più sostenitori come Deborah Serracchiani e Graziano Delrio. È appoggiato anche da una parte di Area Dem come Fassino, la vicepresidente del Parlamento europeo Pina Picierno, quel che resta dei Giovani turchi, i lettiani Marco Meloni e Anna Ascani, e la minicorrente di Brando Benifei, capodelegazione al Parlamento europeo.
Elly Schlein , 37 anni, tessera del Pd nel 2013, lasciata a maggio 2015 in contrasto con Renzi, ripresa il 12 dicembre 2022 dopo la candidatura alle primarie. È promotrice della campagna di mobilitazione nazionale OccupyPd dopo i 101 traditori di Prodi al Quirinale nel 2013. Entra nel Parlamento Ue nel 2014, dove non si ricandida per aspettare le Regionali del gennaio 2020: eletta, ma non decisiva per la vittoria di Bonaccini perché la sua lista prende solo il 3,8%. Si dimette da consigliera subito dopo per diventare vicepresidente di Bonaccini, carica che lascia per diventare deputata nelle elezioni del settembre 2022. Tra i temi forti ambiente, immigrazione, diritti civili e voto online. Nella corsa alle primarie è sostenuta dalla parte di Area Dem vicina a Franceschini, da esponenti di spicco dei Dems come Andrea Orlando e Peppe Provenzano, dagli zingarettiani di Prossima e dal lettiano Francesco Boccia. Si è potuta candidare perché l’Assemblea nazionale del Pd cambia l’articolo 12 dello Statuto che prevedeva che solo gli iscritti si potessero presentare.
Paola De Micheli , 49 anni, consigliera comunale e assessora dalla fine degli anni Novanta, poi 4 volte deputata, 2 volte sottosegretaria, Commissaria al sisma e ministra delle Infrastrutture nel Conte II. Nel 2013 appoggia Cuperlo attaccando duramente Renzi sulla vicenda dei voti mancati a Prodi per il Quirinale. Nel 2019 coordina gli eventi di Piazza Grande ai tempi della campagna a segretario dem di Zingaretti, di cui diventa poi vice. Dal 2016 al 2018 è presidente della Lega Pallavolo Serie A. La sostiene un gruppo di lettiani come Vito Defilippo e l’ex segretario provinciale di Genova Alberto Pandolfo.
Gianni Cuperlo, 61 anni, segretario nazionale della Fgci nel 1988, consigliere per la comunicazione di D’Alema premier nel 1999, 4 volte parlamentare e ancora in carica. Alle primarie del 2013 prende il 18,2% contro il 67,6% di Renzi e diventa presidente del Pd per un mese per poi dimettersi. Lo sostengono il senatore Andrea Giorgis e Barbara Pollastrini.
Come si vota
Le primarie si compongono di due fasi. La prima è riservata agli iscritti che votano dal 3 al 12 febbraio nei circoli, e da dove usciranno i due candidati con più voti. La seconda sarà il 26 febbraio con il voto aperto a tutti i cittadini. Per la prima volta potranno votare online gli italiani residenti all’estero, i fuori sede, i malati e i disabili. Da sempre chi vince la prima tornata vince anche la seconda. Ma la forza del nuovo segretario/a dipenderà dall’affluenza ai gazebo: passata dai 3,5 milioni del 2007 per Veltroni a 1,6 del 2019 per Zingaretti. Se diminuiscono ancora, sarà complicato adempiere al mandato, che è quello di riportare voti a un partito al minimo storico, e castigato proprio per le sue guerre intestine.
Pd
di Concetto Vecchio
la Repubblica
«Mi chiamo Wladimiro, nel nome c’è il mio destino. Sono cresciuto in una famiglia comunista. Papà era minatore, a Marcinelle, poi tornò al paese, a Mendicino, in Calabria, e trovò nella sede del partito le risposte alle domande che lo tormentavano». Wladimiro Parise, 50 anni, netturbino a Montalto Uffugo, operaio dirigente del Pd. Dice: «Sono ancora indeciso tra Elly Schlein e Gianni Cuperlo, ma è davvero l’ultima opportunità che do a un mondo a cui ho regalato l’anima e che da troppo tempo si è dimenticato di quelli come noi: i moderni proletari».
Quelli come Parise sono mosche bianche nel Partito democratico. In tutto il Sud come lui ve ne sono appena altri due. Tre quadri che provengono dalla classe operaia. Lo ha scoperto il responsabile organizzazione del Pd nel Sud e isole, Eugenio Marino. Voleva capire da chi era formata la classe dirigente nelle regioni su cui ha giurisdizione: Abruzzo, Molise, Basilicata, Puglia, Campania, Calabria, Sicilia, Sardegna. Non c’era una banca dati. Ha chiesto i dati, titolo di studio e professione, dei 1969 dirigenti che ricoprono una qualche responsabilità: gli hanno risposto in 1026, il 52,1 per cento. Una quota comunque sufficiente per fotografare una tendenza.
Cosa è venuto fuori? Il 75 per cento ha la laurea. Quasi uno su cinque è avvocato. «Vi è una sotto- rappresentanza dei lavoratori manuali talmente accentuata da configurare quasi una rimozione. Non esistono, di fatto, dirigenti, o parlamentari, locali che svolgano lavori manuali quali muratori o manovali in genere. Eppure il lavoro fatto con le mani non è scomparso», chiosa Marino. Il compagno Wladimiro per cinque anni, dal 2017 al 2022, è stato segretario della sezione di Casali del Manco, quasi diecimila abitanti, a un tiro di schioppo da Cosenza. «Non mi sono ricandidato. E dopo di me è arrivato un avvocato. Un’ottima persona. Ma il Pd si è imborghesito», dice senza mezzi termini. «Tra i miei colleghi e amici in tanti da ragazzi votavano Pci o Psi, ora sostituti da Cinqustelle e destra. La nostra sezione è di proprietà, ma è quasi sempre vuota. Mio padre ci trovò i libri che non aveva avuto a casa, lasciò la scuola dopo la quinta elementare. In sezione si studiavano i problemi, e sitrovavano le soluzioni. Anche il tesseramento in larga parte è un affare di famiglia. Si fanno tot tessere tra i parenti per contare, e magari poi esprimere il figlio come successore».
Parise fa parte dell’assemblea regionale ed è membro della segreteria di Casali del Manco. È ascoltato? «Sì, sono molto rispettato. Ma io mangio pane e politica sin da bambino».
Gli operai però non votano quasi più per il Pd, che è diventato il partito di quelli che ce l’hanno fatta. Ci sono fior di ricerche a dimostrarlo. «Infatti non li trovi nelle nostre riunioni di dirigenti», dice Marino. Anche lui è calabrese, di Crotone. Ha 50 anni. Ma la classe operaia, seppur mutata, non è scomparsa, potrebbe rappresentare un giacimento. «A Villa San Giovanni i portuali vengono alle manifestazioni di partito, e a Melfi i metalmeccanici, ma meno di quanti me ne aspetterei. Perché sono sottorappresentati? Il partito fatica a formarli come dirigenza, non funge più da scuola. L’operaio non va avanti. L’incontro non avviene più».
Non c’è neanche più la generazione di Emanuele Macaluso, o di Giuseppe Di Vittorio, maestri di politica forgiati nelle lotte dei braccianti. Figure che univano visione e realismo, e sapevano che la fatica, nella polvere del Meridione, doveva essere quotidiana. Era un lavoro umile. «Le scuole politiche non si usano più, erano un nostro punto di forza» sospira Parise. «Oggi i nostri dirigenti – ragiona Marino – non somigliano ai blocchi sociali che vogliono rappresentare. La rimozione di interi pezzi di società dalla vita del partito è il frutto avvelenato del progressivo disinvestimento nella formazione delle classi dirigenti». «Così molti non votano nemmeno più», dice dal suo osservatorio Parise.
«La gente si è disinnamorata della politica», osserva Elisabetta Loi, 40 anni, vicesindaco di Pula, in Sardegna. Ex operaia da poco. È una dei tre. Ma proprio di recente è stata promossa in amministrazione nel vivaio dove lavora da anni. Fa parte dell’assemblea regionale del Pd. «Non si riesce più come una volta a mobilitare le persone. E nemmeno a comunicare. Siamo invece bravi a chiuderci tra noi, a ragionare, ad analizzare, dimenticandoci spesso di rapportarci con la gente». Nemmeno Loi ha scelto per chi votare alle primarie. «Vediamo», risponde con diplomazia.
Marino il suo studio l’ha mandato al segretario Enrico Letta, ai due vice, Giuseppe Provenzano ed Irene Tinagli, e ai quattro candidati che corrono per la segreteria: Elly Schlein, Stefano Bonaccini, Gianni Cuperlo, Paola De Micheli. «Serve aprire una riflessione», è il suo auspicio. E se fosse troppo tardi? Il compagno Parise soffre. «Questa nostra terra vide la prima donna sindaca nel Sud, Rita Pisano a Pedace. Qui venne nascosto, durante la guerra, Piero Ingrao, era uno di noi Fausto Gullo, il padre della riforma agraria. E mio papà mi chiamò come Lenin. Eravamo rossi. Oggi gli ultimi guardano a destra».
Concetto Vecchio
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