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*Parole in libertà*
di Vincenzo D’Anna*
Non sono pochi i problemi che si parano innanzi al nuovo governo. A cominciare dalla costante verifica tra quello che afferma e quello che realizza, in un contesto generale di difficoltà e di crisi economica nella quale è precipitata l’intera Europa alle prese con un’inflazione che galoppa fino alle due cifre percentuali bruciando, in un batter d’occhio, i positivi riflessi della ripresa produttiva post Covid. E’ noto a tutti che il Belpaese non è autosufficiente dal punto di vista energetico oltre che gravato da una mole di debito pubblico che consuma, ogni anno, interessi passivi per quasi 90 miliardi. Una cifra che rappresenta la quarta voce di spesa del bilancio pubblico, subito dopo pensioni, impiego e sanità. I titoli di Stato che emettiamo, per finanziare la spesa, sono classificati, dalle agenzie di rating, come prossimi alla carta straccia e senza il sostegno della Banca Centrale Europea tutti i principali istituti di credito di casa nostra sarebbero già andati in default. Una situazione pregressa di per se stessa poco rassicurante, che l’esecutivo Meloni ha ereditato dalle precedenti gestioni e con la quale si dovranno fare i conti. Tuttavia l’andazzo di spendere denaro che non si ha, accrescendo la mole di debito statale, continua imperterrito confidando nel solito italico “stellone” e nella divina provvidenza che ci consente di vendere i nostri titoli per pagare stipendi e sussidi. Insomma: chiunque abbia occupato la poltrona di primo ministro in passato ha dovuto fare i conti con queste oggettive difficoltà e con una serie di disfunzioni e disservizi ormai cronici in molti ambiti della pubblica amministrazione, con un modello di organizzazione farraginoso ed una burocrazia bolsa e ridondante oltre che inefficiente. Ne consegue che per uscire fuori da questo marasma occorra un’effettiva riforma delle istituzioni che si orienti verso un modello nel quale ci sia meno Stato e più mercato. Il fronte delle difficoltà innanzi al quale si imbatte chi governa, ha una duplice veste: quella della gestione ordinaria e quotidiana dei problemi e quella di una più vasta rivoluzione del sistema che necessita di modifiche che riguardino la riorganizzazione stessa dello Stato, delle istituzioni parlamentari, delle forze politiche e del sistema elettorale nonché della Carta Costituzionale. Per fare tutto questo, tuttavia, non basta una buona ed ordinaria azione di governo ma una classe dirigenziale che operi guardando anche al futuro ed all’azione straordinaria che c’è da realizzare per recuperare i ritardi e le omissioni che la politica del piccolo cabotaggio e del tirare a campare ha accumulato nel corso del tempo. Guardandosi attorno, senza pregiudizi e senza faziosità, nel panorama che offre attualmente la scena tricolore, non si scorgono statisti in grado di soddisfare la duplice necessità del buon governo e delle riforme. Per dirla in breve: gli attuali protagonisti hanno molto più da condividere con le qualità e la visione politica di un Arnaldo Forlani che non con quelle di un Alcide De Gasperi. Ma navigare ed affrontare i flutti tempestosi e le insidie del mare è necessario ed occorre accontentarsi di quel che passa il convento, di quello di cui si dispone e non di quello che effettivamente occorrerebbe. Ecco perché vanno incoraggiati i propositi dei riformisti e quelli del governo laddove si riscontri l’anelito di un vero cambiamento. Poiché l’ottimo è nemico del bene, bisogna cambiare quel che è possibile cambiare e che è concretamente alla portata di questa classe dirigente, lasciando ai posteri una realtà (politica, economica ed istituzionale) meno anacronistica e disastrata. Questo però presuppone che si instauri un metodo di interlocuzione anche tra maggioranza ed opposizione, che cessi, cioè, ogni strumentalità nell’agire degli uni e degli altri, che il governo di destra eviti lo sciovinismo e che le opposizioni siano costruttive, oltre che puntuali, nella critica e nel controllo. Insomma: c’è bisogno di un modello anglosassone nel quale la dialettica prevalga sugli odi preconcetti e sul muro contro muro. Ma non basta. Occorre infatti anche un ceto politico che recuperi compostezza nell’uso delle parole e se possibile eviti le gaffe che si possono addebitare ad alcuni membri dell’esecutivo. A cominciare dall’approssimata facondia verbale. Il sottosegretario alla Sanità mette infatti in discussione l’efficacia della campagna vaccinale condotta dal Ministero; il ministro dell’Istruzione tesse l’elogio dell’umiliazione come metodo educativo, al presidente della Camera il quale si avventura in dichiarazioni contro la parità di genere e la legge sull’aborto, pur essendo, egli, super partes. Neofiti che dimostrano quanto approssimative e partitocratiche siano state talune nomine. Certo, parole in libertà. Ma ne uccide più la lingua che la spada!!
*già parlamentare
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