*La cicuta di Socrate* di Vincenzo D’Anna*

La casta in toga si autoassolve. Attraverso una serie di circolari adottate dal procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi, il “caso Palamara” si è risolto in un’amnistia generalizzata: esclusi i pochi capri espiatori, nessun magistrato è stato sanzionato per quanto emerso dallo scandalo. Lo rende noto il Foglio, il giornale di Giuliano Ferrara, nell’incuria generale. La soluzione era più che prevedibile: i lupi non mangiano altri lupi. Chi detiene il potere assoluto, quello che non deve rispondere a nessuno anche innanzi agli abusi più palesi, se la canta e se la suona come meglio crede. Impunemente. Se un politico avesse orientato – utilizzando un criterio di contiguità al proprio interesse di partito – le scelte dei vertici di un ente pubblico, quali sono le Procure della Repubblica, sarebbe stato messo prima alla gogna, poi indagato e infine rinviato a giudizio senza remissione di peccato. La richiesta di dimissioni dall’incarico sarebbe partita all’istante dalle colonne dei vari quotidiani che campano di denunce scandalistiche e sarebbero fioccate le interrogazioni parlamentari. In sintesi, tornando a noi: il procuratore Salvi, anch’esso presente nelle intercettaIoni di Palamara, laddove lo si sente chiedere d’essere tenuto in conto per taluni questioni che lo riguardavano, con una serie di circolari, ha derubricato come non passibili di provvedimento disciplinare gli interventi richiesti a Palamara per trarre varie utilità o progressioni di carriera. Se solo pensiamo al reato di traffico d’influenza che, su sollecitazione degli stessi magistrati, il Parlamento ha varato sotto forma di legge dello Stato per punire le interferenze sui pubblici ufficiali per chiedere favori, ci rendiamo conto di quanta impudente sfacciataggine si celi nel modus operandi del procuratore generale della Cassazione il quale ha derubricato tali “interventi” come ininfluenti. E cosa dire del famoso reato di scambio di voti che sanziona i politici che chiedono favori elettorali in cambio di varie promesse di elargizione di benefici ai cittadini? Anche in questo caso ci sarebbe da chiedersi perché uguale reato non debba essere previsto per i maneggi richiesti a Palamara ai fini di ottenere vantaggi di carriera, oppure comodi trasferimenti in sedi di distretti giudiziari più confacenti alle esigenze del magistrato di turno. Tuttavia quello che vale per i comuni mortali, quelli che spesso sono vittime del cretinismo burocratico che regna in tutti i gangli dello Stato, non vale per per quanti amministrano la giustizia. L’espressione che campeggia in ogni tribunale “la legge è uguale per tutti”, suona beffarda per i tanti che incappano nelle maglie di una giustizia lenta e costosa, nelle ipotesi di reato imbastite da pubblici ministeri senza uno straccio di prove. Sono questi gli stessi giudici che si sono inventati il reato di concorso esterno in associazione malavitosa che prevede il famoso articolo 7 secondo il quale la sola aleatoria ipotesi di sussistenza del reato fa scattare gli arresti per il sospettato che giacerà

in galera in attesa di giudizio. E cosa altro è stato l’affare Palamara se non un’associazione di magistrati che concorrevano per accaparrarsi posti di vertici nelle Procure più ambite? Dove siano finiti i moralisti e gli editorialisti che fustigano la politica ogni santo giorno, non è dato sapere. Chi campa con le veline che i magistrati passano ai giornali, per avviare la macchina del fango, non ha alcun interesse oggi a commentare e denunciare alla pubblica opinione questo andazzo. Non ci saranno girotondi, adunate di piazza, cartelli indignati dei soliti noti e le rampogne dei maître a penser nel ruolo di vestali della moralità pubblica. Un coacervo di interessi palesi o sottaciuti funge da barriera impenetrabile per la povera gente. Anche per quegli imbecillì (etimologicamente: quelli senza nerbo caratteriale) che si sono astenuti al referendum appena celebrato sulla giustizia. In una nazione nella quale negli ultimi trenta anni chi è assurdo al potere lo ha sostanzialmente fatto vestendo i panni del moralista, del contestatore del sistema politico ed istituzionale e del suo carico di ingiustizie e di corruzione, l’epilogo del caso Palamara è veramente triste e bugiardo. Si tratta di prendere atto che in Italia l’invocata moralità riguardi sempre gli altri. Nei dialoghi Platone ci racconta di come Socrate accettò di morire, ancorché ingiustamente accusato, affinché la legge fosse comunque rispettata. Bevve il veleno, la cicuta, adempiendo così al suo obbligo verso la sentenza. Alzi la mano chi oggi berrebbe la mortale pozione per una sentenza emessa da questo tipo di magistrati.

 

*già parlamentare