Pulci di notte di Stefano Lorenzetto

Libero dedica il titolone di prima pagina («La Resistenza alla frutta. Comiche partigiane») e due pagine interne al manifesto stampato dall’Anpi in occasione del 25 aprile: alle finestre di una casa sono appesi due tricolori a bande orizzontali rosse, bianche e verdi (partendo dall’alto). La bandiera dell’Ungheria anziché quella italiana. «Che figuraccia» si legge nel titolo dell’articolo firmato da Giovanni Sallusti. Il commentatore però non si accorge, come molti suoi colleghi di altri giornali, che anche il logo dell’Associazione nazionale partigiani d’Italia – fondata nel 1945, mica ieri – è da sempre sbagliato. Vi compaiono infatti due tricolori, il primo dei quali è capovolto specularmente: ha le bande orizzontali rossa, bianca e verde (partendo da sinistra), anziché verde, bianca e rossa. Lo sfondone passa inosservato, nonostante il simbolo errato appaia sia sul poster incriminato sia su un altro manifesto del 2019, entrambi riprodotti da Libero.

Titolo dalla Repubblica: «Carbone, stop da settembre / Per il petrolio strada in salita». Bei tempi quando scorreva nelle tubature.

Stando al Corriere della Sera, Massimo Cacciari ha 73 anni (scheda «Il profilo» a corredo di un articolo di Tommaso Labate). Non è così: sta per compierne 78, essendo nato il 5 giugno 1944. Nella stessa scheda si legge: «È stato sindaco di Venezia dal 1993 al 2000». Giusto. Ma lo è stato anche dal 2005 al 2010.

Domenico Quirico sulla Stampa parla del Patto di Monaco: «Da quel settembre 1928 in cui l’inglese Chamberlain…». L’accordo firmato da Neville Chamberlain, Adolf Hitler, Benito Mussolini e Édouard Daladier è sì di settembre, ma del 1938. L’errore apparso nell’edizione cartacea è stato opportunamente corretto in quella digitale. Tre giorni dopo, Quirico concede un bis cronologico: «Nel 1945 i nonni dei soldati russi che hanno assediato Kiev…». Forse erano i bisnonni.

Secondo quanto riferisce Giada Oricchio sul sito del Tempo, Giorgio Cremaschi, ex leader della Fiom, il sindacato dei metalmeccanici della Cgil, intervenendo sulla guerra in Ucraina a L’aria che tira (La7) ha etichettato «le parole in conferenza stampa del presidente del Consiglio, Mario Draghi (“preferiamo la pace o i condizionatori accesi?”) come “orribili, riecheggiano il burro e i cannoni di Benito Mussolini”». Ora, è vero che l’espressione fu pronunciata dal Duce durante un discorso tenuto a Belluno il 24 settembre 1938: «Circolarono allora delle alternative assolutamente ridicole: burro o cannoni. Noi abbiamo scelto che cosa? (“Cannoni!” urla la folla)», riferì l’indomani il Corriere della Sera in prima pagina. Ma il capo del fascismo, come spesso gli capitava, l’aveva copiata. A usarla per primo fu William Jennings Bryan, 41º segretario di Stato degli Usa, che già nel 1916 pose il dilemma «cannoni o burro». Vent’anni dopo vi ricorse Hermann Goering, presidente del Reichstag, come documentato da Cristano Ridòmi sullo stesso Corriere: «Goering l’ha detto chiaramente: abbiate pazienza, non c’è da scegliere, o burro o cannoni» (23 novembre 1936, pagina 3). In ogni caso, Cremaschi ignora che burro e cannoni sono associati alla curva di trasformazione che definisce la frontiera delle possibilità produttive, concetto del quale si parla da ben prima dell’avvento di Mussolini e tuttora presente nel primo capitolo di ogni manuale di economia politica. Fra l’altro, sono parole che anche i progressisti hanno spesso usato. Per esempio Luigi Spaventa, economista di sinistra, che fu deputato, ministro e presidente della Consob: «Si insegnava un tempo sui libri di testo che non si può avere più burro senza avere meno cannoni» («Tra burro e cannoni», commento sulla Repubblica, 27 novembre 2004).

Titolo a tutta pagina sulla Verità: «I russi si ammassano sul Donbasse». Arrivano i nostri, con Totò.

Titolo da Verità & Affari: «Intesa. Per Messin, i risparmi possono aiutare le imprese». Deve trattarsi dell’amministratore delegato di Intes Sanpaol.

Nella sua rubrica L’ago della bilancia, sul Corriere della Sera, Sergio Romano infila la seguente frase: «Lo sapevano negli anni 50 molti protagonisti e i loro eredi: Alcide De Gasperi, Giuseppe Saragat e Carlo Sforza in Italia, Léon Blum, Jean Monnet e René Pleven in Francia, i due Guglielmi, Bismarck e Konrad Adenauer in Germania, Vittoria e persino Winston Churchill in Gran Bretagna». Dovendo presumere che l’ex ambasciatore Romano stia parlando degli anni Cinquanta del secolo scorso, molti dei personaggi citati non erano eredi, bensì antenati, predecessori.

Silvia Pieraccini sul Sole 24 Ore: «La Bologna-Firenze, una dei nodi più trafficati del Paese». Il gender dilaga. Nell’ultimo capoverso: «Quattro milioni di metri cubi serviranno per costruire la (futura) area di servizio Bellosguardo e la (futura) terza corsia sull’A11». Se serviranno (futuro), l’area da costruire non potrà che essere futura, e così pure la corsia.

Travolgente incipit di un articolo dell’Osservatore Romano: «Le cronache di tutti i giorni sono piene di tragedie: da quelle grandi, come le Torri gemelle dell’11 settembre 2001, ad aerei che cadono provocando centinaia di morti, ai ragazzi morti nella calca in una discoteca, ai morti sotto il crollo di un ponte, o sotto un albero caduto… Per non parlare della tragica attualità della guerra in corso in Ucraina». Anziché il signore di La Palisse, lo firma il reggente della Prefettura della Casa pontificia, Leonardo Sapienza. Si comincia a comprendere perché di questo monsignore molti in Vaticano dicano che non sembra all’altezza né del suo nome né del suo cognome.

Sommario di Domani a corredo di un testo della scrittrice Ginevra Lamberti: «La ragazza. “Non ha ricordi del suo ultimo pasto, gli viene fatto segno di entrare”». Premesso che il pronome personale femminile di terza persona singolare resta le, e non gli, il virgolettato non corrisponde a quanto si legge nell’articolo.

SL

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