Giornali

di Marco Imarisio

Corriere della Sera

Succedeva tanti, troppi anni fa. Quasi ogni notte, dopo aver chiuso la prima edizione, il vicedirettore chiamava nel suo ufficio al primo piano alcuni giovani redattori. Sul tavolo aveva i loro articoli, appena andati in stampa. Molti passaggi erano già sottolineati con un evidenziatore giallo. Erano quelli di troppo. «Asciuga, asciuga». Accompagnava la frase facendo un gesto con la mano destra, come se impugnasse un panno immaginario e lo stesse strofinando su una superficie bagnata. Fumando come una bestia, all’epoca si usava ancora così, raccontava delle sue prime esperienze, di come le cinque righe delle quali ci si innamora e mai si taglierebbe dal proprio pezzo non siano mai davvero così fondamentali. In un mestiere come questo, diceva, bisogna abituarsi a dare il giusto peso alle cose e alle persone. E soprattutto allenarsi alla disciplina di guardarle un po’ dall’alto. Perché il mondo andrà avanti sempre e comunque, anche senza le nostre cinque righe per noi così preziose.

Quanto amore per il giornalismo, in Carlo Verdelli. E che miracolo, vederlo arrivare ancora intatto fino a qui, fino a permeare di sé Acido (Feltrinelli), un libro che non è solo il riassunto di una vita passata a scrivere e far scrivere, a inventare nuove riviste e dirigere quotidiani, ma è soprattutto una dichiarazione di fede in questa professione. Nonostante le mille sigarette, le migliaia di chilometri, le notti non dormite, nonostante gli appuntamenti mancati, le ferite e i sensi di colpa perenni verso chi ti sta vicino. «Perché c’è dell’altro, molto altro, nel lavoro di giornalista. Per esempio, la voglia di aprire una porta, ogni volta come se fosse la prima, e non darsi pace finché non si è capito cosa c’è dietro, persone o storie che siano, senza trascurare alcun dettaglio, col dubbio permanente di aver tralasciato qualche elemento, con l’umiltà di ricominciare a cercarlo, e rovistare, buttare per aria le verità ufficiali, rompere scatole e le scatole a chiunque ci si trovi di fronte. A costo di essere brutali».

E come spiegare tutta questa passione, tutta questa urgenza e fatica, a quelli che sui social prosperano alzando il ditino, emettendo ogni giorno le loro sentenze inappellabili, augurandosi la scomparsa dei giornali, belli o brutti che siano, senza capire che sono i primi ad averne bisogno, senza avere mai provato quella sensazione di mettere in pagina e abbandonare un testo al suo destino, ben sapendo che l’indomani sarà tutto da rifare. Forse, le «cronache italiane anche brutali» di Acido possono aiutare a capire. Con il loro rigore, con le parole essenziali che lasciano parlare i fatti ma rivelano lo sforzo dell’autore, la sua ossessione di intarsiare, scavare, incastrare quella giusta nel posto in cui è bene che debba stare, e poi ogni volta ricominciare.

«Qualsiasi cosa ci sia dopo, il niente o Dio, è molto probabile che Enzo Tortora non riposi in pace». È l’attacco perfetto di un pezzo perfetto su «uno degli italiani più conosciuti e sfregiati», scritto nel 2013 a trent’anni dal suo arresto, una storia ancora attuale perché continua a gridare vendetta soprattutto agli uomini e poi appunto a Dio, la pietra miliare sulla quale è stata costruita una concezione fideistica non del giornalismo ma della magistratura che ha imperato per anni, con risultati sotto gli occhi di tutti. Non ci sono scoop, c’è solo un riavvolgere il nastro, ripercorrere ogni passo, ogni filo di quella vicenda ignobile, studiare e poi ancora studiare. E poi, solo quando l’hai fatta tua, raccontarla lucidando circostanze e dettagli ormai lontani nella memoria, per impedire che vadano persi.

La prima sezione parla di casi ormai chiusi, di persone diventate famose per quel che hanno fatto o subìto, la coppia dell’acido, il padre di Motta Visconti che sterminò la sua famiglia, la morte in diretta di Mauro Rostagno, altro esempio preclaro di indagini a tesi precotte, fino alla morte senza giustizia di Giuseppe Uva. Ognuna di esse è accompagnata da una chiosa finale e spesso amara, che testimonia la necessità di seguire le vicende fino all’ultimo, di annodare ogni filo per quanto possibile. Le ultime due, Anime nella corrente e Luoghi, raccontano vite meno note, oppure ormai dimenticate. Il racconto di Antonia che fu Antonio, «un essere ospitato in un corpo sbagliato», è una prova di quel che si diceva qui sopra, ogni storia vale la pena di essere raccontata, a patto di entrarci dentro, farla propria, «comincia presto per loro, i trans, la fatica del vivere elevata a potenza, specie se presto intuiscono di essere fuori posto». Vivere la sofferenza e la speranza delle persone, come fa Verdelli nel capitolo dedicato al bambino conteso tra due genitori che si odiano, lasciare che parlino al lettore attraverso chi scrive. Anche a costo di farsi del male, di provare rabbia e di portarsi dietro immagini brutte che non vanno mai via. Tutto, pur di fare un poco più contento il lettore, nessun altro. È la vita, è il mestiere, sono i giornali, compreso il «Corriere», dove Carlo è tornato dopo aver fatto il giro del mondo.

Proprio per questo, Acido non è per tutti. Non è adatto a quelli convinti che i confini dell’universo coincidano con i confini della propria testa, a quelli che l’opinione è tutto e i fatti appena un dettaglio, a chi ha scambiato una effimera fama televisiva o di cazzeggio social con l’essenza di questo mestiere. È un libro per quelli che ci credono ancora, per quelli che ci hanno creduto. Quanto tempo, e quanta vita, da quelle notti passate ad asciugare. Purtroppo, anche quanti addii. Non c’è più una di quelle giovani redattrici che aspettavano di farsi correggere i pezzi, a lei è dedicato un capitolo struggente, si chiamava Maria Grazia, il prossimo 19 novembre sono già vent’anni, e come sono passati in fretta. Non c’è più neppure Gian Piero Dell’Acqua, al quale il libro è dedicato. Era il caporedattore che tagliò a Carlo le sue cinque righe, il suo maestro, uno dei tanti militi ignoti delle redazioni che si distruggono di lavoro per gli altri, e senza di loro nessuno di noi sarebbe qui.

Ma leggendo Acido, si capisce che Verdelli lo rifarebbe ancora, il suo viaggio in questo mondo di matti che ancora si illudono di poter fermare il tempo, con quella formula desueta del visto si stampi. Ne è valsa la pena, ne vale ancora la pena. Perché ogni giorno c’è qualcosa da raccontare, c’è un titolo da sistemare. In questo mestiere che ci fa dannare ma vorremmo che non finisse mai c’è sempre una novità e una sfida nuova. Come può esserlo anche scrivere del libro che raccoglie e aggiorna i migliori articoli della persona che ti ha insegnato a scrivere.

Marco Imarisio

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