Gli oscuri giochi dietro al Quirinale
“Mi sono sentito a disagio nel toccare con mano le dinamiche della ricerca del consenso, costantemente anteposto alle finalità stesse dell’azione politica, sino all’irresponsabilità”.
Umberto Ambrosoli, intervistato dal “Corriere della Sera”, sabato 21 agosto
Chi sostiene l’ipotesi di una rielezione, sia pure a tempo, di Sergio Mattarella al Quirinale farebbe bene a riflettere sulla testimonianza di Umberto Ambrosoli sull’altra rielezione, quella di Giorgio Napolitano nell’aprile 2013, a cui egli partecipò come uno dei tre delegati della Lombardia (da candidato alla presidenza per il centrosinistra era stato sconfitto da Roberto Maroni). “Mi colpì quanto fosse enfatizzata deliberatamente una pressione enorme per spingere verso la decisione, in una condizione di irreale emergenza”, racconta il figlio dell’avvocato Giorgio Ambrosoli, assassinato l’11 luglio 1979 da un sicario di Michele Sindona. E aggiunge: “In piazza Montecitorio ci saranno state cinquanta persone, nei telegiornali sembravano migliaia, nessuno si preoccupò di raccontare davvero come stavano le cose, anzi quella tensione veniva gonfiata ad arte”. Otto anni dopo, gli eventi che seguirono quella “condizione di irreale emergenza” possono essere riletti con maggiore cognizione di causa. Con il Pd dilaniato dalle faide interne, la candidatura di Franco Marini sabotata, ma soprattutto quella di Romano Prodi affondata dai 101 (o più) franchi tiratori, tra i quali si sospettò numerosi fossero i sostenitori dell’arrembante Matteo Renzi. Il cui astro, dopo le dimissioni del segretario Pierluigi Bersani, toccò il punto più alto con la conquista del Nazareno e successivamente di Palazzo Chigi dopo la parentesi del governo Letta-Berlusconi: l’ennesimo governo di “larghe intese” per bloccare sul nascere la possibilità di un’alleanza fra i due partiti vincitori delle elezioni ex aequo, Pd e 5Stelle (che l’elezione di Stefano Rodotà al Colle avrebbe agevolato). Se anche un asse preordinato Napolitano-Renzi non è stato dimostrato, si può affermare che, nella sostanza, quell’improvvisa “innovazione” nella prassi costituzionale diede luogo a una serie di strappi successivi indirizzando il Paese verso soluzioni del tutto imprevedibili. “Una situazione assurda”, spiega Ambrosoli, “perché non ci si piega a una piazza che peraltro non esiste, né la si prende come alibi, soprattutto nel caso di elezione del presidente della Repubblica, affidata secondo la Costituzione non certo al voto popolare”. Ora, di un piano a bocce ferme, per trattenere Mattarella sul Colle, e per confermare Mario Draghi premier fino al voto della primavera 2023, si parla da mesi sulla cosiddetta grande stampa. Come se fosse la cosa più naturale di questo mondo. Infatti non lo è, come non lo fu nel 2013. A maggior ragione se quella stessa emergenza, allora “gonfiata ad arte”, si prestasse tra qualche mese a essere invocata alla luce di una pandemia non ancora sconfitta. Ma anche, per esempio, nell’eventualità di una vaccinazione resa obbligatoria dal governo, ipotesi non più tanto irrealistica a leggere quegli stessi giornali. Oltre che per il cognome che porta, e per la sua riconosciuta autorevolezza e serietà, le parole di Ambrosoli vanno prese molto sul serio, come quelle di un testimone diretto. Occhio dunque, non si gioca con le regole della democrazia.
Perché il Monte dei Paschi può diventare una “banca pubblica”
In Toscana. Vendere a Unicredit o no?
di Simone Gasperin | 22 AGOSTO 2021
Il destino di Monte dei Paschi di Siena appare ormai segnato. La quinta banca più grande del Paese per valore degli attivi scomparirà dalla classifica dei principali istituti bancari italiani. L’ipotesi standalone, di sopravvivenza autonoma con controllo pubblico, sarebbe pregiudicata per motivi fattuali e teorici.
Il primo presupponel’insolvibilità strutturale di Mps, di cui lo Stato non dovrebbe farsi carico in eterno. Eppure, durante la presentazione della seconda trimestrale, il management della banca ha delineato uno scenario non così scoraggiante. Dal punto di vista del conto economico, si è registrato un altro utile netto trimestrale positivo, corrispondente a 202 milioni di euro cumulati nel 2021, basato sul risultato operativo netto semestrale migliore degli ultimi 5 anni. Migliora anche il rapporto tra il patrimonio di migliore qualità e le attività ponderate per il rischio (il CET1), cresciuto a 10,6%, dal 9,9% di fine 2020. Ma ancora più interessanti sono le affermazioni del Cfo Giuseppe Sica, il quale ha ricordato come sulla base di un aumento di capitale da 2,5 miliardi, previsto dal piano strategico dello scorso gennaio, lo scenario avverso al 2023 coerente con gli stress test dell’Eba porterebbe il CET1 al 6,6% e non a -0,1%.
Se Montepaschi fosse proiettata verso la sostenibilità finanziaria, verrebbe meno una prima ragione di fondo per la privatizzazione con incorporazione in un altro soggetto. Ma qui interviene un’altra, ben più radicata convinzione: lo Stato non dovrebbe essere proprietario e gestore di attività bancarie commerciali. Un ragionamento che trova però confutazione nella storia dello sviluppo economico del nostro Paese.
“L’Italia è stata definita da uno scrittore di cose economiche come il paese dei salvataggi bancari”, così esordiva Donato Menichella in un rapporto del 1944 predisposto per le autorità Alleate. Il futuro governatore della Banca d’Italia spiegava come il susseguirsi delle crisi bancarie avesse trovato definitiva risoluzione solo con la creazione dell’Iri nel 1933 e con la conseguente legge bancaria (R.D.L. 375/36). Col salvataggio delle tre principali banche del Paese – Banca Commerciale Italiana, Credito Italiano e Banco di Roma – l’Iri assunse la proprietà delle imprese da esse controllate e praticò la separazione tra credito commerciale e finanziamento industriale.
In seguito, la riforma bancaria del 1936, scritta da Menichella e dai suoi collaboratori all’Iri, estese all’intero sistema bancario il principio della specializzazione funzionale (commerciale e industriale), temporale (breve periodo e medio-lungo periodo), settoriale e territoriale tra i diversi istituti finanziari. L’articolo 1 della nuova legge bancaria definiva l’esercizio del credito come una funzione “di interesse pubblico”, da orientare allo sviluppo economico del Paese, come la intese la nuova classe dirigente del secondo dopoguerra.
Il sistema bancario che caratterizzò gli anni del miracolo economico rimase prevalentemente pubblico anche dal punto di vista degli assetti proprietari. Ancora nel 1990, quando l’Italia si apprestava a “sorpassare” il Regno Unito in termini di reddito pro capite, il 34,8% del totale dei prestiti era erogato dai cosiddetti istituti di credito speciale (Imi, Crediop, ecc.), enti pubblici che raccoglievano risparmio sotto forma di obbligazioni e finanziavano attività industriali a medio-lungo termine. La parte restante interessava il credito commerciale di breve periodo a famiglie e imprese, diviso a sua volta in: banche di interesse nazionale controllate dall’Iri (13,6%); istituti di diritto pubblico, fra cui Monte dei Paschi di Siena (18,7%); banche popolari, casse rurali, casse di risparmio e banche cooperative (42,2%). Solo il rimanente 25,4% veniva da banche interamente private.
In seguito, in meno di un decennio, il sistema che durava dal 1936 venne interamente stravolto. Si recepì il principio delle direttive comunitarie – fra tutte la 77/780/CEE – sulla natura “di impresa” degli enti creditizi. Con la legge Amato-Carli del 1990 gli istituti di credito di diritto pubblico vennero trasformati in SpA, predisponendone la graduale privatizzazione. Anche l’Iri smobilizzò le sue banche fra il 1989 e il 1994. Infine, con il Testo Unico Bancario del 1993 si sancì la fine della specializzazione bancaria e il ritorno della banca universale. I risultati di questa profonda trasformazione sono stati positivi per i nuovi azionisti privati, ma lo stesso non si può dire per la stabilità del sistema bancario, come si è potuto constatare negli ultimi anni.
Nel resto del mondo le banche commerciali a partecipazione statale esistono tutt’ora e spesso ricoprono un ruolo pubblico fondamentale. Come il sistema delle Landesbanken tedesche che, tramite lo status di tripla A della banca pubblica d’investimento KfW (la quale si finanzia per mezzo di obbligazioni con garanzia dello Stato), ottiene liquidità a basso costo con cui si finanziano le imprese, le quali in questo modo beneficiano di un vantaggio competitivo in termini di accesso al credito.
Una Mps autonoma e con una missione pubblica di politica economica, pur sempre all’interno dei vincoli regolamentari e di mercato, potrebbe impegnarsi a finanziare le imprese che intendono investire in tecnologie e processi a impatto ambientale positivo. Inoltre, una Mps pubblica che guardasse al Mezzogiorno (dove si trovano circa un quarto delle sue filiali) potrebbe controbilanciare il predominio settentrionale del sistema bancario italiano.
Schumpeter definiva il banchiere come l’eforo del capitalismo, per il ruolo “da guardiano” nel finanziamento delle attività produttive. Non a caso gli embrioni di un capitalismo commerciale nacquero in Italia, assieme alle prime forme moderne di banca. Così come nel XV secolo Monte dei Paschi ne fu il precursore, oggi potrebbe diventare il campo di sperimentazione di un nuovo modello di banca pubblica.
“Fondi neri per 45 milioni” Nella lista anche l’Atalanta
Per i pm i fratelli Ronzoni, arrestati a maggio, esportavano valuta tramite otto “scatole” estere. Tra i clienti 104 società. Il club: “Nessun rapporto”
di Stefano Vergine | 22 AGOSTO 2021
Il file si chiama “conti” e raccoglie una lista di 104 società italiane. Un elenco di imprese sospettate di aver usato per anni un sistema finalizzato a creare montagne di nero all’estero. Quando gli uomini dell’Agenzia delle Entrate hanno trovato la lista, si sono subito resi conto di essere di fronte a una miniera di informazioni. Alcune aziende hanno nomi importanti, e l’email che accompagna l’elenco è piuttosto esplicita: “Ecco il file aggiornato anche con i nuovi clienti BSI”, sigla che sta per Banca Svizzera Italiana. Era il luglio del 2014 e i funzionari dell’Agenzia stavano perquisendo la sede milanese della Luga Audit & Consulting Srl, studio commercialistico intestato a Oscar Ronzoni, professionista di Como con residenza a Lugano. In silenzio, negli anni, il materiale sequestrato è passato al vaglio del nucleo di polizia economico finanziaria della Gdf di Milano, che sotto il coordinamento del pm Paolo Storari è recentemente passato all’azione: Oscar Ronzoni, insieme al fratello Luca, è stato arrestato nel maggio scorso per riciclaggio. Ha scritto il gip, Domenico Santoro, disponendo il carcere preventivo per i due: i fratelli Ronzoni hanno compiuto “operazioni di trasferimento di somme di denaro al fine di non consentire l’identificazione della provenienza attraverso movimentazioni estero su estero…. sino alla retrocessione in Italia, anche in contanti, e all’estero su relazioni bancarie offshore, per un ammontare complessivo di oltre 18 milioni di euro”. La cifra riguarda però solo pochissime delle 104 società riportate nell’elenco sequestrato ai fratelli Ronzoni. Segno che in futuro potrebbero esserci altre sorprese.
Stando alle 215 pagine di ordinanza di custodia cautelare, i due commercialisti comaschi hanno creato una sorta di fabbrica del riciclaggio a cavallo tra l’Italia e la Svizzera. Una versione in scala provinciale dello studio Mossack&Fonseca, quello venuto alla ribalta con i Panama Papers, ma capace di offrire ai propri clienti molti più servizi. Sistemi chiavi in mano. Oltre alla gestione di società offshore, i Ronzoni avrebbero infatti garantito anche l’esportazione di valuta all’estero grazie a otto società-veicolo europee. Otto scatole usate per emettere fatture false. In questo modo le imprese italiane potevano da un lato abbattere gli utili in patria, dall’altro crearsi un tesoretto nero fuori confine. Per il problema principale (come fare poi a usare il nero parcheggiato all’estero) i commercialisti italo-svizzeri, secondo gli inquirenti, avevano trovato la soluzione.
Ai clienti veniva offerta una doppia opzione, sostiene la Procura di Milano. Consegna del denaro in Italia, tramite spalloni, oppure investimento del tesoretto in Perseus, un fondo domiciliato presso la Amber Bank & Trust di Nassau, Bahamas. “Appare innegabile, alla luce delle emergenze indiziarie descritte, che i fratelli Ronzoni da quasi un decennio esercitino, in maniera che non si ha tema di definire professionale, l’attività di riciclaggio. Questa si fonda, per come si è avuto modo di apprezzare, su complicati intrecci e legami tra società risiedenti all’estero, apparentemente legate da rapporti contrattuali, rivelatisi meri schermi formali diretti a consentire vorticosi giri di fatturazioni per operazioni inesistenti e conseguenti restituzioni delle somme ai clienti”, ha scritto il gip Santoro disponendo l’arresto per i due lo scorso maggio.
In carcere i Ronzoni sono finiti per presunte operazioni di riciclaggio organizzate a beneficio di società. Come ad esempio la Italveco Srl, a proposito della quale il gip scrive: “È plausibile ipotizzare che gli importi pagati da Italveco… possano trovare giustificazione in una dazione corruttiva finalizzata ad avvantaggiare Italveco nell’aggiudicazione di un’importante commessa legata alla costruzione di un impianto di bioetanolo in Crescentino (Vercelli)… commissionato dal Gruppo Mossi & Ghisolfi”. Rispetto all’elenco delle aziende trovato nello studio dei due commercialisti comaschi, restano da approfondire 100 nomi. Non è detto che tutte queste società abbiano partecipato al “Sistema Ronzoni”.
Di certo sono tutte imprese italiane, tra cui alcune molto note come Marazzi (ceramiche), Danieli (acciaio), Atalanta (calcio), Valtur (turismo), Sanlorenzo (yachts). Le indagini stanno proseguendo, si legge nell’ordinanza, “soprattutto con riguardo all’individuazione dei numerosi altri clienti” dei fratelli Ronzoni. Le 104 società sono finite sotto il faro della Procura perché hanno ricevuto fatture da otto imprese europee. Proprio quelle otto usate dai Ronzoni per fare uscire i soldi dei clienti dall’Italia. Fatture emesse e pagate nel giro di quattro anni, dal 2012 al 2016, per un totale di 45 milioni di euro. Alle domande del Fatto, Marazzi e Danieli non hanno risposto, mentre Sanlorenzo ha detto di non voler rilasciare commenti. Nicolaus Tour, il gruppo oggi proprietario del marchio Valtur (la società è fallita nel 2018), sottolinea che “i fatti fanno riferimento alle gestioni del marchio precedenti rispetto a quella attuale”. L’Atalanta, club che fa capo all’imprenditore Antonio Percassi, ci ha fatto sapere di non essere a conoscenza di indagini a proprio carico e ha assicurato che, da un primo e rapido controllo amministrativo, non risulta aver mai avuto rapporti commerciali con le otto società usate dai Ronzoni per fare uscire i soldi dei clienti dall’Italia.