domenica, 28 Aprile 2024
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Foto Fabio Cimaglia / LaPresse 26-01-2018 Roma Politica Palazzo di Giustizia. Inaugurazione dell'Anno Giudiziario in Corte di Cassazione Nella foto la vestizione dei magistrati Photo Fabio Cimaglia / LaPresse 26-01-2018 Roma (Italy) Politic Justice palace. Inauguration of the Judicial Year in the Court of Cassation In the pic dressing of the magistrates

Intrighi & conflitti: l’anno nero delle toghe e i Bilanci Mps, la denuncia: “Falsati dal 2017 al 2020”/

 

Intrighi & conflitti: l’anno nero delle toghe

Intrighi & conflitti: l’anno nero delle toghe

Ci ha provato Silvio Berlusconi per un paio di decenni a indebolire la magistratura, per ridurre il controllo di legalità sulla politica. Con scarsi risultati. I danni peggiori, la magistratura se li sta procurando da sola. La crisi è esplosa con il caso Palamara. Indagato per corruzione e dunque intercettato, Luca Palamara, ex membro del Consiglio superiore della magistratura, ha svelato nelle sue conversazioni un sistema di accordi e di potere per la spartizione delle nomine negli uffici giudiziari. Nell’indagine di Perugia è finito anche l’ ex pm romano Stefano Fava ora imputato per rivelazione e utilizzazione di segreti d’ufficio. Inizia così l’annus horribilis, con Palamara che alla fine viene radiato. Poi da Milano si innesca un nuovo scandalo. I verbali segreti in cui l’avvocato Piero Amara rivelava l’esistenza di una (presunta) “loggia Ungheria”, sono consegnati, in maniera informale, dal pm Paolo Storari all’allora consigliere del Csm Piercamillo Davigo: legittima tutela di fronte a un’inerzia investigativa della Procura, spiegano Storari e Davigo; rivelazione di segreto che ha impedito la possibilità d’indagare sulla loggia, ribatte il procuratore Francesco Greco. Alla fine interviene la Procura di Brescia, che indaga Storari e Davigo per rivelazione di segreto, Greco, per ritardata iscrizione, Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro per omissione d’atti d’ufficio. Il conflitto continua…

Luca Palamara Ex num.1 Anm oggi radiato

È stato il presidente dell’Anm ai tempi duri di Berlusconi. Da pm romano è stato eletto consigliere del Csm e tra il 2014 e maggio del 2019 è stato il re delle nomine, le chat con toghe questuanti cantano. Dal 4 agosto, però, Luca Palamara non è più neppure un “semplice” pm. È stato definitivamente radiato dalla magistratura perché le Sezioni Unite civili della Cassazione hanno respinto il suo ricorso contro la sentenza del Csm. Ma i guai giudiziari non sono finiti. A luglio, è stato rinviato a giudizio a Perugia con l’accusa di corruzione, per “l’esercizio delle sue funzioni e poteri” di consigliere Csm che ha favorito l’imprenditore Fabrizio Centofanti, il quale ha patteggiato. Nella sua nuova vita, Palamara aspira a diventare deputato: corre, con un suo simbolo, alle suppletive per la Camera, a Roma, collegio Primavalle. È stato espulso dalla magistratura per lo scandalo nomine, che ha avuto il suo epilogo nell’ormai famoso dopo cena per la nomina del procuratore di Roma: hotel Champagne, 9 maggio 2019, l’ex pm incontra i deputati Cosimo Ferri, toga in aspettativa, Luca Lotti, imputato a Roma per Consip e 5 ex consiglieri del Csm, ora a rischio sospensione disciplinare dalle funzioni. Il Pg della Cassazione ha chiesto 2 anni per Spina, Lepre e Morlini, un anno per Criscuoli e Cartoni.

Paolo Storari Il pm che ha diviso milano

È per anni il sostituto procuratore che si occupa a Milano, insieme a Ilda Boccassini, delle più complesse indagini sulla mafia in Lombardia. Negli ultimi anni si è impegnato, insieme al procuratore aggiunto Laura Pedio, sulla più dirompente inchiesta avviata dalla Procura milanese: quella su un complotto intentato prima alla Procura di Trani e poi a quella di Siracusa per tentare di azzerare le indagini di Milano sugli affari di Eni in Algeria e in Nigeria. Il regista del complotto, l’avvocato esterno dell’Eni Piero Amara, sostiene di averlo realizzato su mandato della compagnia petrolifera, che invece addebita a lui ogni responsabilità. L’inesauribile avvocato Amara tra la fine del 2019 e l’inizio del 2020 rivela a Storari e Pedio le gesta di un supposto gruppo massonico segreto, la loggia Ungheria. Storari insiste per avviare le indagini e procedere alle iscrizioni sul registro degli indagati. Entra in conflitto con il procuratore Greco e la collega Pedio, poi con i pm De Pasquale e Spataro. Affida a Piercamillo Davigo affinché lo tuteli davanti al Csm, dice, le copie “apocrife” dei verbali di Amara. Queste “tornano” a Milano, portate dal Fatto a cui sono arrivate in un plico anonimo. Storari per 6 mesi non dice nulla, solo ad aprile scorso racconta al procuratore Greco di averli dati a Davigo un anno prima. È indagato a Brescia per rivelazione di segreto ed è sotto procedimento disciplinare. Il Pg della Cassazione Salvi aveva chiesto il provvisorio trasferimento, i pm milanesi lo difendono con una lettera, il Csm lo lascia al proprio posto.

Francesco Greco Procuratore capo verso l’addio

A novembre andrà in pensione e, dopo una carriera iniziata sotto il segno di Mani pulite, lascerà la guida di una Procura, quella di Milano ora divisa a causa dei conflitti in corso. Greco era il pm più giovane del pool Mani pulite quando, nel 1994, prese il posto di Antonio Di Pietro come rappresentante della pubblica accusa nel processo Enimont sulla “madre di tutte le tangenti”. Nel 2005 è lui a coordinare le indagini che bloccano le scalate dei “furbetti del quartierino” ad Antonveneta, a Bnl, a Rcs-Corriere della sera. Da procuratore capo mette sotto inchiesta i big della web economy, da Google a Facebook, che pagavano all’estero (in percentuali omeopatiche) le tasse per le attività realizzate in Italia. Risponde all’Ocse costituendo un dipartimento che indaga sulla corruzione internazionale, affidato all’aggiunto Fabio De Pasquale: sconfitto da una sentenza che assolve in primo grado tutti gli imputati del processo Eni-Nigeria. Così viene investito (come De Pasquale) dai conflitti: finisce la sua carriera accusato da Storari di aver rallentato le indagini sulla loggia Ungheria e di non aver fatto depositare prove favorevoli a Eni.

Sebastiano Ardita “La loggia Ungheria e la calunnia”

Il caso Amara-Milano deflagra al plenum del Csm il 29 aprile, quando il consigliere Nino Di Matteo rivela di essere stato mesi prima alla Procura di Perugia per consegnare un plico ricevuto in forma anonima che conteneva “una copia informale, priva di sottoscrizioni, di un interrogatorio di un indagato (Piero Amara, ndr)… L’indagato menzionava, in forma diffamatoria se non calunniosa e come tale accertabile, circostanze relative a un consigliere di questo organo”. Cioè Sebastiano Ardita, anche lui testimone a Perugia. È stato tra i fondatori di Autonomia e Indipendenza con Piercamillo Davigo, i due, però, avevano rotto prima che scoppiasse questa “spy story”. Amara ai pm milanesi Laura Pedio e Paolo Storari dichiara che Ardita farebbe parte di una presunta loggia denominata Ungheria, salvo poi dire alla trasmissione di La7 Piazzapulita che “certamente è stato un oggetto di dossieraggio”. Il consigliere al Fatto dichiara: “Ritengo che si sia tentato di colpirmi perché in tutti gli incarichi istituzionali che ho ricoperto, compreso quello attuale, mi sono battuto perché non ci fossero santuari inviolabili”. Sui verbali non firmati finiti da Storari a Davigo, è categorico: “Non si possono estrarre copiacce di atti segreti e farli circolare. Le istituzioni operano con atti formali”.

Piercamillo Davigo L’ex “dottor sottile”

È stato il “Dottor Sottile” di Mani pulite, quello che dava forma giuridica alle prove raccolte da Antonio Di Pietro che tra il 1992 e il 1994 portano alla dissoluzione di Tangentopoli. Poi è il combattivo protagonista della lotta contro l’illegalità e l’impunità dei potenti. Combatte una battaglia solitaria per il rinnovamento anche delle associazioni dei magistrati, uscendo dalla corrente di Magistratura indipendente (egemonizzata da Cosimo Ferri) e fondando il nuovo gruppo di Autonomia e indipendenza. Nella primavera 2020, da consigliere del Csm, Davigo riceve dal pm di Milano Paolo Storari i verbali segreti, in formato non ufficiale, di Piero Amara su una presunta loggia. Intende proteggere Storari dall’asserita inerzia investigativa dei suoi capi. E sostiene che il segreto non è opponibile a un consigliere del Csm. Cerca di sbloccare l’indagine, parlando dei conflitti di Milano con i vertici del Csm: in maniera informale, senza rapporti ufficiali, perché questi avrebbero messo in pericolo la segretezza dell’indagine. Una volta uscito dal Csm, la sua segretaria invia (a sua insaputa) copie dei verbali a un paio di giornali e al consigliere Di Matteo. Risultato: l’indagine è bruciata, lui è indagato dalla Procura di Brescia, con Storari, per rivelazione di atti segreti.

Carlo Maria Capristo Finito nei guai a Potenza

“Per gli amici, i favori. Per gli altri la legge”. Secondo la Procura di Potenza così Carlo Maria Capristo, ex procuratore capo di Trani e di Taranto, gestiva la sua funzione. Classe 1953, originario di Gallipoli (Lecce), finisce ai domiciliari il 19 maggio 2020 con l’accusa di aver fatto pressioni su una pm di Trani affinché portasse avanti l’azione penale nei confronti di un uomo che tre imprenditori ritenuti vicini a Capristo avevano denunciato per usura. Il processo di primo grado è attualmente in corso. Ma la grana più grossa per Capristo esplode un anno più tardi quando nuove indagini della Procura di Potenza svelano la sua gestione dell’affare Ilva. Per Capristo il gip dispone l’obbligo di dimora, ma in carcere (poi sostituiti con i domiciliari) finiscono l’avvocato Piero Amara – lo stesso che proprio a Capristo aveva consegnato anni prima i falsi dossier per depistare le indagini milanesi sull’Eni – e Filippo Paradiso, ex poliziotto e parte dello staff di ministri e alte cariche dello Stato. Entrambi hanno messo a disposizione la loro rete di contatti quando Capristo cercava nuovi incarichi dopo Trani. Alla fine Capristo diventa capo degli inquirenti a Taranto e con lui sbarcano anche i suoi uomini: Amara ad esempio come consulente di Ilva in As. L’inchiesta sulla gestione Ilva è ancora in corso.

Nino di Matteo Lo scontro sul dap con Bonafede

È la sera del 2 maggio 2020, domenica, che avviene uno scontro via tv, tra Nino Di Matteo, allora pm alla Procura nazionale antimafia e Alfonso Bonafede, allora ministro della Giustizia. Oggetto: la mancata nomina di Di Matteo a direttore del Dap, posto ricoperto da Francesco Basentini fino alle dimissioni chieste da Bonafede per gli errori legati alla gestione dei boss mafiosi al 41 bis. Proprio dell’operato di Basentini si sta parlando a Non è l’Arena di La7. Massimo Giletti tira in ballo la mancata nomina di Di Matteo e cita vecchie intercettazioni di boss in carcere, preoccupati perché circolava la voce della nomina del pm. Il retropensiero è che Bonafede non dà il Dap a Di Matteo per quelle conversazioni. Sono le intercettazioni rivelate dal Fatto un anno prima, nell’indifferenza generale, il 27 giugno 2019: “Vogliono fare Di Matteo capo delle carceri. Questi so’ pazzi…”. Il ministro ne è informato prima di fare una doppia proposta al magistrato. Di Matteo interviene durante la trasmissione, racconta che fu Bonafede a chiamarlo e a offrirgli o la nomina a direttore del Dap “o in alternativa, quella di direttore generale degli Affari penali”. Due giorni dopo Di Matteo andò da Bonafede a dirgli che sceglieva il Dap, “ma il ministro mi disse che avevano pensato fosse meglio il ruolo di direttore generale al ministero (in quel momento occupato, ndr). Il ministro aveva cambiato idea o era stato indotto a ripensarci perché al telefono mi aveva detto ‘Scelga lei’”. Replica di Bonafede: “Gli dissi che tra i due ruoli sarebbe stato meglio quello di direttore degli Affari penali, che era il ruolo di Falcone, lo vedevo di più di frontiera nella lotta alla mafia”.

Michele Prestipino I ricorsi per la guida di Roma

La nomina delle nomine, quella del procuratore di Roma, che ha portato agli inferi il Csm nel 2019, con lo scandalo Palamara, è ancora irrisolta. Il Consiglio di Stato, infatti, ha annullato la nomina di Michele Prestipino a procuratore della capitale, decisa dal plenum del Csm con una maggioranza risicata e persino dopo un ballottaggio con il procuratore di Palermo Franco Lo Voi, a marzo 2020. Il Cds ha annullato la nomina, accogliendo il ricorso del Pg di Firenze Marcello Viola, escluso dai candidati proposti in plenum dalla Quinta commissione, mentre prima dello scandalo era stato il più votato, nonostante sia emerso dalle indagini e dalle chat di Palamara che nulla sapeva del dopo cena dell’hotel Champagne del 9 maggio 2019, quando fu il prescelto di quell’incontro extraistituzionale (presenti oltre Palamara, i deputati Lotti e Ferri e 5 consiglieri Csm). Si attende anche l’esito di un altro ricorso al Cds, quello di Lo Voi. E ancora. Il Cds ha respinto la richiesta di Prestipino di sospensione cautelare dell’annullamento della sua nomina, in attesa che entri nel merito della sua richiesta di “revocazione” dell’annullamento, improbabile secondo diversi esperti. Dunque, spetterà ancora alla Quinta del Csm formulare nuove proposte di nomina a procuratore di Roma. A meno che il Csm nomini Viola procuratore di Milano e Lo Voi Pg di Palermo.

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L’INTERESSE NAZIONALE SECONDO MELONI

 

Bilanci Mps, la denuncia: “Falsati dal 2017 al 2020”

Bilanci Mps, la denuncia: “Falsati dal 2017 al 2020”

Mps “ha falsificato i bilanci 2017, 2018, 2019, la semestrale 2020 e tutte le trimestrali intermedie, manipolando il mercato, perché non ha stanziato alcun accantonamento a fondo rischi” per le cause sui bilanci e i prospetti di aumento di capitale dal 2012 al 2015. Lo scrive Giuseppe Bivona, manager di Bluebell Partners che sul Monte ha presentato 38 segnalazioni, in un esposto presentato lunedì 9 agosto alla Procura di Milano.

A gennaio il pm Paolo Filippini ha avviato una terza inchiesta sui fondi per i rischi legali della banca di Siena, ipotizzando i reati di false comunicazioni sociali e manipolazione del mercato. Il primo procedimento è quello sulla contabilizzazione dei derivati Alexandria e Santorini, contro Mussari e Vigni per il 2008-11 e contro Profumo e Viola per il 2012-15. Il secondo, alla fase di indagine, è sulla iscrizione a bilancio dei crediti deteriorati nella gestione Profumo – Viola (2012-15).

A fine 2020, secondo il bilancio, richieste di risarcimento alla banca per 2,5 miliardi sono a rischio di soccombenza “probabile” e per altri 600 milioni sono a rischio “possibile”. A marzo, Consob calcolava in 5,2 miliardi il petitum totale restante a carico di Mps, a fronte di accantonamenti per 225 milioni. Ben 3,8 miliardi sono stati stralciati grazie all’accordo transattivo del 22 luglio con Fondazione Mps, tacitata con appena 150 milioni.

Dal 2015, Mps è stata sommersa da richieste di risarcimento di soci ed ex soci che avevano acquistato azioni tra il 2008-11 e 2012-15 “sulla base di informazioni finanziarie false. A luglio 2018 Mps decise di non costituirsi parte civile contro Profumo e Viola, di non avanzare azione di responsabilità e di non fare alcun accantonamento per i rischi connessi alle cause sul periodo 2012-15”, spiega Bivona. Solo il 5 novembre scorso, dopo la sentenza di primo grado che il 10 ottobre scorso a Milano ha condannato Profumo e Viola a sei anni, Mps decideva di riclassificare da “non probabile” a “probabile” il rischio di pagare i danni sul periodo 2012-15, accantonando 768 milioni principalmente per cause “su pregresse operazioni di aumento di capitale”. Secondo Bivona, “resta da capire se gli accantonamenti successivi siano commisurati e quanto petitum emergerà per il periodo dal 2017 a giugno 2020”.

Nel merito, Bivona ricorda che “con una lettera del 4 settembre 2018, informai il direttivo della Bce e l’allora presidente Draghi sul fatto che, a fronte di richieste di danni che all’epoca valevano già 3 miliardi, la banca non stava coprendo adeguatamente questo rischio. Non ottenni risposta. D’altronde già in precedenza la Bce ci aveva informato di aver archiviato le segnalazioni di Bluebell perché le violazioni contabili da parte della banca erano ‘considerate non rientranti nei compiti di vigilanza conferiti alla Bce’”.

Ora il nuovo filone d’inchiesta complica il quadro dell’uscita del Tesoro dal Monte. Anche se UniCredit trovasse un accordo con il governo, non va dimenticato che all’operazione servirà soprattutto il via libera della direzione Concorrenza della Commissione Ue. L’aumento delle richieste di danni (in ballo ci sono 3 miliardi) appesantisce l’onere per lo Stato, perché UniCredit non pare volersene fare carico. Oltre al danno per l’Erario, c’è il rischio che Bruxelles consideri l’onere come un aiuto di Stato vietato.

Intanto l’agenzia di rating Dbrs ha rivisto al ribasso da B a Ccc il rating dei bond subordinati del Monte. Gli analisti temono “l’aumento del rischio di condivisione degli oneri su questi strumenti man mano che il Governo si avvicina alla ricerca di una strategia di uscita da Mps”. Un’altra cattiva notizia per la banca senese.