venerdì, 29 Marzo 2024
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TUTTI VOGLIONO L’AMNISTIA MA NESSUNO VUOLE APPARIRE…

 

Ecco l’ultima furbata: Cartabia frena il Csm che la vuole criticare

Ecco l’ultima furbata: Cartabia frena il Csm che la vuole criticare

La ministra della Giustizia, Marta Cartabia, subissata di critiche degli addetti ai lavori per la riforma penale che garantirebbe l’impunità a mafiosi e corrotti (e non solo), ha fatto una mossa last minute ed è riuscita così a far saltare un dibattito di fuoco al plenum del Csm di mercoledì prossimo. Un appuntamento che l’avrebbe messa in grave difficoltà, dato che si sarebbe dovuto discutere e votare il parere-stroncatura licenziato due giorni fa dalla Sesta commissione del Consiglio. Proprio l’altroieri, il giorno in cui la Sesta ha deliberato la bocciatura della norma sulla prescrizione-improcedibilità, Cartabia ha sentito la necessità improvvisa di chiedere il parere del Consiglio “sull’intera” riforma penale: così, il presidente Sergio Mattarella ha deciso che, di fronte alla richiesta della Guardasigilli, non sarebbe stato istituzionalmente corretto inserire nell’ordine del giorno quel parere stilato solo sulla prescrizione-improcedibilità e non sull’intera riforma.

La mossa della ministra arriva nel momento in cui è ormai lampante che, non solo i togati, ma pure la maggioranza dei laici al Csm ritenga che la riforma sia dannosa. Diversi consiglieri in conversazioni fuori registrazione, bollano la richiesta di Cartabia come “evidentemente strumentale”, data la tempistica, avanzata solo per evitare critiche del Consiglio in giorni politicamente difficili.

Un fatto è certo, fino a giovedì la ministra aveva ignorato il Csm e dal ministero non era neppure arrivato il testo della riforma all’ufficio studi del Consiglio. Della richiesta della ministra, il presidente della Sesta, Fulvio Gigliotti, laico M5S, è stato informato quando ormai il parere era stato votato dalla commissione ed era già stato inoltrato, come da regolamento, al vicepresidente David Ermini, per chiedere al presidente Mattarella, l’unico titolato a firmare gli ordini del giorno (come capo del Csm), di inserirlo in quello di mercoledì.

Ed è Ermini, con una nota, a riportare la decisione di Mattarella e la sua motivazione, dopo la mossa della ministra che spera, nel frattempo, in un accordo politico: “È necessario – motiva il rinvio Mattarella – che il Consiglio non ometta di esprimersi su tutti gli aspetti della proposta del governo, circostanza che potrebbe assumere il significato di valutazione di ridotta importanza o di implicito consenso su tutti gli altri temi non trattati nel parere sull’improcedibilità” e quindi, riferisce sempre Ermini, il presidente ha ritenuto opportuno che “sia posticipata, anche solo di pochi giorni” la discussione in plenum.

In realtà, nel parere della Sesta si specificava che i consiglieri, per motivi di tempo (data la stretta agenda parlamentare) si erano concentrati sulla questione più urgente, la norma che mette a rischio migliaia di processi: sul resto della riforma ci sarebbero tornati. Inoltre – spiegano dal Csm – in plenum ci sarebbero stati consiglieri che avrebbero presentato emendamenti su altri punti critici, come le linee generali ai pm dettate dal Parlamento.

Sul rinvio del plenum interviene Eugenio Albamonte, segretario di Area, la corrente progressista delle toghe: “Trovo singolare che proprio nel momento nel quale il ministro annuncia che la riforma del processo penale verrà votata con la fiducia e sostanzialmente l’Aula sarà privata della possibilità di fare emendamenti, si impedisca o comunque si ritardi un parere del Csm che era già pronto e poteva essere votato velocemente offrendo il contributo che il Csm istituzionalmente è tenuto a rendere al governo e al Parlamento su riforme che riguardano il funzionamento della giustizia”. I consiglieri, comunque, sono tutti d’accordo che ora più che mai questo plenum “s’ha da fare”, anche a costo di fissarne uno straordinario ai primi di agosto. Ma chissà se ormai sarà fuori tempo massimo.

In ogni caso, martedì pomeriggio c’è un plenum straordinario sul parere che riguarda la riforma civile: in quell’occasione non è detto che alcuni consiglieri non vogliano dire la loro anche sulle norme del processo penale su

 

di  | 24 LUGLIO 2021

Nel vedere Conte e i 5Stelle dibattersi fra le opposte tentazioni di uscire dal governo e di restarvi, e intanto arrabattarsi per “migliorare” con ritocchini tecnici il Salvaladri&mafiosi della Cartabia, sorge il dubbio che non abbiano ancora colto il punto: questo governo non è nato per portare i migliori al posto dei peggiori, ma per far fuori Conte e i 5Stelle, per giunta coi loro voti (senza, non sarebbe mai nato); e la “riforma della Giustizia” non è nata per abbreviarne i tempi come chiede l’Ue, ma per piegarli nell’ultima genuflessione (dopo quelle su Figliuolo, salario minimo, licenziamenti, transizione antiecologica, cashback ecc.). Il disegno è spappolarli e annettersi la parte “governista”: cioè Grillo che li ha cacciati in questo cul de sac e Di Maio&C. che ci han subito preso gusto. Il tutto in vista della prosecuzione del regimetto di larghe imprese anche nella prossima legislatura, per potare le due ali non allineate al Sistema: da una parte la Meloni, dall’altra Conte e quei 5Stelle che ancora ricordano perché sono nati, stanno in Parlamento e al governo.

Non capirlo è indice di una preoccupante auto-sotto valutazione. Altrimenti tutti i “grillini” capirebbero che, nel Paese dell’Illegalità, la blocca-prescrizione di Bonafede non è UNA riforma fra le tante, ma LA riforma: la quintessenza del principio di legalità – la legge è uguale per tutti – che Flaiano definì l’unica vera rivoluzione italiana. E sui principi fondamentali non si tratta in nome della riduzione del danno o del male minore. O, se si tratta, bisogna farlo da posizioni di forza. Cioè essere pronti a tutte le opzioni: anche a uscire dal governo. Il che non vuol dire andarsene subito, ma essere disposti a farlo. Se la controparte – Draghi, massimo garante della Restaurazione – ha anche solo il sentore che non usciranno mai qualunque cosa faccia, continuerà a fare qualunque cosa, minacciando dimissioni che non darà mai, per metterli (anzi lasciarli) genuflessi. Si può capire che Conte non voglia debuttare uscendo dal governo, vista anche l’informazione da Terzo mondo che lo dipinge come un vedovo del potere, anziché come un giurista che – come tutti i giuristi degni di questo nome – conosce gli effetti catastrofici del Salvaladri&mafiosi. Ma, se la trattativa non dovesse eliminarli tutti – e sono tanti –, Conte dovrebbe tornare a interpellare gli iscritti sulle tre opzioni possibili: restare al governo, ritirare i ministri e dare l’appoggio esterno solo sui provvedimenti condivisibili, passare all’opposizione e rovesciarlo. La “fiducia” è una cosa importante e ogni governo deve meritarsela coi fatti. Tantopiù se è il governo Draghi ad aver bisogno del M5S e non il M5S ad aver bisogno del governo Draghi.

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“Questa riforma è una follia. Nei fatti sarà un’amnistia”

“Questa riforma è una follia. Nei fatti sarà un’amnistia”

Sebastiano Ardita – Consigliere Csm

di  | 24 LUGLIO 2021

 

L’ennesima bocciatura della riforma Cartabia arriva da Sebastiano Ardita, consigliere del Csm (corrente Autonomia e Indipendenza), ex pm antimafia e direttore generale dell’ufficio detenuti, tra i responsabile dell’attuazione del regime carcerario più duro, il “41 bis”.

Ardita, qual è la criticità principale della riforma?

C’è un equivoco di fondo: gli obiettivi sono importanti e condivisibili, ma i mezzi sono inadeguati, addirittura contraddittori rispetto agli scopi. Partiamo dalla lunghezza dei processi, tema legato alla prescrizione. Non basta dichiarare l’intenzione di accorciare i tempi, perché i tempi sono legati agli adempimenti e, se non si riducono gli adempimenti, è impensabile che i tempi si accorcino.

La riforma prevede – salvo proroghe di un anno o di 6 mesi per processi complessi e reati gravi – la durata massima di due anni per l’appello e un anno per la Cassazione. Cosa non va?

Poiché la tempistica non è legata allo snellimento degli adempimenti ed è dettata dall’alto, pena l’improcedibilità dall’appello in poi, e poiché già sappiamo che non potrà essere rispettata, nei fatti diventa un’amnistia. È una follia. Manderemmo in fumo il lavoro giudiziario a caso, senza alcun criterio razionale, slegato sia dalla gravità sia dalla vetustà dei processi. Un processo per un piccolo spacciatore che dura 10 anni in primo grado e 2 anni in appello (in totale 12) non verrebbe colpito da nessuna sanzione. Quello per un grosso trafficante di droga che dura 3 anni, di cui sei mesi in primo grado e 2 e mezzo in appello, diventa improcedibile. Qual è il significato strategico di questa amnistia random?

Lei intravede un’incidenza negativa su reati di mafia e corruzione?

Qualunque forma criminale organizzata ottiene un beneficio da un sistema processuale inefficiente. Se non bastasse, quando la giustizia dello Stato non funziona, è proprio quella della mafia ad attivarsi. Anche i fenomeni di corruzione sono più difficili da contrastare, se bisogna fare i conti col pallottoliere delle improcedibilità.

C’è comunque necessità di una riforma? In quale direzione? E perché?

C’è bisogno di una riforma radicale della giustizia penale. Una riforma che renda il rito penale non semplice, ma semplicissimo. Un processo allo stato degli atti, raccolti dal pm e dalla difesa, con pari dignità di prova. Una motivazione semplificata delle sentenze. Un regime di sanzioni diversificato, rispetto al quale il carcere sia una soluzione minoritaria, da adottare obbligatoriamente per soggetti pericolosi. Chi vuole un rito ordinario, lungo, orale, se viene condannato andrà incontro a un altro registro di sanzioni, molto più gravi. Allo stesso trattamento – al rischio di un aggravamento – dev’essere sottoposto chi appella una sentenza. I processi diminuirebbero. E sarebbero più agili. Ne sono certo.

Della riforma cosa salva?

Le pene alternative, la messa alla prova e la giustizia riparativa per i condannati. Ma senza nessuna esperienza, formazione e cultura di controllo delle pene alternative al carcere, non possono funzionare. Anzi, completerebbero il disastro di un sistema penale inefficiente. Ritengo assurdo che non esista un progetto sulle carceri, che investa sugli operatori e comprenda le ragioni del disagio dei detenuti, dell’indisciplina interna, delle rivolte del marzo scorso e del modo illegale con cui è stato riportato l’ordine interno. Ma vedo solo parole. Nessun fatto concreto.

La fiducia degli italiani nella magistratura è ai minimi storici. Perché?

È bassa perché, a dispetto dell’operato onesto e proficuo dei singoli, la magistratura appare come una struttura di potere organizzata e gelosa delle sue prerogative. La sua rappresentanza, che dovrebbe garantirne l’autonomia e l’indipendenza, s’è trasformata nel potere che gestisce l’autonomia. La crisi delle altre istituzioni l’ha reso il più stabile e duraturo dei poteri, il governo più strutturato e meno disponibile al cambiamento.

Il rimedio?

Nessun sistema di potere si sopprime da sé: l’unica speranza è una modifica legislativa che mantenga (o restituisca) indipendenza e autonomia ai magistrati e spazzi via questo modello reazionario di autogoverno. Basterebbe introdurre anche una tantum il sorteggio dei componenti del Csm. Ma gli altri poteri non ci pensano neanche. O le altre istituzioni ritengono questo potere così forte da temerne le reazioni, oppure pensano a una riforma radicale che porti via sia il potere dell’élite sia l’autonomia dei magistrati. Prospettive entrambe preoccupanti.

 

Giustizia, così si lasciano impuniti i colletti bianchi

di  | 24 LUGLIO 2021

 

Il progetto della ministra Marta Cartabia di revisione del processo penale ha indotto taluni esponenti della politica e della magistratura a chiedere di associarlo a un’amnistia che liberi gli uffici giudiziari dalla zavorra di un arretrato insostenibile, a pena altrimenti dell’insuccesso della riforma.

Nulla di nuovo né di scandaloso. Anche l’ultima amnistia, risalente al 1990, era stata concessa poco dopo l’entrata in vigore del codice Pisapia del 1989 per fare partire il nuovo rito senza il carico dei procedimenti allora pendenti. La sicumera che da allora in poi tutto sarebbe andato per il meglio e i processi si sarebbero celebrati in tempi ragionevoli aveva poi indotto nel 1992 a modificare la Costituzione, prevedendo che l’amnistia sia deliberata dal Parlamento con la maggioranza qualificata di due terzi dei suoi componenti, per rendere più difficile il ricorso a un istituto che per sua natura dovrebbe essere eccezionale e non finalizzato a svuotare le carceri o gli armadi dai fascicoli arretrati. Oggi, però, con un governo che gode del sostegno di un ampio arco di forze politiche, la maggioranza parlamentare dei due terzi potrebbe essere raggiunta.

Gli appelli levatisi a favore di un’amnistia non mirano a “colpi di spugna” generalizzati che assicurino l’impunità ai grandi criminali, perché essa dovrebbe avere a oggetto i reati con un limite massimo di pena di quattro/cinque anni di reclusione, con l’aggiunta – come è avvenuto anche in passato – di altri reati minori specificamente indicati e l’esclusione di quelli socialmente più invisi. In questo modo, pubblici ministeri e giudici potrebbero ricominciare a concentrarsi nella repressione dei delitti di maggiore spessore, senza disperdere energie inseguendo illeciti destinati a sicura prescrizione. Però, al di là delle buone intenzioni, c’è il rischio che si cancellino, insieme a episodi di microcriminalità datati e che destano poco allarme sociale, fatti di reato gravi che meritano invece di essere perseguiti anche a distanza di tempo. Per evitare che l’amnistia diventi lo strumento per lasciare indenni comportamenti altamente lesivi, occorre infatti una attenta selezione degli illeciti, ma questa operazione appare oggi molto complicata perché il nostro sistema repressivo ha perso ogni razionalità. Per inseguire il consenso popolare, da anni si assiste a inutili duplicazioni di figure criminose, alla introduzione di nuovi reati e, soprattutto, a un continuo rialzo dei minimi e dei massimi edittali che ha interessato sia molti tradizionali delitti dei “colletti bianchi” prima sottostimati, come quelli fiscali e contro la Pubblica amministrazione, sia i reati di strada, rispetto ai quali le sanzioni paiono abnormi. Il risultato è che le pene sono sempre più livellate verso l’alto e che la loro entità spesso non è significativa della obiettiva gravità dell’illecito.

Queste degenerazioni della politica criminale incidono negativamente anche sulla prospettiva di un diverso modello di giustizia penale, non più incentrata sulla reclusione ma maggiormente articolata e orientata al recupero del reo. A fronte di un sistema sanzionatorio squilibrato, un ampliamento del ventaglio e della sfera di applicazione delle misure alternative alle pene detentive, da comminare in caso di condanne contenute entro certi limiti, non farebbe che accentuare le disparità già attualmente esistenti fra le tipologie di delinquenti: coloro per i quali il carcere costituisce l’approdo pressoché obbligato e quelli che in qualche modo se la cavano sempre.

Per decongestionare tribunali e strutture penitenziarie, molto più utile sarebbe allora, oltre a snellire le regole processuali, procedere a una coraggiosa e complessiva opera di revisione che riconduca le pene alla effettiva offensività dei reati, mantenendole alte per chi attenta ai beni collettivi e ridimensionandole per quei fatti che ledono interessi patrimoniali individuali di modico valore. Altrimenti a finire dietro le sbarre, amnistia o meno, saranno i soliti noti.

*Sostituto procuratore
della Repubblica a Torino

Elisa Pazé*