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Protesta avvocati all?esterno del palazzo di giustizia di Napoli mentre era in corso la visita della ministra alla giustizia Marta Cartabia. Napoli 20 Luglio 2021 ANSA/CESARE ABBATE/

MOLTI MAGISTRATI RITENGONO UN AFFRONTO PERSONALE UN PASSO VERSO UN PROCESSO GIUSTO E VELOCE O UNA QUALSIASI AMNISTIA… MA SOTTO SOTTO HANNO PIACERE PERCHE’ LAVORERANNO DI MENO. CON LA LORO FILOSOFIA I NAPOLETANI HANNO COMMENTATO: “CHI A VO COTTA E CHI CRURE” E ANCORA UNA VOLTA, LA GIUSTIZIA DIVENTA UNA FARSA…

 

Salvaladri, Gratteri e De Raho: “È più conveniente delinquere”

Il procuratore nazionale: “È un forte indebolimento della lotta a terrorismo, mafie, corruzione: lesione alla sicurezza del Paese”

di Giampiero Calapà | 21 LUGLIO 2021

“Una lesione alla sicurezza del sistema democratico del nostro Paese”. “Un indebolimento della lotta alle mafie”. “Converrà di più delinquere”. “Il cinquanta per cento dei processi saranno improcedibili”. È cominciata malissimo ieri la giornata per la guardasigilli Marta Cartabia, la cui riforma della giustizia è stata fatta a pezzi dalle audizioni, in commissione alla Camera, del procuratore nazionale Antimafia Federico Cafiero De Raho e del capo della Procura di Catanzaro Nicola Gratteri. La ministra, dal canto suo, incontrando i capi degli uffici giudiziari della Corte d’appello di Napoli ha cercato di tenere il punto: “Lo status quo non è un’opzione sul tavolo”. E anche in quella sede non è andata un granché bene col procuratore generale Luigi Riello che non si è tirato indietro: “Mi sembrerebbe molto triste dover trarre la conclusione che l’unico modo di fare i processi in questo Paese sia non farli, sia offrire ponti d’oro agli imputati per indurli a scegliere, a suon di sconti, saldi, liquidazioni e riti alternativi”.

A Roma, appunto, nelle stesse ore il dibattito sulla riforma si spostava in commissione Giustizia a Montecitorio. Il primo a sedersi di fronte ai deputati è stato Gratteri, subito pronto a denunciare “un grande allarme sociale che riguarda la sicurezza: il cinquanta per cento dei processi finiranno sotto la scure della improcedibilità. E temo che i sette maxi processi contro la ’ndrangheta che si stanno celebrando nel distretto di Catanzaro saranno dichiarati tutti improcedibili in appello. Uno dei punti qualificanti della riforma Cartabia è, appunto, l’improcedibilità dell’azione penale che prevede l’annullamento della sentenza di condanna eventualmente pronunciata nei gradi precedenti trascorsi due anni e un anno rispettivamente in appello e Cassazione. È una disposizione che avrà come effetto quello di travolgere un enorme numero di sentenze di condanna con tutto ciò che questo comporta”. L’improcedibilità renderebbe quasi impossibili i processi con molti imputati. Il lavoro di anni, per Gratteri, rischia di andare in fumo per colpa (o merito, dipende dai punti di vista) del governo “dei migliori”, capace di arrivare dove neppure nel Ventennio berlusconiano si era arrivati con le cosiddette riforme della giustizia e i continui attacchi pubblici alla magistratura.

La riforma Cartabia è un vero colpo di mano, infatti, per Gratteri, che ha continuato: “In termini concreti le conseguenze saranno la diminuzione del livello di sicurezza per la nazione, visto che certamente ancor di più conviene delinquere”.

Se le parole di Gratteri bastavano a mandare di traverso il caffè alla guardasigilli e anche al premier Mario Draghi, il carico da novanta è arrivato poco dopo, quando sulla stessa seggiola di Montecitorio si è seduto il procuratore nazionale Antimafia De Raho: “Non è per nulla condivisibile che un procedimento per un delitto di mafia o di terrorismo diventi improcedibile, perché nella fase di appello non si è pervenuti a sentenza nei due anni o non è stato prorogato il termine dal giudice procedente. Il contrasto alle mafie ne uscirebbe fortemente indebolito. L’esigenza della ragionevole durata del processo richiede il superamento degli ostacoli che impediscono alla macchina della giustizia di muoversi velocemente, rendendo la giustizia più efficiente e consentendole di celebrare i processi in tempi rapidi, coprendo o aumentando gli organici dei magistrati e fornendo di assistenza necessaria l’attività giudiziaria. La durata dei gradi di giudizio – ha concluso De Raho con un’ultima sberla al governo – non può rendere improcedibili i delitti di mafia, di terrorismo e di corruzione, rappresentando essi una lesione alla sicurezza del sistema democratico del nostro Paese”.

“L’Europa ci chiede altro: più magistrati e freni agli appelli”
“L’Europa ci chiede altro: più magistrati e freni agli appelli”

Alessandra Dolci: “Sulla base dei numeri già si capisce che non funzionerà: è un’amnistia”

di  | 21 LUGLIO 2021

Anche gli imputati mafiosi potranno godere dell’improcedibilità escogitata dalla riforma Cartabia. Lo teme Alessandra Dolci, il procuratore aggiunto di Milano a capo della Direzione distrettuale antimafia.

Rendere “improcedibili” i procedimenti che durano più di 2 anni in Appello e più di 1 in Cassazione è una buona soluzione per rendere più veloci i processi?

Forse sì, in un mondo ideale. Ma nel nostro mondo, questo diventa il modo migliore non per renderli più veloci, ma per mandare al macero migliaia di processi. È una sostanziale amnistia. Per definire un procedimento in Italia ci vogliono in media 1.038 giorni. E ci sono sette distretti di Corte d’appello che sforano questo dato. Anche solo sulla base di questi numeri si capisce che questa riforma non funziona. Per assicurare la ragionevole durata dei processi si dovrebbe aumentare gli organici dei magistrati e del personale giudiziario. Nelle Corti d’appello abbiamo un arretrato in media di due anni, i procedimenti che andrebbero a regime con la nuova disciplina andrebbero in coda a quelli già pendenti. Con quale risultato? L’improcedibilità generalizzata. E poi, che cosa facciamo delle condanne in primo grado, dopo che il giudice d’appello ha dichiarato improcedibile il procedimento perché è scaduto il tempo? Delle carenze d’organico della giustizia italiana, del resto, ha parlato anche il commissario europeo alla Giustizia.

Ma ci ripetono che questa riforma della giustizia la dobbiamo fare perché ce lo chiede l’Europa.

L’Europa non ci chiede questa riforma, ci chiede di fare processi più veloci, abbattendo i tempi, per la giustizia penale, del 25 per cento. Gli interventi potrebbero essere l’aumento degli organici e la riduzione del numero dei processi, anche togliendo l’impossibilità di reformatio in pejus, cioè l’impossibilità di aumentare la pena in Appello. In Francia, le impugnazioni sono solo nel 40 per cento dei processi. Da noi invece quasi tutte le sentenze vengono impugnate, anche quelle di patteggiamento, spesso oggetto di ricorso per Cassazione: un continuo tentativo di prender tempo per allontanare l’esecuzione della condanna.

Questa riforma avrà impatti anche nei procedimenti di criminalità organizzata?

Le Direzioni distrettuali antimafia sono competenti anche per reati come il traffico illecito di rifiuti, spesso organizzato dalle mafie: la riforma potrebbe d’ora in avanti azzerare questi processi. Così pure quelli per reati fiscali, che contestiamo (aggravati dell’agevolazione mafiosa) ai gruppi di criminalità organizzata che in Lombardia hanno vocazione imprenditoriale.

Il Parlamento dovrà dettare le priorità sui reati da perseguire.

È una proposta che presenta evidenti profili d’incostituzionalità. L’azione penale è obbligatoria e il pubblico ministero è indipendente. Ed è chiaro che le priorità sono diverse a Palermo e a Bolzano.

Come ottenere, allora, l’abbreviazione dei tempi del processo?

Questa riforma sembra avere un retropensiero: che i magistrati lavorano poco e dunque bisogna imporre loro dei tempi. Ma le statistiche europee dicono che i magistrati italiani sono tra i più laboriosi. Le strade per ridurre i tempi devono essere diverse da quelle di far scattare prescrizione o improcedibilità: ridurre il numero dei processi con una radicale depenalizzazione dei reati minori, filtri ai ricorsi in appello e in Cassazione, fine del divieto di reformatio in pejus, procedibilità a querela di parte per alcuni reati per i quali oggi si procede d’ufficio. Poi vorrei ricordare che non sento mai parlare delle vittime e delle parti offese. Potrebbe capitare a tutti noi di diventarlo, per esempio con le truffe online che oggi colpiscono migliaia di cittadini che chiedono giustizia. Che fine faranno, domani, i loro processi?

MANI PULITE 25 ANNI DOPO

di Gianni Barbacetto ,Marco Travaglio ,Peter Gomez12€Acqui

Lega, i 49 mln: che fine ha fatto il bottino

Lega, i 49 mln: che fine ha fatto il bottino

Va verso la chiusura l’indagine sui soldi alla “Lista Maroni”. Tesoro sparito: Genova archivia, ma invia gli atti ai magistrati di Milano

di Marco Grasso e Davide Milosa | 21 LUGLIO 2021

Dopo anni di indagini, dei 49 milioni di euro della Lega, si può dire di certo che sono spariti. Dove siano andati e, soprattutto, se e come siano ritornati indietro, rischia di restare un interrogativo (almeno per ora) senza risposta.

La Procura di Genova si appresta a interrompere la caccia al tesoro, conservato fino al 2012 su un conto della Banca Aletti, gestito dall’ex tesoriere Francesco Belsito: i pm stanno per chiudere le indagini e chiedere il rinvio a giudizio per i 450mila euro erogati alla lista “Associazione Maroni Presidente”. Il fascicolo, per competenza, sarà trasferito a Milano. L’altro grande filone, quello sui 10 milioni di euro finiti in Lussemburgo, va invece verso la richiesta d’archiviazione. Anche se gli atti, richiesti espressamente dai colleghi di Milano potrebbero dare nuova linfa alle inchieste dei pm lombardi.

L’origine di tutto è la condanna di Belsito: ex cassiere di Umberto Bossi, per i giudici ha truccato bilanci e truffato lo Stato, facendo ottenere al partito 49 milioni di euro pubblici che non gli spettavano. Ma quando nel 2017 la Guardia di Finanza si presenta per chiederli indietro, di quei soldi sono rimaste le briciole, 3 milioni. La Lega Nord si offre di ripagare il debito in comode rate di 80 anni, e viene trasformata da Matteo Salvini in una bad company: tutta l’attività politica (con i nuovi finanziamenti) viene trasferita nella nuova Lega. Nel frattempo, varie Procure cominciano a dare la caccia al patrimonio evaporato.

La vicenda dell’“Associazione Maroni Presidente” è una fetta apparentemente piccola della torta, che però rappresenta per la Guardia di Finanza una parte per il tutto. Nel 2013 la lista che sostiene la corsa di Bobo Maroni a governatore in Lombardia riceve dalla Lega Nord 450mila euro inizialmente messi a bilancio come “erogazione liberale”. Voce poi cambiata in “prestito/finanziamento infruttifero”. Il problema è che la fonte iniziale, secondo i pm, sarebbero i soldi della maxi-truffa: ecco perché il loro reimpiego costa al presidente della lista civica, Stefano Bruno Galli, assessore regionale della giunta di Attilio Fontana, un’accusa di riciclaggio. Secondo i pm, nel 2015 in una riunione romana cui partecipa Galli e il tesoriere di nomina salviniana Giulio Centemero (non indagato) si decide di trasformare la dicitura erogazione liberale in “restituzione prestito”. L’indagine nasce da un esposto dell’ex capogruppo della lista, Marco Tizzoni, che ai pm in sostanza dice: mai visti quei soldi. Sulla carta sarebbero stati spesi in volantini stampati da una società di Fabio Boniardi, parlamentare leghista (non indagato). Per gli inquirenti, coordinati dal procuratore Francesco Pinto e dal colonnello Andrea Fiducia, quelle fatture sono servite a far uscire i 450mila euro dalle casse della Lega verso l’“Associazione Maroni Presidente”, e poi restituirli alla Lega stessa.

Va verso la richiesta di archiviazione, invece, la parte più consistente dell’indagine genovese: l’inchiesta sui 10 milioni di euro partiti dalla Banca Sparkasse di Bolzano e finiti in Lussemburgo, un investimento ritenuto anomalo perché, a stretto giro, 3 milioni di quell’operazione erano rientrati in Italia, poco prima delle elezioni politiche del 2018 (e subito dopo il primo sequestro ai conti del Carroccio). Determinante è stato l’esito della relazione depositata alcuni giorni fa dai consulenti di Banca d’Italia, coordinati dal capo degli ispettori antiriciclaggio Emanuele Gatti. Secondo gli 007 di via Nazionale non ci sono prove documentali sufficienti per collegare quei soldi alla Lega. E dimostrare la tesi accusatoria: che il capitale iniziale – che Sparkasse ha sempre sostenuto essere proprio – fosse garantito da una provvista in contanti. Un’operazione chiamata in gergo back to back, di cui la Procura ha cercato invano tracce con rogatorie in Svizzera e nel Granducato.

Dalle ceneri di questi accertamenti, tuttavia, potrebbe ripartire però Milano (dove i pm di Genova ora spediranno nuovi atti): l’inchiesta sul Lussemburgo aveva portato infatti alle perquisizioni dei commercialisti Alberto Di Rubba e Andrea Manzoni e dello studio di via Angelo Maj, a Bergamo, dove hanno sede sette società controllate da una holding lussemburghese; quel blitz è stato foriero di una miniera di informazioni, parte delle quali, soprattutto migliaia di mail e chat, ancora da sviluppare. È anche sulla base di questo capitale informativo che il procuratore Eugenio Fusco e il pm Stefano Civardi sono arrivati alle condanne della coppia Manzoni e Di Rubba (uomini di fiducia di Centemero) nella vicenda della Lombardia Film Commission. In un vertice che si è tenuto nei giorni scorsi, i pm milanesi hanno concordato con i colleghi di Genova l’acquisizione di tutti gli atti sull’inchiesta del Lussemburgo: “Se non ci fossero elementi di interesse questo passaggio non ci sarebbe nemmeno”, spiega un inquirente.

A collegare la Lega e quell’investimento nel Granducato erano state le dichiarazioni del commercialista Michele Scillieri. Ai magistrati aveva riferito di aver avuto una confidenza da Di Rubba: “Quando nel dicembre 2018 uscirono gli articoli sull’Espresso sulle sette società, gli chiesi se c’era un collegamento con i 7 milioni finiti in Lussemburgo. Lui mi fece un gesto, come a indicare dei rivoli, e io intuii che ogni società aveva in dote un milione”. E ancora: “Da quello che sapeva lui (Di Rubba, ndr), tramite l’avvocato Aiello (ex legale della Lega, ndr), i famosi 10 milioni erano effettivamente transitati dalla Sparkasse sul Lussemburgo”. Agli atti dell’inchiesta di Genova c’è anche un’intercettazione tra due ex manager di Sparkasse, Dario Bogni e Sergio Lo Vecchio, che nel 2018 parlavano preoccupati dell’affaire dei 10 milioni: “Il problema è il collegamento con Brandstatter”. Gerard Brandstatter, presidente della banca altoatesina, ha condiviso in passato lo studio proprio con Aiello (che aveva avuto a sua volta ruoli nel consiglio di vigilanza di Sparkasse): “Credo che sia ancora con Aiello, in quello studio a Milano”.

Insomma, le intercettazioni che per la Procura di Genova da sole non bastano a richiedere un processo, fanno parte degli atti che interessano e saranno trasferiti a Milano.

L’arrivo dei nuovi atti è destinato ad aprire altre piste investigative. La Procura di Milano punta sulla nascita della nuova Lega di Matteo Salvini. Qui il punto, rimarcato negli interrogatori con il commercialista Michele Scillieri, è comprendere come e perché è nato il nuovo soggetto e in che modo il partito e le varie leghe regionali abbiano rappresentato, come spiega Scillieri, i “rivoli” in cui sarebbero stati riversati i soldi della nuova Lega. E, in parte, ciò che restava dei 49 milioni. L’obiettivo di queste newco leghiste, come si legge in una email del tesoriere Giulio Centemero, e come svela Scillieri, era quello di evitare i sequestri di Genova. Un altro filone da approfondire riguarda la figura dell’imprenditore bergamasco Marzio Carrara (non indagato), finito nel mirino per un’operazione di acquisto e vendita con una plusvalenza di circa 24 milioni di euro. Subito dopo l’operazione Carrara chiede un finanziamento da 65 milioni di euro alla Swiss Merchant Corporation, con la mediazione di Di Rubba e Scillieri: per quale motivo, se aveva tutta quella liquidità? Il sospetto della Procura è che i 24 milioni fossero una partita di giro e soprattutto non fossero tutti di Carrara. Insomma, la caccia al tesoro è tutt’altro che finita.