venerdì, 29 Marzo 2024
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MEGLIO PEGGIO DAI GIORNALI DI OGGI

L’interesse di Salvini a “blindare” i Servizi

L’interesse di Salvini a “blindare” i Servizi
Nella Lega il servizio di Report che andrà in onda domani sera sugli incontri tra Matteo Salvini e il capo reparto del Dis, Marco Mancini, preoccupa molti. Tant’è che l’ordine di scuderia arrivato da via Bellerio è quello di non commentare per non accostare il nome del leader della Lega al dirigente dei Servizi che già il 23 dicembre aveva incontrato Matteo Renzi in piena crisi di governo: se esplodesse il caso politico, come per Renzi, infatti, Salvini difficilmente riuscirebbe a sfuggire da una convocazione del Copasir. I leghisti non sono solo preoccupati dall’ammissione del segretario sui suoi incontri con Mancini, ma anche da quello emergerà dalla puntata. Ovvero l’attenzione di Salvini per il tema dei Servizi.Nell’inchiesta di Walter Molino, infatti, si parla della guerra sulla presidenza del Copasir, oggi occupata dal leghista Raffaele Volpi, che per legge spetterebbe a Fratelli d’Italia ma che la Lega non ha mai voluto lasciare. Il perché non si è ancora capito. Il caso però sembrava sciolto in partenza perché, come scritto dal Fatto il 21 febbraio e come confermato a Report dal vicepresidente del Senato Ignazio La Russa, Volpi era in pole per fare il sottosegretario alla Difesa. Al cronista di Report, La Russa spiega: “Volpi poteva fare il sottosegretario. Fino al giorno prima”. La notizia l’aveva avuta dal “capogruppo o dal vicecapogruppo della Lega in Senato”: “Mi ha detto guarda che il problema (del Copasir, ndr) forse si risolve perché mi pare sia in pole position per fare il sottosegretario”. Poi non andò così: “Il giorno dopo è uscita la lista dei sottosegretari e non c’era Volpi – continua La Russa – Lui era, questo lo so, sicuro di andare a fare il sottosegretario”. Perché il presidente del Copasir non ha ottenuto la poltrona di sottogoverno?La vulgata è che Salvini, dopo lo smacco dei ministri vicini a Giancarlo Giorgetti, avesse chiesto tutti sottosegretari a lui fedeli (Volpi è vicino a Giorgetti). Ma forse il motivo è più recondito. E ad adombrarlo a Report è proprio La Russa. Secondo il senatore di FdI non è stato Volpi a non voler mollare la poltrona (“Volpi è una brava persona, è un soldato”): “L’unica cosa che tutti hanno capito è che il problema non è Volpi” conclude La Russa. Potrebbe allora essere stato lo stesso Salvini a chiedere a Volpi di restare alla presidenza del Copasir? Volpi smentisce: “Assolutamente no”. Il sospetto – in queste ore in cui sono emersi gli incontri Salvini-Mancini, non sappiamo quanto retrodatati nel tempo – che quella poltrona possa essere particolarmente cara al leader della Lega è venuto a molti, però. D’altronde il presidente del Copasir ha accesso a molte informazioni riservate e viene informato preventivamente da Palazzo Chigi sulle nomine. E alla vigilia delle scelte sui nuovi vertici di Dis e Aisi avere un amico a San Macuto poteva tornare comodo.

E forse non è un caso che ieri sul Corriere sia uscito un articolo in cui si raccontavano i timori del numero due della Lega Giorgetti che evocava una guerra di dossier che coinvolge il mondo dei Servizi. “Si prospettano mesi d’inferno” ha preconizzato Giorgetti, più preoccupato di questo che dei vaccini o del Recovery. Il titolare del Mise ipotizza che dopo gli incontri tra Renzi e Salvini con Mancini usciranno altri dossier preoccupanti, per la guerra che sarebbe in corso tra 007.

Sarà anche per questo che la Lega ora si muove come i renziani: provare a delegittimare Report. Il capogruppo in Vigilanza Massimiliano Capitanio e il deputato Fabrizio Cecchetti attaccano la trasmissione su un servizio del 26 ottobre scorso sulla Regione Lombardia e la gestione dei test sierologici: “Per attaccare la Lega, Report si è affidato a un falso medico”. Peccato che sia falso, come ha spiegato Sigfrido Ranucci: per quel servizio Report non ha mai “né intervistato né menzionato” il medico oggi indagato per abuso di professione.

FONTE:

Carta straccia

Il giornalismo fantasy ci ha già dato molte soddisfazioni negli ultimi mesi del governo Conte, raccontando che il problema erano il Recovery Plan, la Ue, il Mes, la cybersecurity, i bonus a pioggia, i banchi a rotelle, le Regioni a colori, la prescrizione, l’“anima” e altre minchiate assortite. Ora però si supera con le fantacronache del cambio della guardia al Dis, il Dipartimento di Palazzo Chigi che coordina le due agenzie operative d’intelligence Aisi (sicurezza interna) e Aise (sicurezza esterna). C’è nientemeno che la telefonata virgolettata tra Draghi e Conte sull’avvicendamento Vecchione-Belloni: conversazione che conoscono solo i due protagonisti, non certo avvezzi a raccontare ai giornali quel che si dicono. E ci sono i “retroscena” del ribaltone che, in barba al dovere di trasparenza, il governo non spiega (così come per la cacciata di Arcuri, di Borrelli e di 14 membri del Cts su 26). Anziché motivare quelle legittime scelte al Parlamento e all’opinione pubblica, si fanno filtrare sui giornali amici veline più esilaranti di una barzelletta. Prima si dice che Vecchione paga la ripresa degli sbarchi dalla Libia: ma non attacca, perché il Dis non è operativo e il dossier Libia è esclusiva dell’Aise, il cui capo però resta al suo posto. Allora si fanno uscire spezzoni apocrifi dell’audizione di Vecchione al Copasir (in “seduta segreta” ah ah ah) per dipingerlo come un mezzo scemo solo perché non sa nulla dell’incontro fra il caporeparto Mancini e Renzi all’autogrill: come se la responsabilità fosse sua. Forse, per saperne di più, bisognerebbe convocare i due interessati.Vecchione arriva al Dis nel 2018, quando Mancini è lì da tre anni, e lì lo lascia a far le pulci alle spese di Aisi e Aise, scontentando un sacco di gente e risparmiando un sacco di soldi. Mancini però vuol tornare operativo e punta, in forza dell’anzianità, alla vicedirezione Aise nel giro di nomine di fine 2020. Ma all’Aise non lo vogliono: il suo passato con Pollari e Tavaroli pesa ancora. Così Conte, a dispetto del pressing renziano, non lo promuove. Intanto Mancini cerca sponde dai due Matteo. Purtroppo un’insegnante lo riprende all’autogrill e informa Report. Ora i fantasisti di Rep sposano la tesi renziana del complotto (l’insegnante è un’emissaria di Mancini o forse di un suo nemico: massì, abbondiamo!). E tirano in ballo Gratteri, che avrebbe chiamato Renzi perché ricevesse Mancini. Come se i due – in rapporti amichevoli da quando il primo era premier, cioè da sei anni – per parlarsi avessero bisogno di Gratteri. Il quale comunque, tabulati telefonici alla mano, sfida Rep a dimostrare una sua telefonata a Renzi. Ingenuo com’è, pensa ancora che tutto ciò che si stampa su carta sia un giornale.

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“La condanna di Berlusconi: non ci furono irregolarità”

“La condanna di Berlusconi: non ci furono irregolarità”
Roma I pm sul caso legato al processo diritti tv Mediaset: “Nessuna pressione sul collegio”
Quella del- l’audio di Amedeo Franco, uno dei giudici del collegio della Corte di Cassazione che nel 2013 condannò Silvio Berlusconi, resterà una vicenda in parte inesplorata. Ci sono alcuni aspetti che non potranno essere chiariti: Franco è venuto a mancare a maggio del 2019 e quindi non si saprà mai il reale motivo che lo spinse, il 6 febbraio 2014, a presentarsi – accompagnato dall’ex sottosegretario Cosimo Ferri – alla corte di Berlusconi. I pm romani non credono a un cosiddetto “travaglio interiore” del giudice, non è “autentico”, scrivono. Piuttosto ritengono quei colloqui un “tentativo di compiacere il proprio interlocutore”, ossia Berlusconi, anche se “non si comprende a quali fini”. E se da una parte sono ancora molti gli interrogativi che ruotano attorno a questa vicenda, dall’altra esistono aspetti sui quali la Procura di Roma ha svolto accertamenti, giungendo ad alcune conclusioni. “Gli approfondimenti svolti – scrivono i pm – hanno consentito di smentire totalmente quanto affermato dal giudice Franco con riguardo a presunte irregolarità nell’assegnazione del processo alla sezione feriale e con riguardo a presunte pressioni subìte dai componenti del collegio giudicante…” .Lo scrivono il procuratore aggiunto Paolo Ielo e i pm Luigia Spinelli ed Elena Neri, in una richiesta di archiviazione (accolta dal Gip il 22 marzo) nell’ambito di un procedimento che vedeva indagato il direttore del Riformista Piero Sansonetti. Ed è in questo atto che i magistrati ripercorrono tutta la vicenda.

“Plotone di esecuzione”. Il racconto all’ex premier

Tutto parte dall’audio di Amedeo Franco, che davanti a Berlusconi parla di un “plotone di esecuzione” e di “pressioni”. Il giudice dice anche che era stata fatta “una porcheria” nell’assegnazione del processo alla sezione feriale. Era il 6 febbraio del 2014 e quella registrazione sarà depositata nel 2016 dalla difesa dell’ex presidente del Consiglio nel ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Nel 2020 la vicenda ritorna alla ribalta sui quotidiani e in alcune trasmissioni televisive. Il 6 luglio 2020 Sansonetti è ospite di Quarta Repubblica, dove – ricostruiscono i pm – parla della trattazione del processo alla feriale e definisce Antonio Esposito (presidente di quel collegio che condannò Berlusconi) “un giudice sicuramente sospettabile se non altro per essere editorialista del Fatto Quotidiano”. Circostanza vera, Esposito a volte scrive per questo giornale, per i magistrati però – come hanno ricostruito nel corso delle indagini – non ci furono anomalie nell’assegnazione alla feriale. Dopo la trasmissione Esposito presenta un esposto contro Sansonetti. La Procura di Roma indaga per vilipendio Sansonetti (posizione poi archiviata) e svolge anche una serie di altri accertamenti.

Sulla genesi dell’incontro “poca chiarezza”

Per arrivare a Berlusconi, Franco si rivolge all’attuale deputato di Italia Viva, Cosimo Ferri. Per i pm vi è “poca chiarezza” “in ordine alla ‘genesi’ degli stessi incontri, con particolare riferimento al ruolo svolto da Ferri”. E spiegano il perchè: “Lo stesso ha affermato di non avere avuto con il Franco alcuna pregressa frequentazione o rapporto di amicizia, se non una conoscenza occasionale, sicché deve ritenersi quantomeno singolare che quest’ultimo si fosse rivolto proprio al Ferri per chiedergli di accompagnarlo e presenziare ad un appuntamento dal contenuto così delicato e sensibile…”. Una volta davanti all’ex premier parte ciò che i pm definiscono una sorta di “travaglio interiore”: “I colloqui del giudice Franco – è scritto nella richiesta di archiviazione – con Berlusconi dunque, lungi dall’apparire un reale e serio tentativo di ‘riparare a un danno fatto’ per porre fine a un autentico tormento interiore, vanno interpretati come un tentativo di compiacere il proprio interlocutore (non si comprende a quali fini), esonerandosi parimenti dalle responsabilità del proprio operato”.

Feriale: “Illazioni su attribuzione ad hoc”

Altra questione affrontata dai pm romani nella richiesta di archiviazione è l’assegnazione alla feriale e quindi al collegio presieduto dal giudice Esposito. Su questo la Procura scrive: “Nessuna censura o distorsione di sorta appare configurabile in ordine all’attribuzione alla sezione feriale del procedimento in questione, atteso che il periodo feriale indicato nel decreto del Presidente era fissato dal 22 luglio al 14 settembre e che la prescrizione del reato sarebbe maturata il primo agosto, periodo certamente ricadente in quello indicato. Peraltro, anche ove la prescrizione fosse maturata il 14 settembre (così come rettificato dalla Corte di Appello di Milano con successiva comunicazione…) il procedimento sarebbe stato comunque assegnato alla sezione feriale, così come normativamente imposto”. I magistrati poi aggiungono: “Appaiono fuorvianti, illogiche e prive di fondamento le illazioni relative a una ‘attribuzione ad hoc’ alla sezione feriale, cui il procedimento sarebbe stato assegnato sia nel caso in cui la prescrizione fosse maturata al primo agosto 2013, sia nel caso in cui la prescrizione fosse maturata al 14 settembre 2013”. Per questo, secondo i pm, le affermazioni di Franco a Berlusconi (“in effetti là hanno fatto una porcheria, perchè che senso ha mandarla alla feriale?”) costituivano “un tentativo di imbonire il proprio interlocutore, prospettando come elementi di ‘porcheria’ scelte imposte dall’ordinamento”.

Per i pm non ci fu neanche “una forzatura per l’assegnazione del processo alla feriale e più specificatamente al collegio presieduto da Esposito”. E poi aggiungono: “Se è vero che il Presidente Esposito in data 11 luglio 2013 era a conoscenza della diversa data di prescrizione (14 settembre 2013) e che, revocando i provvedimenti in precedenza adottati, avrebbe potuto (non dovuto) individuare altra udienza che consentisse 30 giorni liberi, è vero anche che tale circostanza era patrimonio certo di conoscenza della difesa che sul punto ha interloquito con Esposito”. Infine in un altro passaggio della richiesta di archiviazione, la constatazione dei pm: “La morte del Franco, il tempo trascorso e la connessa prescrizione precludono indagini su eventuali reati intervenuti nel corso dei menzionati incontri”. Qui torniamo, secondo i magistrati, nel campo delle circostanze che non potranno essere verificate. E intanto i legali di Berlusconi hanno depositato a Brescia istanza di revisione di quella condanna definitiva.

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Perché ora Cairo può perdere il “Corriere”

Perché ora Cairo può perdere il “Corriere”
Rcs – Per evitare la causa negli Usa serve un’intesa con Blackstone: più facile con nuovi azionisti
Il paradosso di Urbano Cairo è questo. Cinque anni fa ha preso un’azienda editoriale abbastanza malmessa e peggio guidata – la Rcs che edita tra l’altro il Corriere della Sera – e l’ha sostanzialmente risanata a colpi di tagli: ad esempio il 2020, nonostante un crollo del fatturato attorno al 20% (soprattutto causa Covid), si è chiuso in utile e con meno debiti. Ora, però, una maldestra – e si dice malconsigliata – iniziativa legale potrebbe costargli il controllo dell’azienda.Serve un breve riassunto della situazione per capire perché il quotidiano che fu un tempo della buona borghesia lombarda – ed è da sempre al centro di battaglie furiose in quello stagno che è il capitalismo italiano – potrebbe passare di mano nei prossimi mesi. Tutto inizia nel 2013 quando Rcs – allora governato dal “salotto buono” degli Agnelli, di Mediobanca, Pirelli e compagnia cantante – decise di vendere il palazzo di via Solferino, storica sede del CorSera, al fondo Usa Blackstone per 120 milioni, firmando al contempo un contratto d’affitto dello stabile da 10,3 milioni l’anno. Un pessimo affare finalizzato con la consulenza del gruppo Intesa, all’epoca azionista e tra i maggiori creditori di Rcs.Nel 2016 poi, all’esito di una complicata scalata favorita sempre da Banca Intesa, il controllo dell’azienda passò al parvenu Urbano Cairo, che tre anni prima s’era opposto – insieme a Diego Della Valle, al notaio Piergaetano Marchetti e pochi altri – alla vendita di via Solferino. Nel 2018 la scelta che ora sta mettendo nei guai il piccolo Berlusconi: la causa intentata con l’ausilio dello studio Bonelli Erede a Blackstone, accusata in sostanza di usura per essersi approfittata dello stato di bisogno di Rcs. Il lodo arbitrale seguito a quella causa, venerdì, ha visto vincitore il fondo Usa: Rcs ha venduto per motivi “gestionali”, dicono gli arbitri, non perché fosse costretta “a ogni costo” e ha venduto agli americani perché le consentivano di incassare subito. Non solo tutte le richieste di risarcimento di Rcs sono state respinte, ma ora per l’azienda potrebbero arrivare i danni veri.

La situazione è questa. Quanto a Rcs, archiviata recentemente anche l’inchiesta penale per usura, le resta solo l’impervia strada di un ricorso contro l’arbitrato. Nel frattempo, però, a New York ripartirà la causa per danni presentata da Blackstone (sempre nel 2018 il contenzioso le ha impedito di vendere il palazzo ad Allianz per 250 milioni): il fondo chiede 300 milioni a Rcs e 300 milioni a Cairo in persona, che però ha ottenuto la manleva totale dal cda dell’azienda che lui controlla col suo 65%. Cifre che la ex Rizzoli è lontanissima dal potersi permettere: capitalizza 400 milioni e non ha appostato neanche un euro al fondo rischi.

Una soluzione, la più razionale, sarebbe un accordo tra le parti, ma difficilmente Blackstone vorrà arrivarci con chi li ha definiti usurai. Per questo a Milano e tra gli altri azionisti forti di Rcs – che non hanno mai amato l’uomo che li aveva messi in mutande nel 2016 – si ricomincia a parlare di una nuova proprietà: Del Vecchio, i Pesenti o chissà chi altro. Una soluzione che non dispiacerebbe neanche a Intesa, che da advisor sarebbe stata – secondo l’accusa – oggettivamente complice dei “cravattari”. Brutte giornate per Cairo, che ha perso l’arbitrato e si trova pure col suo Torino in lotta per non retrocedere in Serie B e una mezza rivolta dei tifosi: potrebbe mai reggere se non fosse più il padrone di Corriere della Sera e Gazzetta dello Sport?

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L’arsenale in cantina del giudice corrotto che scarcerava i boss

Lanciarazzi, mitra e fucili nella collezione del gip barese de Benedictis. S’indaga per capire se comprasse armi per passione o per conto dei clan
LECCE – “Abbiamo trovato una botola. Siamo entrati: dottore, lei non può capire cosa ho davanti agli occhi. Non so dove siamo capitati”. Il primo poliziotto che ha messo la testa in una cantina, nascosta, di una masseria della provincia di Bari, non poteva credere ai suoi occhi. Cercavano un paio di armi di contrabbando. Hanno trovato il “più grande arsenale mai sequestrato in Italia”, qualcosa “che fa pensare all’arsenale di una cosca di mafia di altissimo livello”: 193 pezzi. Kalashnikov, M15, lanciarazzi. Non era, però, l’arsenale di un clan. Ma di un giudice, il gip di Bari Giuseppe de Benedictis, che qualche giorno prima era stato arrestato con una mazzetta in mano. La storia è incredibile e, se non fosse drammaticamente vera, avrebbe un retrogusto letterario: un oscuro giudice che nasconde nell’agriturismo di un conoscente un arsenale da guerra. Perché? Per conto di chi?

È la domanda cui sta cercando di dare una risposta il procuratore di Lecce, Leonardo Leone de Castris, che, dopo aver arrestato il giudice e un avvocato stimatissimo, Giancarlo Chiariello, in un’inchiesta di mazzette che sembra però l’incipit di un mondo di mezzo (scarceravano i boss per qualche decina di migliaia di euro: ma che lavoro facevano in realtà per loro? Di chi era quel milione in contanti trovato a casa dell’avvocato, in pacchetti sotto vuoto?), si è trovato quasi per caso nel mezzo dell’arsenale.

De Benedictis è un collezionista: era stato già arrestato anni fa e poi assolto in Cassazione. Assoluzione che gli aveva consentito di tornare a fare il giudice. “Con le armi ha evidentemente un rapporto patologico”, raccontano oggi gli inquirenti. Ma, altrettanto evidentemente, è da considerarsi “un trafficante di armi da guerra”, con collegamenti “sia istituzionali che non istituzionali anche di criminalità organizzata, non solo a livello personale”.

La lista del materiale sequestrato è impressionante: il 75%, secondo l’analisi che ne ha fatto Repubblica, sono da considerarsi armi da collezione. Aveva un museo di mitragliatori della seconda guerra mondiale, compresi i rari Mp43 usati dalle Ss. Sono armi che quasi certamente arrivano dalla ex Jugoslavia e, per quanto funzionanti e in grado di fare una strage, sono di difficile utilizzo. “Purtroppo è bello, è storico ma non è efficiente. O meglio, il mestiere lo fa ma è troppo pesante…” diceva non a caso il giudice di un grosso mitragliatore che stava per arrivare. Nell’elenco c’è poi il mitra Franchi 57, arma utilizzata dai mercenari katanghesi nei massacri africani. E il rarissimo mitra Socimi, prodotto negli anni 80 in pochi esemplari. E micidiale. Come gli esplosivi e gli inneschi del giudice, come l’Ar15, il fucile d’assalto, i Kalashnikov, le pistole Cz (usate anche dall’Isis) e altre decine di armi in grado di uccidere.

Quello che emerge dalle indagini è che la collezione è frutto di decenni di raccolta da parte del giudice. Consentita anche da chi, in Cassazione, lo aveva assolto. E che de Benedictis usava tutti i canali illegali per procurarsi le armi. L’armiere ufficiale era un caporal maggiore dell’esercito, Antonio Serafino, ora in carcere. “Tra gli accertamenti da espletare vi sono quelli di una possibile sottrazione di armi all’Esercito – scrive la gip – con il contributo di altri pubblici ufficiali infedeli, che hanno garantito copertura”. C’era anche un’altra persona di primo livello, “mister X”, che aiutava De Benedictis. “L’importante è che non arrivino a quello” si preoccupava il giudice.

È chiaro però che de Benedictis avesse un filo diretto con la criminalità organizzata. Le indagini mirano ad accertare se le comprasse soltanto, magari in cambio di scarcerazioni (le inchieste hanno accertato che il gip aveva venduto la sua funzione, scarcerando mafiosi pugliesi di primo livello). O se le detenesse anche per conto dei clan. Certo, era consapevole della delicatezza della questione: aveva preparato un trasferimento di armi “con l’aiuto di cinque carabinieri”. Avevano organizzato la scorta al carico. “Devi fare le vedette, se là ti prendono con un carico del genere è meglio che ti spari perché si rischiano 20 anni”, diceva De Benedictis. Che, ora, chiuso nel carcere di Lecce, sa che ne rischia anche di più.

FONTE: CORSERA