venerdì, 19 Aprile 2024
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MEGLIO PEGGIO DAI GIORNALI DI OGGI

Gli Usa: “Stop a J&J” Effetto AstraZeneca sul vaccino monodose

Gli Usa: “Stop a J&J” Effetto AstraZeneca sul vaccino monodose

La terza ondata

di Stefano Caselli e Natascia Ronchetti | 14 APRILE 2021

Neanche il tempo di esultare per il primo mini-lotto di Johnson&Johnson atterrato in Italia, che subito le prime 184 mila dosi del vaccino monodose made in Usa devono tornare in magazzino. La Food and Drugs Administration (l’Agenzia statunitense del farmaco) ha infatti ieri ordinato lo stop precauzionale, con effetto immediato, della somministrazione di J&J negli Stati Uniti, a causa di sei casi di trombosi venosa e cerebrale (su 6,8 milioni di somministrazioni totali), una rarissima patologia riscontrata in sei donne di età compresa tra i 18 e i 48 anni: una è morta, un’altra si trova ricoverata in gravi condizioni. L’azienda ha di consegueza sospeso le consegne previste in Europa.Se anche non fossero realmente a rischio le 200 milioni di dosi attese dall’Ue entro la fine del 2021 (le autorità Usa potrebbero già oggi dare un nuovo via libera, magari con qualche limitazione), un nuovo caso AstraZeneca potrebbe essere un duro colpo per la campagna vaccinale europea. Un colpo è sicuramente per l’Italia, alle prese con un oggettivo problema di forniture. Le 184 mila dosi sbarcate ieri a Pratica di Mare sono infatti le prime di 26,57 milioni attese nel nostro Paese entro la fine dell’anno (7,31 entro giugno, 15,94 entro settembre e 3,32 entro dicembre). Il rischio – oltre al ritardo certo nelle consegne che influirà non poco sul piano Figliuolo – è che si inneschi un nuovo effetto AstraZeneca, la diffidenza verso un prodotto sospeso per accertamenti su effetti letali comunque rarissimi (nel caso specifico meno di uno su un milione, come ha sottolineato anche Anthony Fauci, direttore dell’Istituto malattie infettive degli Stati Uniti e consigliere capo per la Salute della Casa Bianca).

Lo stop precauzionale della Fda, tuttavia, non deve stupire più di tanto. Johnson & Johnson, infatti, è un vaccino a vettore virale come AstraZeneca e come tale sta dando gli stessi (rarissimi) effetti collaterali. Già dall’8 aprile Ema (l’Agenzia europea del farmaco) aveva avviato indagini su 4 casi di trombosi denunciati negli Stati Uniti: “Al momento – comunica Ema – non è chiaro se esista un’associazione causale”. L’attenzione da parte di Aifa, l’agenzia italiana del farmaco, è ovviamente alta, così come quella del ministro della Salute, Roberto Speranza. E anche se per ora non è scattato il grande allarme (“Penso comunque che si debba usare”, ha commentato Speranza), il caso Johnson&Johnson ieri è stato al centro di una riunione al ministero con i vertici della stessa agenzia. Molti medici lo avevano previsto: dopo il caso AstraZeneca ci sarebbe stato un caso Johnson&Johnson: “Parliamo di due vaccini simili, a vettore virale – spiega Gabriele Gallone, medico esperto di vaccini, membro del direttivo di Anaao, sindacato dei medici dirigenti del Ssn –. Con entrambi si può creare una reazione tra il vettore e le piastrine che genera un richiamo di cellule infiammatorie che provocano il trombo. Il rischio è reale ma estremamente basso: circa 4 casi ogni milione di vaccinazioni. Come ha dimostrato uno studio danese, nelle donne che assumono la pillola anticoncezionale i casi di trombosi sono 629 ogni milione”.

A differenza dei vaccini Usa Pfizer/Biontech e Moderna, che utilizzano una tecnologia diversa basata sull’Rna messaggero (mRna), i sieri AstraZeneca e Johnson&Johnson utilizzano due virus.

Il primo l’adenovirus dello scimpanzé, il secondo un virus umano. “Il problema, qualora venisse utilizzato anche da noi, si riproporrebbe anche con il russo Sputnik, altro vaccino a vettore virale che però per la prima dose usa l’adenovirus uguale a quello di AstraZeneca e per la seconda dose quello uguale al vaccino Johnson&Johnson – prosegue Gallone –. L’Europa finora ha fatto una comunicazione pessima sui vaccini. E sarebbe folle pensare di poter utilizzare solo i vaccini mRna: la produzione mondiale è insufficiente a soddisfare la domanda. Dovremmo aspettare ancora molti mesi e in questa situazione dobbiamo basarci anche sui vaccini a vettore virale”.

Molte speranze sono riposte sul siero tedesco Curevac, anche questo basato sull’Rna messaggero, che si conserva a una temperatura di 5 gradi. Ma non dovrebbe arrivare prima di giugno. C’è poi il vaccino della casa farmaceutica Usa Novavax (con la quale sta trattando la Ue), che usa le proteine del virus.

Miracolo Celeste: riecco il vitalizio da 7mila euro

Miracolo Celeste: riecco il vitalizio da 7mila euro

Ok del Senato. Ora Del Turco

di  | 14 APRILE 2021

Il Senato ha ridato il vitalizio da 7.000 euro al mese a Roberto Formigoni: tutto intero, arretrati compresi. Perché la commissione contenziosa di Palazzo Madama ha letteralmente fatto carta straccia della delibera del 2015 con cui l’allora presidente Piero Grasso aveva imposto la sospensione dell’assegno agli ex senatori condannati per reati gravi fino all’eventuale riabilitazione. E così, grazie alla decisione presa ieri dalla commissione presieduta da Giacomo Caliendo di Forza Italia, dovrà essere restituito il vitalizio non solo al Celeste, condannato in via definitiva per aver asservito la sua funzione agli interessi economici della Fondazione Maugeri e del San Raffaele. Ma pure agli altri ex rimasti a secco causa fedina penale, per usare un eufemismo, non immacolata. Una decisione che innanzitutto potrà essere applicata anche a Ottaviano Del Turco, condannato per aver preso mazzette nell’ambito della sanitopoli abruzzese, il cui vitalizio è ormai divenuto una telenovela: prima l’annuncio della revoca dell’assegno poi l’immediata sospensione della revoca stessa: domani, grazie alla “fortuna” che ha baciato Formigoni il caso sarà chiuso.Non si conoscono ancora le motivazioni della sentenza firmata da Caliendo&C. ma il dispositivo è piuttosto eloquente: “Disattesa ogni contraria istanza, eccezione e difesa, accoglie il ricorso e annulla delibera n. 57/2015 del Consiglio di Presidenza (quella che ha imposto la regola dello stop ai vitalizi per i condannati, ndr) e la successiva delibera n. 28/2019 del Consiglio di Presidenza (la decisione con cui erano stati chiusi i rubinetti al Celeste, ndr)”. Inutile dire che Formigoni non sta più nella pelle: “La commissione Contenziosa rimedia a un errore clamoroso. Ho ottenuto una misura di giustizia non solo per me ma per tanti altri cittadini” ha detto l’ex presidente della Lombardia assistito dall’avvocato Domenico Menorello che al Fatto dice: “Al Senato qualcuno ha riconosciuto che lo stato di diritto è ancora un valore: non è contemplato che qualcuno debba morire di stenti come misura punitiva”.E sì perché Formigoni ha sostenuto di essere alla frutta, ai domiciliari per via della condanna e senza il becco di un quattrino. “Avendo, infatti, dedicato l’intera esistenza alle istituzioni, le uniche fonti reddituali a disposizione della sua ‘terza età’ potevano consistere negli assegni vitalizi della Regione Lombardia e del Parlamento italiano” aveva scritto nel suo ricorso lamentandosi della spietatezza della Corte dei Conti che sorda a ogni suo richiamo gli ha pignorato l’assegno erogato dalla Regione negando che si tratti di una pensione. Ora Palazzo Madama gli ha riaperto invece i rubinetti ridandogli tutto intero il vitalizio di ex senatore che gli era comunque in parte stato già restituito due anni fa in via cautelare. Quando sempre Caliendo&C. gli avevano accordato un assegno di mantenimento riconoscendogli le tutele dell’articolo 38 della Costituzione in base al quale “i lavoratori hanno diritto che siano preveduti e assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria”.

E allora a chi altri potrebbe essere restituito il vitalizio riottenuto dopo tanto lottare dal condannato Formigoni? Al Senato, per via delle condanne è stato tolto ad alcuni pezzi da novanta come Silvio Berlusconi, Marcello Dell’Utri o Vittorio Cecchi Gori (nella lista dei revocati ci sono anche Ferdinando Di Orio, Vincenzo Inzerillo, Giorgio Moschetti, Franco Righetti. Per chi è morto, come Giuseppe Ciarrapico, a questo punto potrebbero vantare delle pretese gli eredi). E alla Camera? Attendono “giustizia” l’ex ministro della Sanità Francesco De Lorenzo, l’indimenticato Giancarlo Cito e un altro paio di ex deputati, Luigi Sidoti e Raffaele Mastrantuono: che da anni reclamano il malloppo e pure gli arretrati. Anche loro da ieri sperano. E forse hanno già messo in fresco lo champagne.

Caccia grossa a Speranza, l’ultimo rigorista di Conte

Caccia grossa a Speranza, l’ultimo rigorista di Conte

Il ministro assediato

di Alessandro Mantovani e Wanda Marra | 14 APRILE 2021
Per adesso Roberto Speranza non si tocca, ma rischia di essere il primo a pagare, qualora tra vaccini e riaperture le cose continuassero ad andare storte. Ieri Palazzo Chigi ha smentito l’ipotesi che il ministro della Salute rischi il posto, come scritto dal Messaggero, ma l’ha fatto solo a richiesta, senza una nota ufficiale. E ha ricordato sia l’incontro con Pier Luigi Bersani della settimana scorsa, sia la difesa pubblica del ministro fatta da Draghi in conferenza stampa. Ma la situazione non è affatto tranquilla. Una fonte di governo, piuttosto lontana da Speranza, racconta che il pasticcio del dossier Oms sparito dà fastidio a Draghi, come i balletti sui piani pandemici oggetto dell’inchiesta di Bergamo e alcuni ritardi della Salute, ma Speranza resta dov’è, per quanto ridimensionato, anche perché se va male paga lui. Un parafulmine. Per tutto il giorno si continuavano a inseguire voci della ricerca di un’alternativa per Speranza, compreso il posto di Sandra Gallina, negoziatrice dei vaccini, a Bruxelles: sarebbe o fuori dall’orizzonte del ministro, che punta a giocare un ruolo anche nell’alleanza Conte-Letta. Dal ministero della Salute parlano di pizzini e polpette avvelenate, i cui mandanti non sarebbero solo la Lega di Matteo Salvini, ma anche tutti quelli che – da Matteo Renzi in poi – non vogliono l’alleanza organica tra Letta, Conte e Articolo uno. Compresi gli anti-contiani nel Pd che hanno lavorato contro l’avvocato.Ieri Speranza e Draghi si sono parlati: anche il presidente del Consiglio vede una strategia da parte del leader del Carroccio per far sembrare che il governo è più spostato su di loro, ma i due stanno portando avanti un ampio lavoro politico. Dice anzi un ministro di centrodestra che il rapporto tra loro è eccellente.Eppure Speranza è l’unico superstite del gruppo che gestì la pandemia con Conte. E Draghi la discontinuità l’ha voluta esibire, con la sostituzione a tempo record di Domenico Arcuri e di Angelo Borrelli, oltre che di Francesco Boccia. Negli ambienti vicini a Speranza c’è anche chi dice che si attacca il ministro per indebolire il presidente del Consiglio. Sarà forse un caso, ma da quando Draghi ha pubblicamente difeso Speranza, si sono moltiplicate le notizie di inchieste su uomini a lui vicini. È il caso di Ranieri Guerra, l’inviato dell’Oms indagato a Bergamo.Poi la Verità ha tirato in ballo non solo Arcuri, ma anche D’Alema. Sono attacchi a Speranza, sostengono da Articolo uno. Ma se nelle carte delle inchieste dovesse spuntare qualche parola di troppo del ministro, la sua posizione si farebbe difficile. Di certo, è l’unico esponente sia del progetto politico di D’Alema, sia di quel gruppo di potere, ad aver conservato un ruolo chiave. E adesso nel Recovery Plan ci sono i soldi per la Salute: altro motivo per mettere nel mirino il ministero.

Oggi il Quirinale ancora considera Speranza inamovibile, visto che siamo in piena pandemia. Ma ieri Peppe Provenzano, vicesegretario del Pd, fa notare in un’intervista all’Huffington Post: “Vogliono farne il capro espiatorio per non aver mantenuto la promessa irresponsabile di aprire tutto e subito, e magari togliersi le mascherine”. È la linea discussa ieri nella segreteria dem, anche se poi né il Pd né il M5s si spendono granché nella difesa pubblica di Speranza. Semmai Draghi “ora deve pretendere lealtà da Salvini”, dice ancora Provenzano. Ancora ieri il leader della Lega cavalcava le proteste di piazza, e alludendo al libro di Speranza (ritirato precipitosamente a ottobre ma uscito su Amazon France, come haraccontato ieri Il Foglio) lo definiva “arrogante” e “volgare”. Ma più Salvini attacca frontalmente Speranza, più Draghi deve blindarlo.

Le Agorà di Bettini: la sinistra si riprenda il “suo” popolo e guardi a Giuseppe Conte

Le Agorà di Bettini: la sinistra si riprenda il “suo” popolo e guardi a Giuseppe Conte

di Sal. Can. | 14 APRILE 2021
Un partito che ricrei quel “canale di scorrimento tra l’alto e il basso” e che ritrovi il “suo popolo”. Questo è il messaggio principale del Manifesto che darà oggi vita alle Agorà di Goffredo Bettini. Un’area che non è una corrente e che vuole parlare di intreccio tra “libertà e uguaglianza”, di diritti, lavoro, Europa. Finora “la sinistra non è stata all’altezza”, le ingiustizie non sono state sanate dopo la fase, ’89-91 in cui la politica italiana è stata sconvolta e bisogna ricostruire un “riformismo” che non sia “brandito come un manganello vuoto”, ma metta “al centro gli esseri umani contro la logica del profitto”.Alla sinistra si riconosce il “coraggio” del dialogo con il M5S “attraversando” di nuovo quel popolo che in parte le apparteneva. Bettini rivendica il governo Conte-2 e dice che l’ex premier “non è un ferro vecchio”, ma oggi un “alleato e concorrente” così come anche l’area liberale di Carlo Calenda (Renzi non pervenuto). L’identità è per ora un dittico, “socialismo e cristianesimo”. Un’ambizione ampia, i fatti diranno se sarà una cosa seria.

Gli show “aperturisti”di Salvini per fermare la corsa di Meloni

Gli show “aperturisti”di Salvini per fermare la corsa di Meloni

di  | 14 APRILE 2021
Si marcano stretti. Si tengono d’occhio. Anche e soprattutto sul fronte economico. Facendo a gara a chi difende di più e meglio le categorie messe in ginocchio dal Covid. Così, se un giorno Matteo Salvini incontra una delegazione di ristoratori, con immancabile foto a immortalare, il giorno appresso Giorgia Meloni vede Confcommercio. Se uno parla agli albergatori, l’altra ascolta i negozianti.Insomma, la Lega non vuole lasciare il tema “riaperture” al suo competitor alleato. Così ieri, per esempio, in commissione alla Camera il Carroccio ha presentato una serie di emendamenti “aperturisti” al decreto-marzo del governo Draghi, votati anche da FI e FdI. Il più discusso, rivendicato ieri da Salvini, quello sulla possibilità dei governatori di allentare le restrizioni autonomamente. Il centrodestra, dunque, si ricompatta per un giorno, con la Lega a far più il partito di lotta che di governo. Il leader leghista, del resto, ha dovuto ingoiare il rospo dello slittamento delle riaperture a maggio dopo che essersi tanto speso per aprile. E non c’è giorno che non pungoli il governo in tal senso, salvo poi rassicurare: “Con Draghi c’è sintonia e fiducia”.La leader di Fratelli d’Italia, da par suo, può permettersi di non calcare troppo la mano. Sarebbe facile per lei fare “la Salvini della situazione”. E invece da una parte attacca l’esecutivo, dall’altra incontra il neosegretario del Pd, Enrico Letta, e organizza convegni invitando Colao e Cingolani. Appena si potrà, vuole partire per un tour europeo, nelle cancellerie occidentali. Non come Salvini, che due settimane fa ha tenuto un vertice sovranista con Orban e Morawiecki.È un derby che si gioca a tutto campo, quello tra Meloni e Salvini. In palio c’è la leadership del centrodestra, ma anche i rapporti con l’eurozona e gli Usa. “Il nostro obiettivo è il 25%. Nel segno di meno sovranismo e più responsabilità”, ha dichiarato Guido Crosetto. Unico partito di opposizione, da soli contro tutti, ma anche “bravi a non esagerare, per non fare la fine di Marine Le Pen”, racconta un deputato FdI.

Della moderazione meloniana si è avuto contezza sul Copasir, dove Giorgia avrebbe potuto dar fuoco alle polveri e invece si è molto trattenuta. Dopo qualche uscita da bullo di Salvini (“io mi occupo di vaccini e riaperture, non di poltrone”), ora sulla vicenda s’intravede la fine, anche grazie alla sponda del Quirinale: dimissioni di tutti i commissari ed elezione di un nuovo presidente, che sarà un deputato meloniano, ma non il senatore Adolfo Urso. “Azzeriamo tutto. Noi siamo pronti alle dimissioni”, ha detto ieri Salvini. E Meloni potrebbe starci, ché, così facendo, otterrebbe almeno tre commissari dei cinque che spetterebbero all’opposizione, tra cui il nuovo presidente.

Ma la guerriglia tra le due forze è a tutto campo. Nel mese di marzo, per esempio, a Savona il presidente del consiglio regionale, Renato Giusto, ha lasciato la Lega e ora è a un passo da FdI. In Abruzzo, Umberto D’Annuntiis ha lasciato FI per aderire a FdI. Segno che il derby sovranista si gioca pure sulle spalle dei berluscones.

Come in Lombardia, dove sempre più insistenti sono le voci di un passaggio dell’ex assessore azzurro Giulio Gallera al partito meloniano. Mentre al Pirellone i tre consiglieri di destra fanno quasi vita a sé, in una sorta di Aventino contro il governatore Attilio Fontana. “Non vengono nemmeno più alle riunioni di maggioranza”, si lamentano i forzisti. La Lega, intanto, incassa un’altra pedina importante, quella di Massimiliano Fedriga alla presidenza della Conferenza delle Regioni. In Parlamento, poi, altri nervosismi. Con i meloniani consapevoli della loro posizione di vantaggio. E i leghisti a dividersi. Nei giorni scorsi, per dire, mentre in Senato Alberto Bagnai proponeva nuovi farmaci anti-Covid, con tanto di medici al seguito, Giancarlo Giorgetti partecipava a un webinar con i ceo italiani di Pfizer, J&J e AstraZeneca. Nell’ultimo sondaggio di Swg per il tiggì di Mentana, la Lega cala al 22%, mentre FdI è al 17,3. Il Carroccio sente il fiato sul collo e questo complica anche la partita per i candidati amministrativi. Dove lo stallo è totale.

La storia sono loro: tv pubblica affare della famiglia Minoli?

La storia sono loro: tv pubblica affare della famiglia Minoli?

Canale preferito – Il giornalista e la corsa al posto nel cda, la moglie e la casa di produzione, il genero e lo sponsor per la nomina a futuro Ad

di  | 14 APRILE 2021
Trattasi di vera e propria “Minoleide”. La trattativa “Stato-giornalista” per l’archivio di La Storia siamo noi è solo la punta dell’enorme blocco di ghiaccio sommerso, nelle relazioni tra la Rai e Gianni Minoli.Ricapitoliamo: il volto storico di Mixer ha lanciato la sua candidatura pubblica per il grande rientro in Viale Mazzini. Vuole una poltrona nel cda Rai, che entro l’estate dovrà essere rinnovato integralmente, compresi presidente e amministratore delegato. Minoli ritiene – peraltro in modo legittimo – di avere le qualità per ottenere anche la carica più alta, la presidenza occupata dal 2018 da Marcello Foa.Oltre al curriculum, però, nelle sue interviste ha “allegato” alla candidatura una sostanziosa questione economica rimasta in sospeso da oltre 10 anni: nel 2010 l’ex direttore generale Mauro Masi gli ha regalato (con un accordo rimasto lontano dai riflettori) i diritti delle immagini di La Storia siamo noi, un archivio che contiene autentiche gemme della storia nazionale. Lo ius di Minoli riguarda tre anni (2010-2013) e 576 ore di girato. Considerato che il valore di mercato oscilla tra gli 800 e i 1.000 euro al minuto, parliamo di un tesoro da una trentina di milioni di euro. Con una lunga lettera al Foglio, ieri Masi ha confermato in sostanza lo svolgimento dei fatti, ritenendo la concessione dell’archivio a Minoli “una clausola che rientrava pienamente nella prassi e nel diritto comune” e che “spingeva le parti verso un’auspicata rinegoziazione per la quale concedeva ben dieci anni di tempo”.I dieci anni sono passati senza che nessuno se ne occupasse, né la Rai né Minoli. Solo di recente se n’è ricordato il giornalista, che a questo punto vanta un credito di una certa rilevanza. È con questo impercettibile strumento di persuasione che Minoli ha iniziato a far considerare il suo profilo per le prossime nomine.

L’eventuale ritorno in Rai avrebbe del clamoroso. Non certo per le qualità del professionista, una figura di assoluta eccellenza nella storia del servizio pubblico, ma per il macroscopico conflitto d’interessi che porterebbe in dote Minoli nel cda o alla presidenza. Non solo e non tanto per la questione multimilionaria dell’archivio (a quel punto sarebbe trattativa “Minoli-Minoli”), ma per i rapporti commerciali ancora più pesanti che legano la tv pubblica alla casa di produzione Lux Vide di Matilde e Luca Bernabei, moglie e cognato di Gianni. La società lavora assiduamente con la Rai, alla quale ha venduto, tra gli altri, prodotti come Don Matteo, Un passo dal cielo, I Medici, Che Dio ci aiuti, Sotto copertura, C’era una volta Studio Uno. Il gioiello di famiglia di recente è stato messo sul mercato, ma anche se dovesse essere venduto (tutto o in parte) in tempi brevi, i Bernabei dovrebbero conservare incarichi operativi.

Ma c’è un’altra notizia che rimbalza tra i corridoi di Viale Mazzini che potrebbe trasformare il settimo piano – quello nobile della dirigenza – in un’autentica dependance di casa Minoli. Il ministro della Cultura Dario Franceschini starebbe valutando di spingere come prossimo amministratore delegato della Rai il suo uomo di fiducia (e segretario generale al Mibact) Salvo Nastasi. Lo scrive sul sito Sassate.it – generalmente ben informato sui fatti della tv pubblica – l’ex direttore Comunicazione della Rai, Guido Paglia. Nastasi è sposato con Giulia Minoli, figlia di Gianni e Matilde Bernabei. Se si dovesse realizzare, anche in parte, la clamorosa triangolazione minoliana, per adesso frutto di suggestioni e (auto)candidature, ci sarebbe una concentrazione di potere spaventosa nella televisione nazionale.

“Arcuri ha pieni poteri: adesso è sul seggiolone”

“Arcuri ha pieni poteri: adesso è sul seggiolone”

di  | 14 APRILE 2021

“Occorre lavorare con chi adesso è sul seggiolone e vi rimane con pieni poteri. Fra poco esce la nomina di Arcuri a Commissario”. L’11 marzo 2020, una settimana prima della nomina di Domenico Arcuri a commissario straordinario per l’emergenza Covid, Mario Benotti – giornalista Rai in aspettativa – così parlava in un gruppo Whatsapp denominato “New Alitalia”. Della chat faceva parte l’ex dirigente della Leonardo Spa, Daniele Romiti (estraneo all’inchiesta della Procura di Roma) e Andrea Tommasi. Quest’ultimo, titolare della SunSky spa, è indagato insieme a Benotti per traffico di influenze illecite nell’ambito dell’inchiesta sulla fornitura allo Stato italiano di 801 milioni di mascherine, acquistate dalla Cina al costo di 1,2 miliardi. Nello stesso fascicolo risultano iscritti per peculato l’ex commissario Arcuri – oggi a capo dell’agenzia Invitalia – e il suo vice Antonio Fabbrocini.

Le nuove chat di Benotti emergono dall’ordinanza del Tribunale del Riesame, con la quale i giudici hanno respinto le istanze degli avvocati di altri mediatori che chiedevano il dissequestro dei conti. I giudici parlano anche di Benotti: il giornalista – scrivono – ha ricevuto una “attenzione privilegiata” da parte di Arcuri, “rispetto a eventuali concorrenti”. Proprio Benotti parla anche della nomina di Arcuri, che sarebbe avvenuta il 18 marzo 2020.

Sette giorni prima di quella data, il giornalista scriveva, riferendosi all’ex commissario: “Siamo stati insieme adesso un’ora per vedere il suo decreto e ho dato alcuni suggerimenti”, spiegando che “è in questa fase la persona più importante del Paese”. Per i giudici quindi Benotti ha “sostenuto perfino di aver contribuito alla stesura del suo decreto di nomina a Commissario”.

Sentiti dal Fatto, gli uffici dell’ex commissario smentiscono, sostenendo che la ricostruzione è “clamorosamente destituita di fondamento”. L’ex commissario, come detto, è iscritto ora per peculato. I magistrati vogliono capire se fosse stato a conoscenza delle provvigioni incassate da Benotti (12 milioni circa) come intermediario per la fornitura di quelle mascherine. Sentito qualche mese fa, il giornalista ha negato: non informò Arcuri dei suoi incassi. Intanto i magistrati stanno passando al setaccio le email e i messaggi tra i due.

Per i giudici del Riesame, Benotti quel compenso lo aveva concordato prima (ma non significa che ne avesse informato Arcuri). “Deve ritenersi – scrive il Riesame – che il compenso del Benotti fosse stato previsto e quantificato quando ancora non era noto l’esito della sua opera di intermediazione”. Benotti, per i giudici, “si era accreditato presso la Struttura commissariale per il solo fatto di essere amico di Arcuri”. Nel provvedimento, infine, sono citati alcuni dei messaggi che Benotti ha inviato ad Arcuri fra il 19 marzo e il 22 aprile 2020, a cavallo della firma dei contratti.

Fra i due, notano i giudici, viene usato “un linguaggio basato su metafore ecclesiastiche”. “Ove Lei avesse dieci minuti per me avrei bisogno di abbeverarmi al suo sapere dopo una passeggiata nei Giardini”, scriveva Benotti, chiedendo di “pregare insieme” quando voleva parlargli in privato.