venerdì, 19 Aprile 2024
Home Attualità MEGLIO PEGGIO DEI GIORNALI DI POGGI

MEGLIO PEGGIO DEI GIORNALI DI POGGI

Se indagano il lampadina la stampa s’abbiocca

di  | 11 APRILE 2021

Ieri con un filo di commozione abbiamo ricordato i vecchi tempi, quando le prime notizie sull’allora ministro Luca Lotti e l’inchiesta Consip uscivano sul Fatto in beata solitudine, ignorate dal resto della stampa e dei media italiani, oppure imboscate nelle pagine periferiche dei giornali. Stavolta non parliamo di Consip, ma di Lotti sì: è indagato (anche) per corruzione (oltre che per finanziamento illecito) nell’inchiesta sulla Fondazione Open, l’ex “cassaforte” del renzismo negli anni d’oro del Giglio Magico. La posizione di Lotti si aggrava insieme a quella dell’ex presidente di Open, l’avvocato Alberto Bianchi (con loro due sono indagati anche il costruttore Alfonso Toto e l’imprenditore Patrizio Donnini). Ma proprio come ai vecchi tempi, questa notizia sui giornali italiani non la troverete, è praticamente scomparsa. Con la notevole eccezione di Repubblica – che la mette addirittura in prima pagina – l’ennesima tegola giudiziaria sul “Lampadina”, che per tanti anni ha illuminato il percorso di Matteo Renzi, è ignorata da tutti tranne che dal Fatto. Vecchie abitudini

Per salvare l’assegno di Del Turco malato il Senato vuole dare il vitalizio a Formigoni

Per salvare l’assegno di Del Turco malato il Senato vuole dare il vitalizio a Formigoni

Non sanno più a che santo affidarsi e così hanno ben pensato di invocare il Celeste, nel senso di Roberto Formigoni. Perché togliere il vitalizio a Ottaviano Del Turco, condannato per aver ricevuto laute mazzette nell’ambito dell’inchiesta sulla Sanitopoli abruzzese per le quali ancora deve risarcire il danno all’immagine arrecato alla sua regione, ha mandato in tilt Palazzo Madama che traccheggia da quattro mesi senza decidere. Che fare ora che Del Turco è ammalato? Sin qui grandi discussioni di principio tra chi chiede anche per lui l’applicazione delle regole e chi invece invoca la deroga per ragioni umanitarie. Ma in settimana potrebbe esserci una svolta: la Commissione contenziosa del Senato presieduta da Giacomo Caliendo deciderà il ricorso contro la revoca dell’assegno presentato dall’ex presidente della regione Lombardia, che ha perso il privilegio per via dei suoi guai con la giustizia, ma che lo rivuole a tutti i costi: in molti sperano che Caliendo di Forza Italia che ha già bocciato il taglio degli importi degli assegni anche per gli ex senatori con la fedina penale pulita, possa metterci ancora una volta una pezza. Impallinando la delibera nella parte che congela tout court il vitalizio ai condannati senza prevedere eccezione alcuna: che sia indigenza vera o presunta o malattia.

Il tira&molla sul vitalizio da 3.500 euro che continua a essere erogato a Del Turco nonostante la sua condanna sia divenuta definitiva già nel 2018, va avanti a Palazzo Madama da dicembre scorso. Ma adesso se Caliendo darà ragione all’altro ex presidente di regione Formigoni (riconosciuto colpevole di aver asservito la sua funzione agli interessi economici della Fondazione Maugeri e del San Raffaele dietro lauto compenso), la partita potrebbe sbloccarsi pure per lui. Formigoni del resto fa il diavolo a quattro dal 2019: dice di aver subito dal Senato una grande ingiustizia a causa della quale non riesce a mettere insieme il pranzo con la cena dopo essere caduto in disgrazia. In prima battuta ha ottenuto da Palazzo Madama un sostentamento di 700 euro al mese: un vitalizio di cittadinanza che comunque non gli basta. Rivuole tutti i 7.000 mila euro al mese che il Senato gli erogava fino a due anni e mezzo fa e pure gli arretrati. Lui ci crede e sotto sotto pure a Palazzo si spera: Giacomino, pensaci tu!

Grecia, tanti cronisti uccisi ma i casi restano insoluti

Grecia, tanti cronisti uccisi ma i casi restano insoluti

Non solo Karaivaz – L’agguato al reporter avvenuto ad Atene ripropone il tema di un Paese europeo che non tutela gli operatori dell’informazione più esposti

di Michela A.G. Iaccarino | 11 APRILE 2021

Ad Atene qualcuno vuole morti i cronisti. In Grecia la violenza contro i reporter che indagano corruzione e delitti, legami tra politici e criminalità organizzata, soldi sporchi e appalti pubblici, si aggrava ormai dal 2010. Nella penisola è in gioco la sopravvivenza del giornalismo investigativo. Cronaca di una fine annunciata. Sei colpi, due killer, una moto che è sfrecciata via veloce dopo l’esecuzione: l’ultima vittima della libertà di stampa greca è Giorgios Karaivaz, cronista giudiziario e volto noto della tv Star, ammazzato mentre rientrava a casa da moglie e figlio ad Alimos, nel sud della Capitale. In uno degli ultimi articoli di Karaivaz – che indagava su ricatti e accuse contro “politici, giudici, uomini d’affari”, giochi di potere che forse aveva scoperto e si sono rivelati mortali –, si legge: “Non mi ridurrete al silenzio”.

Il rumore degli spari che lo hanno ucciso è arrivato molto lontano dalla periferia di Atene, fino a Bruxelles: “La libertà di stampa è il diritto più sacro di tutti”. Contro “l’atto codardo” che ha messo fine alla vita del giornalista si è espressa anche Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea. L’ultimo lutto ellenico trova però conferma in un dato: nell’indice della libertà di stampa stilato ogni anno da Reporter senza frontiere, la Grecia si trova al 65esimo posto su 180 nazioni. Tra condoglianze e stupore trasversale, il premier greco Kyriakos Mitsotakis ha chiesto alle autorità una “soluzione rapida” delle indagini, che ora attende non solo la Grecia, ma anche il resto dell’Unione europea. Il passato suggerisce però che non si troveranno presto esecutori o mandanti: per nessuno dei giornalisti greci ammazzati in questi ultimi anni sono stati rintracciati colpevoli, moventi o è stata fatta giustizia. Silenziatori e sicari contro voci critiche: un solco che si allarga in maniera inestricabile da almeno dieci anni. In un agguato simile a quello compiuto contro Karaivaz, è morto Socrates Golias, giornalista investigativo e blogger, colpito a morte a 37 anni, di fronte alla moglie incinta nel 2010 a Heliopolis, periferia di Atene. Autore del blog Troktiko, media indipendente da milioni di lettori, Golias è stato raggiunto dalle pallottole del movimento estremista della “Setta dei rivoluzionari”, i cui membri, travestiti da guardie di sicurezza, non sono mai stati identificati o catturati. Le armi usate nel delitto, proprio come nel caso di Karaivaz, erano state usate in crimini precedenti. Omofobo e antisemita, razzista e propagatore di teorie della cospirazione, anche il giornalista Stefanos Chios è stato vittima di un tentato omicidio nel luglio scorso nella periferia di Atene: mentre parcheggiava nei pressi della sua abitazione, gli hanno sparato prima al collo e poi al ventre, ma il commentatore è miracolosamente sopravvissuto.

Non per il piombo delle pallottole, ma per un misterioso incidente è deceduto nel 2016 l’editore del quotidiano Acropolis, Panagiotis Mavrikos: aveva 42 anni. La sua auto è esplosa improvvisamente mentre si trovava in autostrada e, nonostante le lunghe indagini degli inquirenti, il caso è stato archiviato come incidente dalle forze dell’ordine.

La stampa nazionale non tace l’informazione che accomuna tutte le vittime: tutti i casi di omicidio o tentato omicidio sono rimasti irrisolti. Carriere e inchieste dei reporter sono ora celebrate e ricordate dai colleghi, ma le incognite che avvolgono le loro morti, secondo alcuni, sono talmente fitte che ci vorrebbero altri reporter in gamba per risolvere. In Grecia però, questo mestiere porta al cimitero.

Contagi, la curva è stabile. “Io apro” domani in piazza

Contagi, la curva è stabile. “Io apro” domani in piazza

Nuova manifestazione dopo i disordini del 6 aprile

di  | 11 APRILE 2021

“Il contagio ha raggiunto un plateau”, aveva detto venerdì il presidente dell’Iss, Silvio Brusaferro. E alcuni indicatori in discesa continua da alcuni giorni (numero di attualmente positivi e pressione sul sistema sanitario) inducono a un cauto ottimismo, ma in serata ci ha pensato il direttore generale dell’Aifa, Nicola Magrini, a raffreddare gli entusiasmi di chi, come il sottosegretario alla Salute, Andrea Costa, e il presidente della Lombardia, Attilio Fontana, evocano “riaperture entro fine aprile” e “un’estate da liberi”: “La situazione è ancora di estrema gravità – ha detto Magrini – per questo siamo molto preoccupati del numero molto elevato di morti tutti i giorni. La sensazione è che ci sia ancora molto da fare e un po’ da resistere e soffrire per i prossimi due mesi. Lo sforzo attuale è di vaccinare il più possibile”.

Il bollettino di sabato 10 aprile parla di 17.567 nuovi contagi a fronte di 320.892 tamponi (molecolari e antigenici) per un tasso di positività sul totale dei test effettuati al 5,5%, percentuale che sale al 17,2% se calcolato in rapporto al numero delle persone sottoposte a tampone. Dati in lieve calo rispetto allo scorso sabato 3 aprile (21.261 nuovi casi e tasso di positività al 5,9%). Per il quinto giorno consecutivo diminuiscono gli attualmente positivi (perlomeno quelli ufficialmente rintracciati) attualmente a quota 533.085. E da quattro giorni è in calo la pressione sugli ospedali: -492 posti letto occupati nei reparti Covid ordinari per un totale di 27.654 ricoverati. Per quanto riguarda l’occupazione dei posti in terapia intensiva, il saldo rispetto alle 24 ore precedenti è in lieve diminuzione (-15) a fronte di 186 ingressi. Il numero complessivo dei malati gravi è a quota 3.588 Ancora alto il numero dei morti, 344 nelle ultime 24 ore. Il totale sale a 113.923 .

A pochi giorni dalla manifestazione davanti alla Camera, intanto, il movimento “Io apro” ha lanciato un nuovo sit-in in piazza Montecitorio a Roma. “L’ultimatum è scaduto – scrivono su Facebook –. Vi abbiamo dato 48 ore per legittimare le riaperture di tutte le attività economiche. Nessuno ci ha risposto. Porteremo 20.000 persone davanti al Parlamento”. Ma la piazza domani sarebbe già occupata da un altro sit-in.

L’uomo di Gelli alla Boschi: “1 mln di voti se cacci Conte”

L’uomo di Gelli alla Boschi: “1 mln di voti se cacci Conte”

La rivelazione – Domani nella trasmissione di Rai3, il colloquio tra il cronista e l’ex tesoriere della Lega Gianmario Ferramonti

di  | 11 APRILE 2021

Di sé dice “non sono massone”, ma anche “mi considero un gelliano”, rivendicando il legame con il Venerabile della P2. “Sono stato amico di Gelli anche gli ultimi anni della sua vita. Gli ultimi quattro Capodanni li ho passati a Villa Wanda, assieme a lui”, si vantava Gianmario Ferramonti, leghista della primissima ora e uomo di mille affari in mezzo mondo.

Così parlava a Giorgio Mottola di Report ai primi di gennaio. Il giornalista è tornato da lui a fine mese, stavolta senza fargli vedere microfono e telecamera, precisamente il 27 gennaio e cioè all’indomani delle dimissioni di Giuseppe Conte, bersagliato tra gli altri – specie sui giornali di Antonio Angelucci, senatore forzista e signore delle cliniche – da un personaggio come Luigi Bisignani, che ha sempre negato l’iscrizione alla P2 ma compariva negli elenchi sequestrati a Licio Gelli nel 1981.

A Ferramonti, che anni fa aveva raccontato il suo interessamento per dare una mano a Pier Luigi Boschi nell’avventura di Banca Etruria, Mottola ha chiesto dei suoi rapporti con la figlia renziana, Maria Elena: “Anche per questa crisi vi siete sentiti?”. “Diciamo che con la Boschi ho una corrispondenza”, gli ha risposto compiaciuto l’ex leghista. Report trasmetterà il dialogo domani sera su Rai3, nella prima puntata della nuova stagione. “Ci scriviamo, non ci parliamo”, ha chiarito un attimo dopo Ferramonti. “E la stai consigliando anche su questa fase?”, chiede Mottola. “Be’ – spiega Ferramonti – gli avevo dato una piccola notizia, che se buttavano giù questo cretino di Conte magari gli davamo una mano, vediamo”. “Ma gli davate una mano chi voi?”. “Allora, qui hai un rappresentante di Confimpresa – e Ferramonti indica un uomo, oscurato da Report, seduto alla sua destra davanti alla telecamera nascosta –, qui hai un rappresentante di Confimea, della Cifa – e indica se stesso… – Insieme qualche milione di voti ce l’abbiamo, no? E se decidiamo…”. “Spostarli sulla Boschi?”, chiede il giornalista. “Chi sarà al momento giusto al posto giusto…”, dice lui. E poi continuano a parlare di Cecilia Marogna, la misteriosa ex collaboratrice dell’ex numero due della Segreteria di Stato vaticana, il cardinale dimezzato Angelo Becciu. L’inchiesta di Mottola è infatti dedicata allo “sterco del diavolo” e passa da Immacolata Chaouqui a Ferramonti e a Francesco Pazienza, fino a protagonisti di vicende più recenti dei nostri Servizi segreti, passando per Flavio Carboni e Bisignani.

Boschi ha risposto per iscritto a Report che “nei mesi di gennaio e febbraio” ha “ricevuto diversi messaggi telefonici da un numero che non conoscevo ma che, secondo il mittente, corrispondeva all’utenza di tal Gianmario Ferramonti. Non ho mai risposto ai suddetti messaggi – ha assicurato Boschi, né parlato con il sig. Ferramonti, men che mai della crisi di governo”. Sarà senz’altro vero, ci mancherebbe. Come è vero che un mondo di faccendieri legato alle massonerie si agitava e perseguiva uno scopo sostanzialmente sovrapponibile a quello di Italia Viva, promettendo o millantando sostegno a chi avesse agevolato la fine del governo Conte 2 e della maggioranza giallorosa che lo sosteneva. Il giorno in cui Ferramonti si è fatto registrare da Mottola iniziavano le consultazioni al Quirinale, verrà poi l’inutile incarico esplorativo a Roberto Fico e poi quello vero a Mario Draghi. E il 7 febbraio Bisignani, che qualche rapporto anche con Ferramonti l’ha avuto, passava all’incasso, con una lettera al direttore del Tempo Franco Bechis: “Caro direttore, grazie a Renzi e a un Mattarella risvegliatosi in zona Cesarini, l’Italia avrà un governo finalmente autorevole. A parte gli unici tratti in comune rappresentati dal tifo per la Roma, i capelli curati e il completo blu d’ordinanza, Mario Draghi è proprio l’antipode di Giuseppe Conte, per formazione, preparazione e stile di vita”.

Le Grandi Riforme

di  | 11 APRILE 2021

Le prime Grandi Riforme dei Migliori sono quelle dei dizionari della lingua italiana e dei manuali di aritmetica. Mentre denunciavamo la vergogna del condono fiscale in compagnia dei tupamaros di Bankitalia e Corte dei Conti, abbiamo scoperto dai giornaloni che, siccome Draghi ha definito “condono” il suo condono, allora non è un condono (dal che si deduce che, se fai una rapina e la chiami rapina, non è una rapina). Per il rag. Cerasa del Foglio è una “svolta da seguire di Draghi: usare i condoni per denunciare le inefficienze dello Stato” (come usare le rapine per denunciare le inefficienze della polizia). E per il prof. Cottarelli, editorialista di Rep e consulente del governo per interposto Brunetta, “a ben vedere, nella sostanza, si tratta di un’operazione di semplificazione”. Pure le gaffe, quando le fa Draghi, non si chiamano gaffe. Anche quando dà dei salta-fila senza coscienza agli psicologi che si vaccinano per obbedire al suo decreto del 1° aprile (o era un pesce d’aprile?). E quando dà a Erdogan del “dittatore che ci serve”, causando una prevedibilissima crisi diplomatico-commerciale coi turchi che, come lui stesso dice, ci servono: siedono con noi nella Nato; comandano in Libia e così ci ricattano coi migranti; e per giunta hanno notevoli scambi economici con noi (ieri pare che abbiano sospeso una commessa da 70 milioni per 15 elicotteri di Leonardo firmata pochi giorni fa). Ma non è una gaffe: si chiama – spiega Stefano Folli su Rep – “nuova politica europea di Draghi”, “disegno che sta prendendo forma” per “innalzare la nostra proiezione internazionale” e “rischio calcolato”. Calcolato da chi e su cosa, non è dato sapere, specie se i turchi comprassero quegli elicotteri da un paese più diplomatico, con perdita di soldi e lavoro per la nostra partecipata di Stato.

Ma il “cambio di passo” dei Migliori rivoluziona anche l’aritmetica. A furia di “accelerare” con Figliuolo, la nostra campagna vaccinale resta sotto le 300mila dosi medie al giorno, mentre accelerano oltre le 600mila la Germania e oltre le 500mila la Francia, che col famigerato Arcuri erano sotto o al pari di noi. Ma ecco l’ideona: calcolare le dosi non più al giorno, ma a dècade. Così la frenata diventa un’accelerata. Rep: “Vaccini, tutto in 10 giorni: ‘Serve una terapia d’urto’”, “Anziani al sicuro, il governo accelera: 3 milioni di vaccini in 10 giorni”. E quanto fa 3 milioni diviso 10? Sempre 300mila. Ma sembrano di più, come gli scalcagnati carri armati che Mussolini faceva girare più volte davanti agli alleati tedeschi: erano sempre gli stessi, ma sembravano un’invincibile armata. E Figliuolo e Rep non erano ancora nati, sennòavrebbero gridato all’“accelerazione” e alla “terapia d’urto”.

La vendetta del “dittatore”: bloccati elicotteri per 70 mln

La vendetta del “dittatore”: bloccati elicotteri per 70 mln

Tensione – Dopo le parole di Draghi, Erdogan ferma una commessa da Leonardo alla Turchia e ora pretende un chiarimento pubblico

di  | 11 APRILE 2021

Avrà pure ridato dignità all’Italia, come pensa gran parte del centrodestra, ma la sortita di Mario Draghi contro la Turchia, anzi contro il “dittatore” Erdogan, ha già iniziato ad avere ripercussioni economiche. A quanto risulta al Fatto sarebbe stata bloccata la commessa di elicotteri destinati da Leonardo alla Turchia dal valore di 70 milioni di euro.

La notizia era apparsa in forma dubitativa ieri mattina su La Stampa, ma ora si parla di un blocco sia pur momentaneo. Leonardo, contattata dal Fatto, non ha dato risposte (e ieri il sito della compagnia è andato in down). Diverse imprese che operano in Turchia hanno già espresso le loro preoccupazioni alle autorità per eventuali ripercussioni e tra queste ci sarebbe anche Ansaldo. La Turchia, dopo la convocazione, a caldo, dell’ambasciatore italiano, ha fatto ora sapere che vorrebbe un chiarimento pubblico da parte di Draghi e si parla di una possibile telefonata tra il presidente del Consiglio e il presidente turco.

In tanti si chiedono a cosa sia dovuta la sortita di Draghi. Anche perché, molti studiosi non condividerebbero la definizione di “dittatore” data di Erdogan: “L’opposizione è sotto assedio, ma esiste, è vitale, si batte in Parlamento e nelle piazze”, spiegava ieri Mariano Giustino nella sua settimanale, e molto dettagliata, rassegna stampa turca su Radio Radicale.

E poi se Erdogan è un dittatore cos’è l’egiziano al Sisi? Cosa dire delle vicende di Giulio Regeni e Patrick Zaki? Eppure proprio ieri l’Italia ha fatto salpare verso l’Egitto la seconda fregata multimissione Fremm, che faceva parte dell’accordo di vendita per due navi militari siglato nel 2020. La nave, il cui nome è stato mutato in Bernees e con il numero di immatricolazione egiziano 1003, come afferma la Rete Pace Disarmo, è attesa in Egitto per la cerimonia ufficiale.

Due pesi e due misure che lasciano sorpresi molti osservatori tanto che negli ambienti politici romani si addebita la dichiarazione di Draghi o a un tentativo di visibilità per fronteggiare il calo dei consensi o, addirittura, a una “voce dal sen fuggita”, sintomo di improvvisazione.

Altro problema non da poco e che preoccupa la nostra diplomazia è la ricaduta possibile in Libia, dove la Turchia ha un ruolo ormai inaggirabile. Solo giovedì scorso, poche ore prima delle dichiarazioni di Draghi, l’ambasciatore italiano ad Ankara aveva elogiato il ruolo della Turchia nella soluzione politica in Libia affermando: “Penso che anche il governo turco, che ha lavorato a stretto contatto con l’Italia, abbia dato il suo contributo molto positivo a questa soluzione”. Parlando virtualmente con un gruppo di giornalisti dell’Associazione dei corrispondenti diplomatici della Turchia, Massimo Gaiani ha affrontato diverse questioni relative alle relazioni turco-italiane, nonché questioni regionali e internazionali. “Penso che questo importantissimo passo porterà un trend positivo e che più avanti le questioni della presenza militare verranno risolte. Siamo sulla strada giusta. Continueremo il dialogo molto stretto tra Italia e Turchia su questioni libiche, nello spirito di stabilizzare il Paese”.

Poi le frasi di Draghi e la tensione che inevitabilmente si ripercuoterà anche sul governo di Abdul Hamid Dbeibah che è senz’altro filo-turco ma che, grazie alla forte pressione degli Usa, ha impostato una fase di rapporti positivi con tutti a partire dall’Italia. Desta stupore, quindi, che nonostante il primo viaggio internazionale di Draghi sia stato in Libia subito dopo abbia contribuito a complicare quel dossier con l’attacco a Erdogan.

È probabile che anche di questo discuteranno Luigi Di Maio e il Segretario di Stato Anthony Blinken a Washington in quello che è il primo viaggio di un ministro presso l’Amministrazione Usa da quando Joe Biden si è insediato. Un successo diplomatico per il ministro italiano, generalmente sbeffeggiato dalla stampa liberale, e che mira a ribadire le relazioni transatlantiche italiane.

Politico, massone e mitomane: le 7 vite di Gianmario

Politico, massone e mitomane: le 7 vite di Gianmario

Avventure – Da Bossi a “Silvietto”, l’amato Licio e la Romania

di  | 11 APRILE 2021

Gianmario Ferramonti è una di quelle creature mitologiche del potere italiano di cui è difficile capire la natura. Come definirlo: Ferramonti è un politico? Sì, ma ha navigato sotto il pelo della superficie dei partiti, è stato raramente candidato e mai eletto. È un massone? Innegabile, anche se lui sostiene di aver frequentato moltissime massonerie senza mai affiliarsi ad alcuna di esse. È un delinquente? Parola ingiusta, pure se Ferramonti ha conosciuto il carcere nel 1996 per l’inchiesta Phoney Money, una gigantesca truffa finanziaria da 20mila miliardi di lire scoppiata come una bolla di sapone, e in parallelo è stato indagato come promotore di una rete di spionaggio internazionale: tutte le ipotesi sono cadute con un’archiviazione. Per le figure come la sua si usa il termine “faccendiere”, vacuo come ogni tentativo di semplificare realtà complesse. Ferramonti è un affabulatore, un uomo che ama raccontarsi tra ironia e millanterie, che sembra divertirsi a proiettare un’ombra più lunga della sua statura reale. Verità fattuale e abilità narrativa si mescolano di continuo.

Di sicuro c’è la sua impronta in molti passaggi di Prima e Seconda Repubblica. Nella Lega di Bossi e di Gianfranco Miglio era il tesoriere. Si definiva, scherzando, “galoppino” dell’ideologo della Padania, ma era pure il tratto d’unione tra Miglio e il mondo della massoneria. Ferramonti figura (e ci tiene a figurare) tra i registi del primo governo Berlusconi nel 1994 e come garante della nomina di Roberto Maroni al Viminale, primo storico ministro dell’epopea leghista.

Nel centrodestra ha partecipato anche alla nascita di Alleanza Nazionale. È generoso con gli aneddoti: “Il nome è un’invenzione di Vittorio Feltri – disse Ferramonti in un’intervista al Fatto – che lo propose per un’alleanza elettorale tra Lega e Movimento Sociale a Belluno. Per Fini chiamarla An era una cazzata ma Pinuccio Tatarella la registrò lo stesso”.

Tre anni fa Ferramonti ha scritto una lettera aperta a Berlusconi: “Silvio, ricordati che l’idea primigenia di fondare Forza Italia è mia, ho una cassetta registrata in cui il tuo segretario Guido Possa lo dice chiaramente”. Con “Silvietto” era arrabbiato perché si dimentica di tutti gli amici (come lui): “Dell’Utri lasciato a marcire in carcere e poi Bettino Craxi, Ennio Doris, Dario Rivolta, Ezio Cartotto”.

La vicinanza agli ambienti massonici e dei servizi internazionali è postulata nelle inchieste che lo riguardano. La esibisce come una medaglia: “Mi considero un gelliano – disse a gennaio a Report –. Gli ultimi quattro capodanni li ho passati a villa Wanda, assieme a lui”. Nell’intervista al Fatto mette in fila i suoi preferiti, dopo Licio: “Flavio Carboni, Francesco Pazienza, Luigi Bisignani, Alfredo Di Mambro, Renato D’Andria, Filippo Rapisarda, Mario Foligni”.

Il primo nome è rilevante nelle ultime vicende: Carboni, gran protagonista dell’inchiesta sulla P3, ai tempi del governo Renzi riferì di aver incontrato tre volte il papà di Maria Elena Boschi e di avergli fatto il nome di Fabio Arpe per il ruolo di direttore generale per Banca Etruria. Glielo raccomandò Ferramonti in persona: “Con Flavio siamo amici da 30 anni, mi chiese una mano per Etruria e un nome per Pier Luigi Boschi”.

E a proposito di P3: le ultime suggestioni sul Ferramonti massone lo vorrebbero ancora ai vertici di intriganti entità esoteriche. A Natale 2019 sul canale YouTube della Marea Loja Nationala Romana – 1880 (la Grande Loggia Nazionale Romena) compare un video sulla “Nuova Propaganda Massonica 3”. L’autoproclamato capo è il generale romeno Bartolomeu Constantin Savoiu, che annuncia la genesi di un’associazione erede della P2 di Gelli. Alla destra di Savoiu chi c’è? Ovvio: Gianmario Fioramonti. Che aveva da poco fallito l’assalto al Parlamento europeo, tra le file del non brillantissimo partito dell’ex ministro montiano Mario Mauro, “Popolari per l’Italia”. Ferramonti giurò al Fatto: “Prenderemo il 5%”. Invece fu solo 0,3: meglio dedicarsi ai grembiuli.

Il confine è labile: verità o menzogne, potere occulto o mitomania? Una via di mezzo: Gianmario Ferramonti.

/

Le peripezie del Gran Mogol, il diamante maledetto da 265 carati

di  | 11 APRILE 2021

Dai racconti apocrifi di Pierre Mac Orlan. Arrestato per il furto di un grosso diamante dal Museo del Louvre, Jean Luc Esposito fu condotto in commissariato. All’ingresso, sorrise vedendo un uomo che evitava accuratamente di passare sotto la scala di un imbianchino, ma quando se lo vide di fronte, in veste di commissario di polizia, capì che, giocando bene le sue carte, forse avrebbe potuto salvarsi. Così, quando il commissario Lacour, soppesando sul palmo quella prugna blu da 265 carati, gli domandò se avesse qualcosa da dichiarare prima di essere sbattuto in cella, Esposito si schiarì la voce e disse: “Signor commissario, i diamanti famosi sono malefici e maledetti. Quello che ha in mano è il Gran Mogol. L’indiano che lo trovò in una miniera di Golconda fu ucciso da un altro indiano, che ingoiò il diamante per occultarlo: il padrone della miniera gli fece aprire il ventre da uno sgherro, che poi uccise anche lui e scappò col diamante, lo regalò all’amata, e morì di lebbra il giorno dopo. Per liberarsi della pietra infausta, la donna la donò ai monaci del tempio, che la incastonarono in uno degli occhi della statua del dio Hindu. La rubò un novizio, che prima di morire suicida la vendette a un tagliatore di diamanti di Anversa, il quale ne ricavò un gioiello per il principe del Belgio. Il tagliatore morì di peste e fu gettato nelle acque dell’Escaut. Il principe, innamoratosi di Maria di Borgogna, che non gli si concedeva perché era deturpato da una malattia orrenda, le offerse il gioiello: e l’illibatissima Maria vendette il proprio corpo e la propria anima in cambio di quel diamante; ma il padre di lei, Carlo il Temerario, glielo confiscò per regalarlo a Geltrude, l’amante di Luigi XI, a condizione che inducesse il re a firmare il trattato di Conflans. Luigi XI, sgamato il tradimento, fece cucire Geltrude in un sacco da buttare nella Senna con un cartello che recava la solita formula con cui si archiviavano per sempre le sentenze di quel genere: “Lasciate passare la giustizia del re”. Quando Massimiliano d’Austria sposò Maria di Borgogna, pretese il diamante, che però intanto era passato nella cassaforte di un mercante levantino deciso a venderlo al Gran Turco. Maria di Borgogna, allora, si mise d’accordo con Halway, il pirata inglese, esperto di tutti i mari, che inseguì la nave del mercante e lo uccise con tutto l’equipaggio: invece di consegnare il diamante a Maria, però, lo mise in vendita a Londra. Dopo qualche anno, il capo della Compagnia delle Indie, che finì impiccato, lo cedette a un intermediario, Joan van der Meer, in cambio di dieci navi cariche di oppio. Quando la piantagione fu confiscata dalle autorità, Van der Meer si salvò dalla forca omaggiando del diamante il proprio sovrano, che lo regalò al re di Francia, e fece morire nelle segrete del castello Muiderslot il capo della giustizia, un magistrato inflessibile, colpevole di averlo informato che quel diamante portava lutti. Il diamante che lei, signor commissario, ha in mano da dieci minuti, passò poi di banchiere in banchiere, da baldracca a baldracca, da baldracca a gran dama, da una ballerina a un usuraio, e tutti fecero una brutta fine, in una catena di ricatti, di minacce, di intrighi, di decessi misteriosi, finché giunse nel negozio di un gioielliere, fornitore delle case imperiali d’Europa, che lo aveva avuto a un quarto del suo valore da un tale che era stato pagato con certe cambiali che il giorno dopo scomparvero, con lui, in un incendio. Il gioielliere lo regalò a Louvre, al quale l’ho rubato io, ma non bastò a evitargli l’impiccagione per assassinio. Io, almeno, non mi sono macchiato di sangue”.

Il commissario gli mise in mano il Gran Mogol e lo lasciò andare.

FONTE: