sabato, 20 Aprile 2024
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MEGLIO PEGGIO DEI GIORNALI DI OGGI

Attacco da destra. Ong, virus e “strage di Stato”

di  | 4 APRILE 2021

Tre ondate potenti e diverse di uno tsunami distruttivo stanno investendo l’Italia, manovrate da personale che sta dentro il governo, contro il governo e in alleanza con la parte dichiaratamente fascista dell’Ue.

La prima ondata è un accanito impegno, anche da livelli credibili, a persuadere sull’imbroglio del virus. Sappiamo tutti che è facile ascoltare nelle code dei supermercati la storia dei decessi per Covid moltiplicati dagli ospedali per avere i “lauti compensi” che spettano a medici, dirigenti e amministrazioni, se il male è la pandemia. Ma non c’era mai accaduto di trovare un articolo di denigrazione della pandemia e di tutta la mobilitazione che comporta (“8 pazienti su 10 finiscono vittime di gravi patologie che non c’entrano nulla con il virus”) firmato da Alberto Zangrillo: “Dobbiamo correggere questa irresponsabile tendenza alla drammatizzazione… Nel recente passato abbiamo pensato di vincere eseguendo quanti più tamponi possibile mentre il più credibile campanello d’allarme è il sintomo da riconoscere al volo… La realtà negli ospedali è completamente diversa da quella narrata quotidianamente” (pag. 1, Il Giornale di ieri). Anche se il testo di Zangrillo non comparirà su Lancet né su alcun giornale medico del mondo impegnato nella lotta al Covid-19, un servizio è fatto. Occorre riaprire tutto e obbedire agli imprenditori, come ripete invano l’ex ministro dell’Interno e neo imputato Salvini (per sequestro di persona, ndr) mentre passeggia, come in un cinegiornale di Hitler, accanto ai leader fascisti d’Ungheria e Polonia.

La seconda violenta ondata di tsunami contro quel che resta della democrazia italiana è l’avere scoperto che un gran numero di giornalisti italiani è intercettato e registrato da alcuni magistrati di Trapani che si sono dati, su denuncia di Salvini o Minniti, il compito di accertare se e in che modo le organizzazioni volontarie di salvataggio dei naufraghi nel Mediterraneo siano, tramite i giornalisti, in contatto con i mercanti di uomini e “i trafficanti di carne umana” (che sono, certo, criminali, ma meno di coloro che le barche le affondano o le restituiscono a pieno carico ai libici).

Il traffico di intercettazioni scoperto è due volte illegale. Perché avviene senza che vi sia alcuna ragione o giustificazione giudiziaria per un provvedimento così grave e modellato sulle inchieste di mafia. E perché l’intercettazione ingiustificata e segreta interferisce illegalmente sul libero lavoro di professionisti dell’informazione. Ma c’è un caso dentro il caso (sto citando dal quotidiano Domani) che rende ancora più grave la vicenda. I giudici di Trapani in cerca di Ong pirata hanno intercettato una giornalista mentre parlava con il suo avvocato, in Egitto, sul caso Regeni, su cui polizia e giustizia italiana non hanno fatto ancora alcuna luce. Il caso è grave perché tocca, come nei colpi di Stato, la libertà dei giornalisti. È grave perché i giornalisti (si tratta dei protagonisti presenti sulle scene di salvataggio e di morte) devono essere liberi di contribuire, con quello che sanno e che hanno visto, alla difesa delle Ong (non una sola organizzazione umanitaria, dopo anni di accanito impegno persecutorio, è imputata per i pesanti reati indicati da certi giudici nelle prime indagini). Il caso è grave perché nessuno, governo o non governo, ha voluto prendere parte alla penosa disputa.

Il terzo colpo di tsunami, che scuote e tenta di distruggere ciò che dovrebbe tener insieme il Paese è “La strage di Stato”, gravissima accusa di falsificazione di tutta l’informazione sulla vicenda Covid-19, non per la litigata e i malumori sul “chiudere e aprire” ristoranti e fabbriche, guidati implicitamente da Zangrillo e ad alta voce da Salvini, ma perché ambientata nell’ambito culturale e politico del grande complotto finanziario-ebraico che in Europa fa capo, come è noto, al grande nemico di Salvini e Orban, George Soros. “Strage di Stato” – purtroppo rafforzato dalla impetuosa e non ponderata prefazione di un magistrato come Gratteri – è il primo libro di denuncia del presunto “imbroglio Covid” arrivando in modo diretto ed esplicito a indicare gli ebrei come agenti della enorme messa in scena e del costo immenso della vicenda detta pandemia. Impossibile non notare il rapporto tra le tre scosse di tsunami, e la furia e il rancore che sta mettendo in azione una forza oscura e pericolosa. Il fascismo vuole la sua rivincita, in una versione ridisegnata e apparentemente nuova, come si è visto nell’attacco a Capitol Hill il 6 gennaio, a Washington.

Caro Furio, mi spiace di doverti contraddire, ma diversi esponenti di alcune Ong sono indagati per precise ipotesi di reato (non da Minniti o da Salvini o da fascisti, ma da magistrati – pm e giudici – autonomi e indipendenti da ogni altro potere, come prevede la nostra Costituzione); i giornalisti intercettati sono uno (gli altri sono stati ascoltati mentre parlavano con indagati, essi sì intercettati); la legge consente di intercettare chiunque sia in contatto con persone indagate o sospettate di reati; non c’è alcun attacco alle Ong, ma una serie di doverose indagini giudiziarie finalizzate ad accertare ipotesi di favoreggiamento agli scafisti, che dovrebbe essere nell’interesse di tutti fermare nei loro loschi traffici e arrestare, non aiutare o proteggere. Ciò detto per dovere di cronaca, siamo un giornale libero e pubblico il tuo punto di vista, anche se non lo condivido.
Marco Travaglio

Il discorso di Conte e il futuro del M5S

Il discorso di Conte e il futuro del M5S

di  | 4 APRILE 2021

Svolta È una vera rigenerazione, ma la risposta del Pd è deludente

La cura delle parole e della loro potenza trasformatrice; la centralità della competenza nell’aurea regola democratica dell’“Uno vale Uno”; i sentieri paralleli della democrazia rappresentativa e di quella diretta, che i 5 Stelle sperimentano da anni, anche se con fatica. Sono alcuni punti nodali della rifondazione che Giuseppe Conte ha proposto giovedì al Movimento. Non un restyling ma una rigenerazione basata sulla giustizia sociale, su una “cultura integralmente ecologica”, sull’etica pubblica, su una cittadinanza attiva che non viva solo nelle elezioni. Quel che colpisce è la reazione del Pd e dei giornali mainstream a questa promessa rifondatrice. L’alleanza con il M5S s’avvicina – pontificano – se Conte potrà davvero cambiare il Movimento, metterlo in riga. La pretesa è completamente assurda, se il Pd di Letta resta invece quello che è, non si sente anch’esso messo in causa, non ha alle spalle nessun “assalto al Palazzo”, e finge di rigenerarsi con risibili restyling femministi.

Barbara Spinelli

La strategia Moderato nei toni ma intransigente nei valori

Etica pubblica, onestà, competenza, lotta alla mafia, lotta alle diseguaglianze, giustizia e transizione ecologica. Sono queste le parole chiave del discorso di Giuseppe Conte. Un discorso che al di là dei passaggi sugli aspetti organizzativi del nuovo Movimento, assai complicati da realizzare (radicarsi sul territorio è un’impresa titanica), ci consegna la volontà dell’ex premier di trasformare i pentastellati in un vero e proprio partito. In una formazione che ricalchi il suo stile: moderato nei toni, disponibile quando necessario al compromesso, ma intransigente sui valori. Un passaggio su tutti rende bene l’idea del cambiamento immaginato da Conte: “La politica non deve lasciarsi accecare dalla polemica, deve cercare profondità di pensiero e riconoscere anche la bontà delle idee altrui”. Cosa che in Italia non avviene mai. Avverrà d’ora in poi nel Movimento nato dai vaffa? Non lo sappiamo. Ma già provarci, dopo aver ottenuto il plauso di eletti e iscritti, è un bel risultato.

Peter Gomez

La sfida Trasformare un uomo delle istituzioni in un leader

La democrazia parlamentare e la scienza politica spiegano in modo piuttosto puntuale quello che sta succedendo al Movimento Cinque Stelle. La democrazia parlamentare ha mostrato di non essere affatto debole e di essere ancora capace di imporre vincoli al comportamento di tutti gli attori al suo interno. Il Movimento Cinque Stelle ha dovuto trarne delle conseguenze significative sia nella formazione delle alleanze, sia, ora lo vediamo, nella durata dei mandati. La scienza politica dice che è difficile trasformare un movimento in un partito, ma che a determinate condizioni, sotto una guida competente, lo si può fare, anche con buone possibilità di successo. Adesso rimane da vedere se un leader istituzionale come è stato Giuseppe Conte abbia la capacità di trasformarsi in un capo politico a tutti gli effetti. Penso che questa sia la sfida principale per l’ex premier e per i Cinque Stelle: la sfida, la scienza politica dice che è una trasformazione possibile, anche se difficile.

Gianfranco Pasquino

Finalmente Basta infantilismi, è un partito di centrosinistra

L’idea di Conte è addirittura quella di “rifondare” il Movimento 5 Stelle. Finalmente il M5S va oltre la boiata del “né di destra né di sinistra” e si colloca – oserei dire ideologicamente – nell’alveo del centrosinistra. Già solo questa è una rivoluzione copernicana. L’impronta generale pare rifarsi ai Verdi tedeschi. Viene abbattuta la litania insopportabile dell’“uno vale uno”: Di Maio non vale Ciampolillo, Conte non vale Cunial. Eccetera. Basta anche col “tutti possono fare politica”: no, servono competenza e qualità. Non basta essere onesti. Bene le scuole di formazione, meno irrinunciabile il passaggio sul non usare toni “troppo aggressivi”. Ottime la sottolineatura della questione morale e l’apertura alla società civile. Le prossime mosse saranno recidere il cordone ombelicale con Casaleggio e abbattere il limite del doppio mandato. Il M5S di Conte ambisce a divenire un partito (sì, un partito) di radicalismo civico dentro il centrosinistra. È positivo? Sì. Ci riuscirà? Boh.

Andrea Scanzi

Il ruolo Parla da “pedagogo”: il Movimento ne ha gran bisogno

Il discorso di Conte ha confermato il giudizio che mi ero fatto da tempo: credo che sia una risorsa per la politica italiana. E d’altra parte mi ha fatto capire perché in molti abbiano fatto così tanto per farlo cadere. Ascoltando i diversi passaggi del suo intervento, mi pare Conte sia l’opposto di Draghi. I pilastri sono la coppia ecologia e giustizia sociale; la necessità di tenere insieme un rigoroso rispettoso dell’ambiente e la battaglia per ridurre le disuguaglianze. Mi pare significativo poi l’impegno di Conte di conciliare democrazia diretta e democrazia rappresentativa. È una bella acquisizione per un Movimento che è stato spesso “impreciso” su questi temi. Conte si è posto nella posizione di rifondatore di un Movimento di cui non si vogliono rinnegare le origini e la storia, ma che riconosce la necessità di adeguarsi alla nuova fase. Mi sembra una formula molto seria. Si candida a un ruolo pedagogico nel M5S e i 5 Stelle ne hanno bisogno. Forse ha sopravvalutato i cambiamenti dei 5 Stelle: le grandi battagli ambientali – contro il Tav, il gasdotto, per la chiusura dell’Ilva – sono state lasciate per strada.

Marco Revelli

Strada difficile Sarebbe stato più forte con un “brand” nuovo

Conte aveva due strade per rientrare nel mercato della politica: creare un nuovo partito o prendere la leadership del Movimento Cinque Stelle. Chi fa business in genere preferisce entrare in un mercato affidandosi a un marchio noto e facendo un restyling, così prende un brand affermato che ha già delle quote di mercato. In politica invece questa scelta dà raramente buoni risultati: il ciclo di vita dei partiti e dei leader politici è molto più breve di quello dei marchi commerciali. Conte ha scelto quindi una strada che sembra più facile – fare il leader dei Cinque Stelle – ma con un grande punto di debolezza: prende la guida di un partito in crisi e non è detto che vinca la sfida di rivitalizzarlo. Sarebbe stata una strategia più forte creare un “partito di Conte”. L’ex premier ha presentato una serie di nuove regole per i 5S, con il rischio di snaturarli e dividerli ancora di più. Se avesse applicato queste regole a un nuovo partito, sarebbero sembrate più legittime. La sua leadership rischia di spaccare ancora il Movimento: una parte non lo seguirà. Con un partito nuovo invece avrebbe avuto una forza aggregante.

Antonio Noto

Alfano, Minniti & C. I ministri di Renzi, casta che lavora

Alfano, Minniti & C. I ministri di Renzi, casta che lavora

di  | 4 APRILE 2021

La sintesi più efficace viene da Giovanni Paglia, componente della segreteria nazionale di Sinistra Italiana: “Alfano è a capo del primo gruppo della sanità privata, Padoan si appresta a presiedere Unicredit, Minniti fa il promoter di Leonardo e ora De Vincenti va a lavorare per i Benetton. Tutti ex ministri o sottosegretari: viene quasi da pensare che il governo Renzi sia stato un ufficio di collocamento”.

La metafora funziona perché in effetti, quattro anni e mezzo dopo il referendum che mise fine all’esecutivo di Matteo Renzi, non è solo il senatore semplice di Rignano ad aver trovato fortuna fuori dai Palazzi della politica – in cui però l’ex premier tiene ancora un piede e mezzo dentro – ma anche parecchi dei suoi vecchi compagni di strada. Certo, nessun altro ha un posto come membro stipendiato di un board saudita benedetto dal principe Bin Salman, ma sono comunque tutti ben piazzati, anche grazie alle competenze e alle relazioni personali maturate durante quegli anni di governo.

Affari Banche, aerei e ospedali lombardi

L’ultimo caso è quello di Claudio De Vincenti, sottosegretario alla presidenza del Consiglio con Matteo poi promosso ministro alla Coesione territoriale da Paolo Gentiloni, che prenderà il posto del defunto Antonio Catricalà come presidente di Aeroporti di Roma (Adr), la società controllata dalla famiglia Benetton che gestisce gli scali di Ciampino e Fiumicino.

Nel 2018 De Vincenti aveva fallito il ritorno in Parlamento, sconfitto in malo modo nel collegio uninominale di Sassuolo, dove il centrosinistra arrivò terzo dietro sia al centrodestra che al Movimento 5 Stelle. Occupandosi di aeroporti, per l’esponente del Pd sarà anche un ritorno all’antico: quando Massimo D’Alema era a Palazzo Chigi – parliamo della fine del secolo scorso – De Vincenti coordinava il Nars, la struttura del ministero del Tesoro che regola i servizi di pubblica utilità. Tutti motivi per cui adesso potrà mettersi alle spalle l’ultima delusione elettorale, come per altro avevano già fatto altri colleghi dell’epopea renziana.

A indicare la via ci pensò Angelino Alfano. Già nel luglio 2019, l’ex ministro dell’Interno (con Gentiloni sarebbe passato agli Esteri) si fece convincere dall’allettante proposta del Gruppo San Donato, il colosso della famiglia Rotelli che domina la sanità privata lombarda e che gli offrì la presidenza della holding. Anche Alfano, come De Vincenti, era fuori da Montecitorio dal 2018, quando decise di non ricandidarsi.

La stessa cosa non si può dire per due ex ministri renziani approdati di recente ad altre carriere, scelte a scapito del posto in Parlamento. Pier Carlo Padoan ha infatti lasciato il seggio in quota Pd: a ottobre Unicredit lo ha designato componente del Consiglio di amministrazione e presto verrà formalizzata la sua nomina a presidente dell’Istituto. Un incarico per cui gli torneranno parecchio utili gli anni di esperienza da ministro dell’Economia, ben quattro tra il 2014 e il 2018, prima con Renzi e poi con Gentiloni. In Unicredit infatti potrebbe trovarsi a gestire la fusione con il Montepaschi, la banca che da ministro ha nazionalizzato nel 2017 e a cui il suo ex ministero garantirà una cospicua dote pubblica.

Allo stesso modo, l’ex ministro dell’Interno Marco Minniti farà tesoro del periodo al governo ora che dovrà dirigere la fondazione Med-Or, creatura del gigante della difesa e dell’aerospazio Leonardo (la ex Finmeccanica). E se di Minniti si ricordano soprattutto le fatiche nel contrasto all’immigrazione dal Nord Africa e nelle relazioni con la Libia, parte di quei temi torneranno centrali nella sua attività, dato che l’obiettivo di Med-Or è quello di costruire “un ponte” attraverso cui “far circolare idee, programmi e progetti concreti” nel settore della difesa e della tecnologia con i Paesi esteri “dal Mediterraneo allargato fin sotto il Sahara, fino al Medio ed Estremo Oriente”.

Se poi Minniti dovesse aver nostalgia degli anni al governo, potrà sempre farsi un giro nei corridoi di Leonardo, dove potrebbe incrociare una sua vecchia conoscenza dei Consigli dei ministri renziani. Da maggio 2020 infatti Federica Guidi fa parte del cda dell’azienda, dove è giunta quattro anni dopo aver lasciato lo Sviluppo Economico a causa dell’inchiesta sul progetto Tempa Rossa: non indagata, l’ex ministra fu intercettata mentre parlava con il compagno (archiviato dopo l’inchiesta) di un imminente emendamento che avrebbe riguardato anche gli interessi industriali dell’uomo. Finita l’esperienza al ministero, la Guidi ha anche potuto recuperare il posto in Ducati Energie (dove è vice-presidente esecutivo) e in Gmg Group, dove siede nel Consiglio di amministrazione.

Onu Agricoltura e scuola tra nazioni unite e europa

Un po’ diversi, ma certo non meno prestigiosi, i percorsi di Maurizio Martina e Stefania Giannini. Il primo, dopo quattro anni trascorsi alle Politiche Agricole e uno, particolarmente travagliato, da segretario reggente del Pd, a gennaio di quest’anno è stato nominato vicedirettore generale aggiunto della Fao, l’organizzazione delle Nazioni Unite che si occupa di alimentazione e agricoltura.

E all’Onu lavora da un pezzo anche Stefania Giannini, che con Renzi fu ministra dell’Istruzione fino al 2016. Dopo una lunga carriera universitaria e gli anni al governo, oggi la Giannini è vicedirettrice dell’Unesco, la nota agenzia che promuove “la pace e la comprensione” tra le Nazioni, ente in cui l’ex ministra ha la delega all’Istruzione.

Posizione da cui, anche in virtù dei mesi fianco a fianco al governo, potrà forse dare qualche consiglio a Federica Mogherini, ministra degli Esteri con Renzi e da settembre 2020 rettrice del Collegio d’Europa, l’Istituto di alta formazione in studi europei con sede a Bruges e a Varsavia e finanziato dall’Unione.

Ehi, dici a noi?

di  | 4 APRILE 2021

Un tempo, se ricordavi le condanne di un politico, ti beccavi del “giustizialista” dal Giornale&C.. Ora te lo becchi dal Giornale&C., ma anche, in stereo, da Repubblica. È capitato a Di Battista, reo di notare che i renziani chiedono alla Rai il bavaglio per Scanzi, mai indagato, e non per le orde di pregiudicati e imputati per gravi reati che pontificano come gigli di campo. Apriti cielo. Sallusti sul Giornale e Cappellini su Rep sono insorti come un sol uomo, riproducendo su carta le larghe intese di governo. Sallusti, a suo modo, è financo divertente. Invece Cappellini, offeso perché i talk “pagano Scanzi per fare l’opinionista” e lui no, ci rifila un bignami di storia del giustizialismo, noioso quasi quanto lui. Un frullato di storie e persone diverse per deplorare chi detesta i corrotti anziché esaltarli: un vizio tipicamente “reazionario”, che però purtroppo “nasce a sinistra” fin da quando il Pci, invece di colludere con le Br, “sperimenta il collateralismo con le procure” (testuale). Poi c’è Tangentopoli, “col tifo per i pm del pool di Milano” anziché per i ladri. Segue una raffica di slogan copiati paro paro dal catalogo berlusconiano: “avviso di garanzia come condanna anticipata, carcerazione preventiva per estorcere confessioni, difesa in minorità rispetto all’accusa e presunzione di colpevolezza teorizzata da Davigo, star di un giustizialismo colorato nel frattempo di grillismo”. A quel punto, “nelle tribune della sinistra o sedicente tale”, arriva il “nuovo Zdanov”, cioè il sottoscritto, in compagnia dei putribondi “Santoro, Di Pietro e Funari”, e “l’Unità di Furio Colombo” mi “elesse commentatore principe” (anziché eleggervi, che so, un Cappellini). E poi “il girotondino Flores d’Arcais” e quel facinoroso di Asor Rosa, al grido di “più Ddr per tutti”.

Ora, se non andiamo errati, Asor Rosa scrive su Repubblica fin dalla fondazione. E Flores dirigeva MicroMega per il gruppo Repubblica-Espresso, mentre l’Espresso di Rinaldi rivaleggiava con Repubblica di Scalfari e Mauro nel pubblicare i verbali di Mani Pulite, i memoriali dell’Ariosto, le 10 Domande a B. su Noemi ecc. Da quelle stesse colonne, Cappellini ci spiega che il suo giornale ha sbagliato tutto per 40 anni finché, reduce dal Riformista, dal Messaggero e da Mediaset, arrivò lui. Possibile, per carità: ma non si vede perché lo venga a dire a noi. Onde evitare che completi la storia del giustizialismo con la seconda puntata sul gruppo Repubblica-Espresso, ci appelliamo ai casting dei talk, anche del mattino presto o della sera tardi: offrite due spicci pure a Cappellini. Non più perché non venga, ma perché venga. Sì, è vero, il motto di Montanelli era “Un solo padrone: il lettore”. E il suo è “Un solo lettore: il padrone”. Ma fate un’opera buona. Sennò riattacca il pippone.

Un festino con i politici: scandalo a San Marino

Un festino con i politici: scandalo a San Marino

A San Marino i vincoli imposti dalle leggi non sono uguali per tutti. O meglio: chi le leggi le presenta e le fa approvare può (allegramente) trasgredirle. Anche quando riguardano le misure restrittive imposte dalla pandemia. E in effetti erano tutti molto allegri – tanti persino ubriachi, qualcuno senza mascherina – gli esponenti politici della maggioranza di governo del Titano che il 1° aprile sono stati pizzicati dalla gendarmeria mentre festeggiavano l’elezione di uno dei due capitani reggenti (l’equivalente del nostro presidente della Repubblica): il democristiano Giancarlo Vittorini che guiderà il Paese per sei mesi insieme all’altro eletto, Marco Nicolini, del movimento Rete.

C’erano numerosi membri del Consiglio grande e generale (il parlamento sammarinese), un segretario di Stato (che è come un nostro ministro) e persino dirigenti della sanità. Circa una settantina di persone hanno partecipato al festino che si svolgeva nel retrobottega di un negozio, una coda dei festeggiamenti iniziati con il tradizionale pranzo per l’investitura dei due capi di Stato. C’è chi ha persino postato su Facebook delle foto di quella adunata con gli immancabili calici di vino in mano – foto poi cancellate – con la scritta “Dimmi che rumore fa la felicità”. Quando sono arrivati i gendarmi, avvisati dai cittadini che dalle case vicine stavano assistendo a quell’andirivieni e all’assembramento, ne hanno trovati sei. Gli altri se l’erano già squagliata. Tutti membri di quella stessa maggioranza – guidata dalla Democrazia cristiana: qui esiste ancora ed è un partito molto radicato – che ha approvato il coprifuoco alle ore 20, la chiusura degli esercizi pubblici e dei negozi alle 18, il divieto di assembramenti e lo stop alle feste.

Tutto per contrastare una pandemia che fino ad ora qui ha provocato quasi 4.800 contagi, su una popolazione di circa 33mila abitanti, e oltre 80 morti. I gendarmi hanno preso nomi, redatto i verbali. Ora, fanno sapere, dovranno valutare se procedere anche nei confronti di chi ha messo a disposizione il retrobottega. Non senza evidente imbarazzo, visto che questa volta i trasgressori sono gli stessi che hanno voluto i decreti. Soprattutto nell’indignazione generale. Al governo, dal gennaio del 2020, insieme alla Democrazia cristiana ci sono il movimento Rete e il gruppo consigliare Noi per la Repubblica, nel quale sono confluiti transfughi del centrosinistra ma anche della destra. C’è anche Motus Liberi (piccolo partito che non aveva suoi esponenti presenti al festino) e che ha preso le distanze, chiedendo che “le forze dell’ordine svolgano tutte le indagini necessarie”. Tutto si è svolto dalle 16 alle 18,30. “Il fatto più grave è che a violare la legge siano stati rappresentanti delle istituzioni”, dice Matteo Ciacci, segretario di Libera (sinistra), principale partito di opposizione, che ha subito presentato una interpellanza al governo.

C’è da dire che qualcuno ha già fatto ammenda. Sono Alberto Giordano Spagni Reffi e Gloria Arcangeloni, entrambi consiglieri di Rete, che hanno rimesso il loro mandato al consiglio direttivo del movimento. Una leggerezza, dicono ora: “Non si trattava assolutamente di un festino preorganizzato, bensì di un evento estemporaneo e improvvisato, al cui invito abbiamo risposto con eccessiva superficialità”. Nel frattempo proseguono le vaccinazioni. Con Pfizer ma anche con Sputnik, il vaccino ottenuto da Mosca, in febbraio, grazie alle ottime relazioni che legano la Russia e la piccola repubblica.

“La fiction e gli operai puniti da Mittal: cornuti e mazziati”

“La fiction e gli operai puniti da Mittal: cornuti e mazziati”

“La sanzione contro i lavoratori di Taranto? Mi lascia sgomenta, il solito gioco italiano di cornuto e mazziato”. È rimasta davvero colpita, Sabrina Ferilli, quando ha saputo che alcuni addetti dell’Arcelor Mittal sono stati sospesi dall’azienda per aver associato, attraverso un post su Facebook, la fiction Svegliati amore mio – di cui l’attrice è protagonista in questi giorni – alle vicende dell’ex Ilva. La miniserie – l’ultima puntata è prevista mercoledì 7 aprile – narra la storia di Nanà Santoro (interpretata dalla Ferilli appunto), moglie di un operaio di un’acciaieria e mamma di una bambina malata di leucemia, che sospetta le correlazioni tra l’inquinamento della fabbrica e le malattie. La scelta dei registi, Ricky Tognazzi e Simona Izzo, di occuparsi di questo tema in prima serata ha avuto un certo impatto sulla comunità tarantina, al punto che una madre ha fatto circolare un post e ha ottenuto oltre 10.000 visualizzazioni, parlando – appunto – di come la fiction sia chiaramente ispirata alla realtà vissuta in quel territorio. Alcuni lavoratori dell’Ilva lo hanno condiviso sul loro profilo e, per questo, sono stati puniti dall’Arcelor Mittal, con l’accusa di aver creato “un danno di immagine alla società”. Questo nonostante il post non contenesse alcun riferimento al nome dell’azienda. Uno di loro è difeso dal sindacato Usb, che imputa all’impresa anche l’aver invaso la privacy dell’operaio, visto che la sua bacheca non era pubblica. Gli attori e i registi non sono rimasti indifferenti.

Sabrina Ferilli, chiariamo subito questo aspetto: Svegliati amore mio è una fiction che parla esplicitamente di Taranto?

Noi non siamo entrati nello specifico, ci siamo ispirati alle città che ospitano acciaierie e a tutto ciò che questo ha comportato a chi ci lavora e alle loro famiglie. In Italia abbiamo ancora tanti siti attivi, ma è chiaro che Taranto sia l’area più investita dal problema. Ma ripeto, non ci sono riferimenti e oltretutto la storia è ambientata nel 2000, quindi molto prima che lo stabilimento venisse preso dagli attuali proprietari.

Il post “incriminato” sostiene che l’acciaieria Ghisal – così viene chiamata nel racconto – “altri non è che il siderurgico di Taranto”. Ma non viene affatto nominata l’Arcelor Mittal, eppure all’azienda ha dato fastidio la semplice associazione dei fatti narrati con lo stabilimento e ha ritenuto di doversi difendere, sostenendo di rispettare l’autorizzazione integrata ambientale (Aia).

Quelli che hanno preso oggi la fabbrica non c’entrano con quel periodo. Sono entrati nel 2018, hanno preso l’onere delle bonifiche e non so ora a che punto siano. Ma su quello che è successo negli anni passati c’è un processo penale e, circa un mese fa, ci sono state le richieste di condanna da parte dei pubblici ministeri. Per carità, bisogna aspettare le sentenze della Cassazione, però per il momento i fatti sono questi. E sul fatto che l’inquinamento abbia portato morte, è scienza. Quindi io capisco che questa azienda ha ereditato una patata bollente, però, anziché prendersela con quello che scrivono su Facebook i lavoratori, dovrebbe rivolgersi alla politica.

L’impressione è che a infastidire sia il solo fatto di parlarne, tra l’altro in prime time?

Chi gestisce oggi la fabbrica ha comunque tutto l’interesse che non se ne parli, che non vengano fuori determinati aspetti, ma sono quelli più importanti. Punire tre operai che si sono espressi in maniera colorita su cose che vivono tutti i giorni è una cosa che mi lascia sgomenta. Insisto sul fatto che la proprietà si faccia sentire con la politica, visto che sembra assente e non ha mai risolto definitivamente questa cosa. È una cosa delicata ma la politica questo deve fare, ci sono di mezzo sopravvivenza, lavoro e vita. Mi auguro che la proprietà e i dipendenti che continuano in modo eroico a lavorare siano uniti rispetto all’obiettivo.

Che cosa vorrebbe dire a quegli operai che hanno subito la sanzione?

Di non sentirsi soli. Credo che la questione si risolverà, ma se dovesse proseguire noi ci metteremmo a disposizione anche economicamente per aiutarli a sostenere qualunque spesa legale. Noi con la fiction aiutiamo quelle comunità smuovendo le coscienze di tutti, e per la prima volta lo facciamo in televisione, ma se quelle persone dovessero avere bisogno lo faremmo anche in pratica, dato che purtroppo la realtà ha superato di gran lunga la fiction.

Banche senza regole: Archegos e quei miliardi bruciati in 24 ore

Banche senza regole: Archegos e quei miliardi bruciati in 24 ore

Quando alle prime luci dell’alba di lunedì 26 marzo le agenzie di stampa internazionali iniziano a informare i clienti sul buco di bilancio che l’implosione di un fondo finanziario chiamato Archegos avrebbe arrecato alle trimestrali di alcune delle più note banche d’affari internazionali, per gran parte degli operatori quel nome suona come un’assoluta novità. In realtà negli ambienti super-ovattati dell’alta finanza il gestore del fondo, tal Sung Kook (Bill) Hwang è di casa.

Per quanto si predichi il valore della meritocrazia, anche nei Paesi anglosassoni non accedi a linee di credito del valore di qualche miliardo di dollari se non appartieni al “giro giusto”. E Hwang non solo conosce le persone giuste, ma da anni ci fa affari, pur avendo subito nel 2013 dalla Sec, l’Authority di controllo della Borsa Usa, una multa da 44 milioni di dollari e l’interdizione al trading per 5 anni per aver manipolato alcuni titoli quando era gestore del fondo speculativo Tiger Asia.

Una volta riabilitato, per rifarsi una verginità finanziaria, Hwang pensa bene di tornare in sella nel 2019 adottando la forma societaria del family office, decisamente più leggera sul fronte dei requisiti patrimoniali in quanto rivolta (in teoria) solo alla gestione del proprio patrimonio personale. Nasce così Archegos. È bravo nel suo lavoro, Hwang, trader molto aggressivo, capace di passare da 200 milioni di dollari a 15 miliardi in soli 7 anni. Davanti a performance tanto stellari, le banche d’affari, che svolgono la funzione di primary broker, non lesinano certo sui prestiti, chiudendo tutti e due gli occhi sul fatto che di Archegos nei registri della Sec non vi sia praticamente traccia. A oggi rimane poco chiaro il motivo per cui il nome del family office non compaia nei registri dell’Authority, ma è indubbio che ad aver favorito l’operatività nell’ombra di Hwang sia stato l’uso di uno degli strumenti derivati più utilizzati a Wall Street: il Total return swap (Trs).

In cosa consiste? Poniamo, per esempio, che un operatore finanziario intenda acquistare un titolo azionario amplificando il potenziale guadagno con un effetto leva: a quel punto chiede al primary broker di finanziare l’operazione, procedendo alla fine di ogni mese a un settlement che prevede l’incasso di denaro se il valore dell’azione sarà superiore a quella di acquisto, oppure il pagamento se invece il titolo finanziario scenderà al di sotto del livello. Per l’istituto di credito l’operazione è una win-win: intasca ricche commissioni, senza peraltro correre rischi elevati, dato che l’eventuale pagamento al trader viene coperto con un’apposita assicurazione.

Una pratica, quella del Trs, certamente legale, usata quotidianamente da migliaia di attori finanziari. Trattandosi però di uno strumento derivato over the counter, ossia non regolamentato, può essere più o meno facilmente nascosto nelle pieghe dei bilanci degli istituti di credito. Per Hwang il Trs non è dunque solo uno strumento per amplificare l’effetto leva, ma anche per nascondere il più possibile agli occhi degli organi di controllo l’operatività del suo family office che a tutti gli effetti opera invece come un hedge fund, un fondo speculativo. E così tutto procede liscio fino a che Hwang cade vittima della peggiore disgrazia che può colpire un trader, il senso di onnipotenza che fa perdere il senso del rischio.

A oggi non è ancora chiaro quali investimenti siano andati male (c’è anche chi dice che Hwang sia finito vittima dello squeeze su Gamestop, ma non ci sono riscontri). Sta di fatto che il bilancio del trader peggiora al punto da far scattare le richieste di rientro immediato da parte dei broker (margin call) che Hwang non è però in grado di coprire avendo replicato lo stesso contratto di finanziamento con molteplici controparti.

Per salvare il salvabile, allora, le banche si trovano costrette a liquidare i titoli in portafoglio del trader asiatico per un controvalore di 50 miliardi di dollari. A farne maggiormente le spese sono le banche d’affari Nomura e Credit Suisse (la cui perdita complessiva ammonterebbe a circa 8 miliardi di dollari), mentre le cugine americane Morgan Stanley e Goldman Sachs riescono a liquidare i titoli di Archegos con grande velocità, riportando danni molto più contenuti. Per qualche giorno il ricordo del crac del fondo LTCM, che rischiò di far collassare i mercati finanziari nel 1998, è tornato alla mente degli operatori più anziani, ma il paragone è improprio perché oggi la liquidità sui mercati è molto più elevata (a febbraio, per dire, l’indice di massa monetaria negli Usa ha registrato un balzo del 27% su base annuale). Più centrata è probabilmente la similitudine con la crisi dei subprime del 2008 scoppiata non tanto per il collasso dei prezzi immobiliari quanto per la cartolarizzazione senza freni dei mutui adottata dalle banche d’affari.

Oggi come ieri si pone il problema di far luce sull’abuso dei Total return swap. Se infatti un semplice family office, per giunta quasi inesistente nei registri della Sec, aveva un’esposizione da 50 miliardi di dollari, non sarebbe forse il caso che le autorità di regolamentazione inizino a far luce sul giro d’affari di questi derivati? Sarebbe un errore considerare l’implosione di Archegos come un caso isolato. Negli ultimi mesi si sono moltiplicati casi di collassi di hedge fund i cui indici di patrimonializzazione non riescono a stare al passo con la crescente volatilità dei mercati derivante anche dalla mole di liquidità in circolazione per effetto delle politiche monetarie espansive delle banche centrali.

Ma forse cercare di frenare l’abuso dei Trs è una questione che le persone ‘giuste’ non hanno molta voglia di affrontare.