Flick: “Benefici agli ergastolani non pentiti? Il diritto al silenzio vale persino per i mafiosi”

di Errico Novi/Il Dubbio, 20 marzo 2021

Intervista all’ex presidente della Corte costituzionale sulla sentenza, attesa per mercoledì prossimo dalla Consulta, che potrebbe concedere il diritto alla liberazione condizionale anche ai mafiosi condannati al “fine pena mai” che non collaborano con la giustizia. “Il diritto al silenzio è connesso al diritto di difesa, dunque è incomprimibile. Vale per tutti. Anche per il peggiore dei delinquenti”

“Non è facile. Lo so. C’è fuori un clima sgradevole. Lo si è visto con il differimento pena causa Covid. Sgradevole reazione: deve prevalere sempre l’esigenza di sicurezza, dicono. Figurarsi quanto la polemica potrebbe salire di tono se mercoledì prossimo dalla camera di consiglio della Corte costituzionale venisse fuori una decisione favorevole alla liberazione condizionale degli ergastolani ostativi che non collaborano con la giustizia, anche se dimostrano di essersi sicuramente “ravveduti”! Visti i precedenti, immagino la stessa pesante risposta mediatica scatenata sia dopo la pronuncia della Consulta relativa ai permessi, sempre per gli ostativi, sia dopo la concessione dei domiciliari causa Covid ai detenuti di mafia, sempre che essi possano provare un “sicuro ravvedimento”.

Giovanni Maria Flick, professore emerito, ex ministro della Giustizia ed ex presidente della Corte costituzionale, comprende meglio di altri la delicatezza della scelta in capo al giudice delle leggi a proposito dell’ormai famigerato articolo 4 bis, e della sua “potenza preclusiva” rispetto ai benefici penitenziari per chi è al “fine pena mai”.

“Conosco sì la delicatezza del problema. So anche che una consolidata giurisprudenza costituzionale, radicata nell’ormai lontano 1974, consente la legittimità costituzionale dell’ergastolo solo perché è possibile concedere una liberazione condizionale se il condannato dimostra di essersi davvero ravveduto. Senza questo pilastro, crolla tutto. Crolla il principio di cui all’articolo 27, il fine rieducativo della pena. Se non c’è sbocco, che rieduchi?”.

Sacrosanto, professor Flick. Allora la sentenza del 23 marzo è già acquisita: sarà favorevole alla liberazione condizionale per gli ergastolani ostativi che non collaborano, mafiosi compresi. O no?

No, non è acquisita. Nella precedente sentenza sui permessi premio, la 253 del 2019, la stessa Corte ha affermato, è vero, che la collaborazione con la giustizia non può essere il solo spiraglio per superare la presunzione di persistente collegamento con l’organizzazione criminale. La pronuncia con cui è caduto il divieto di concedere permessi premio a mafiosi e altri detenuti cosiddetti ostativi dipende in effetti da quello snodo: dal fatto cioè che il pentimento o la conformità esteriore alla disciplina carceraria non può essere la sola prova dell’assenza di legame con la cosca. Non può essere così in assoluto, perché altrimenti si vìola il principio di uguaglianza, visto che si applica la medesima presunzione a individui, a fatti e a storie diversi. Benissimo. Oltretutto la Corte ha messo in gioco anche il principio per cui non può prevedersi un automatismo della decisione giudiziale: se è il giudice di sorveglianza a dover valutare l’istanza di permesso proposta da un ergastolano ostativo di mafia, non si può pretendere che agisca come un burocrate: “C’è la collaborazione? Discutiamo il merito. Non c’è? Niente permesso, la richiesta è inammissibile”.

La Corte ha affermato tutto questo, è vero. Ma?…

Sempre con la sentenza 2019, ha anche insistito nel dire che il discorso sopra evocato riguarda un beneficio: il particolare beneficio dei permessi. Puntualizzazione reiterata, nelle motivazioni.

E cosa significa?

Semplicemente vuol dire che su altri tipi di beneficio per loro natura più stabili, qual è la liberazione condizionale, si riserva di decidere volta per volta.

Potrebbe averlo fatto anche considerata la risposta emotiva dell’opinione pubblica?

Non lo so, naturalmente, e non lo credo. È noto che l’opinione pubblica reagisce male, lo si è detto, di fronte a provvedimenti simili, che li assuma la Consulta o un singolo giudice di sorveglianza. Reagisce male anche perché influenzata da inesattezze ed errori nella presentazione delle notizie o dalle invettive furenti di alcuni giornali e, lo dico con rammarico, anche di alcuni magistrati.

Ma quindi non se la sente di fare un pronostico?

No. Innanzitutto per motivi di rispetto verso la Corte. In astratto è chiaro che la puntualizzazione reiterata sullo specifico perimetro della sentenza 2019 potrebbe, e ripeto in astratto, anche preludere a una scelta diversa sulla liberazione condizionale. In tal caso, si potrebbe argomentare che l’insistenza sulla limitazione ai permessi voleva dire che oltre non ci si sarebbe potuti spingere.

Sarebbe una decisione poco coraggiosa?

Questo lo dice lei. Io confido che arrivi una decisione seria, forte nei suoi presupposti e, certo, coraggiosa intellettualmente. Il coraggio, sempre in astratto, può risiedere anche in una decisione in cui si dice che oltre non si può andare. L’importante è fare riferimento ai princìpi e difenderli. Certo: la collaborazione come unica via per far cadere la presunzione di collegamento persistente, o addirittura il suo “ripristino”, fra ergastolano ostativo e organizzazione criminale si infrange anche su un altro principio inviolabile.

Quale?

In latino si dice “nemo tenetur se detegere”. Nessuno può essere costretto ad accusarsi. Non è possibile, quando si interroga, pretendere l’ammissione di colpa, l’autoaccusa. Non è possibile pretenderla neppure da un ergastolano ostativo condannato per associazione mafiosa. E una collaborazione con la giustizia implica evidentemente l’autoaccusa. È un principio connesso all’altrettanto incomprimibile diritto di difesa.

E allora come può reggersi la norma per cui il condannato al 4 bis vede cadere la preclusione ai benefici solo se si pente?

È una norma introdotta dopo le stragi di Capaci e di via D’Amelio, probabilmente anche per esigenze investigative.

Norme proposte in virtù di uno stato di eccezione. Ma l’eccezione può farsi regola?

Lo stato di eccezione è sempre un pericolo. Un po’ abbiamo dovuto rifletterci anche riguardo alle restrizioni legate alla pandemia.

Nessuno può essere costretto ad accusare se stesso: perché?

Perché esiste il diritto al silenzio. Che è collegato, appunto, al diritto costituzionale di difesa.

La sentenza sui permessi lo evoca?

Ne parla, ma in quanto elemento che non sembra essere considerato per la decisione, basata invece soprattutto sulla ricordata inosservanza di princìpi quali la ragionevolezza e l’uguaglianza.

Scusi professore, ma se l’immagina la reazione dell’opinione pubblica a un’interpretazione costituzionale secondo cui persino il mafioso ha diritto al silenzio? Persino chi cioè fa dell’omertà un’arma distintiva dell’associazione criminale?

Ma i princìpi e i diritti inviolabili non possono ammettere eccezioni, se esistono. Vanno riconosciuti a chiunque, anche al peggiore dei delinquenti. Altrimenti si dovrebbe affermare, per paradosso, che nei confronti del condannato per mafia è legittimo l’uso della tortura.

Coi domiciliari Covid c’era in gioco il rischio morte da contagio dei detenuti mafiosi con salute fragile. Cosa avverrà con una sentenza che conceda la possibile liberazione condizionale agli ergastolani ostativi, inclusi quelli di mafia, anche se non “collaborano”?

Sono due situazioni diverse, seppur collegate in qualche modo dal parametro comune della ricerca di sicurezza. Nel caso del differimento pena per ragioni umanitarie, da cui deriva la concessione dei domiciliari per ragioni di salute, era in gioco la dialettica fra il diritto alla salute del singolo e il diritto alla sicurezza della collettività. Nel caso dei benefici per i detenuti ostativi, e in particolare della liberazione condizionale finora riconosciuta solo a chi collabora, è in gioco un’altra dialettica: da una parte sempre il diritto alla sicurezza collettiva, dall’altro il diritto alla dignità. Che implica il diritto al silenzio, alla propria individuale differenza, alle specifiche e intime motivazioni che ciascuno può trovare insuperabili rispetto alla scelta di collaborare: in altre parole, a quelli che la Corte definisce i “residui di libertà” incomprimibili, che sono compatibili con la reclusione. Sicurezza contro salute. Sicurezza contro dignità. Ora mi chiedo: siamo davvero convinti che la sicurezza sia garantita dal buttare la chiave per certi detenuti? Dal lasciare che chiudano definitivamente gli occhi in carcere come pure è avvenuto di recente? O è l’illusione, della sicurezza? Dobbiamo chiedercelo. E se saremo intellettualmente onesti nel rispondere, forse potremmo arrivare a comprendere come concedere la liberazione condizionale anche al mafioso ergastolano che non ha mai collaborato con la giustizia, ma che dimostra di essersi “sicuramente ravveduto”, sia una scelta non lesiva dell’integrità dello Stato. Casomai riafferma il primato dei diritti che solo uno Stato può assicurare.

 Ergastolo ostativo, il diritto al silenzio al vaglio della Consulta

di Michele Passione* Il Dubbio, 20 marzo 2021

Martedì la corte si esprimerà sulla liberazione condizionale. Il 23 ottobre 2019 la Corte costituzionale (sent. 253) libera gli ergastolani ostativi (e tutti i condannati per i delitti di prima fascia) dalla preclusione che impediva la concessione del permesso premio ai non collaboranti, trasformando (nel solco di una risalente e consolidata giurisprudenza) la presunzione assoluta di pericolosità in relativa, anche perché “l’inammissibilità in limine della richiesta di permesso premio può arrestare sul nascere il percorso risocializzante, frustrando la stessa volontà del detenuto di progredire su quella strada ciò non è consentito dall’art. 27/ 3 Cost.”.

Stante il perimetro del devoluto, la Corte precisa che “le questioni di legittimità costituzionale sollevate non riguardano la legittimità costituzionale della disciplina relativa al cosiddetto ergastolo ostativo, sulla cui compatibilità si è, di recente, soffermata la Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza 13 giugno 2019, Viola contro Italia”.

Adesso ci siamo; il 23 marzo (di nuovo questo numero) la Corte è chiamata a pronunciarsi definitivamente sul punto, misurandosi col precedente citato e con la pronuncia convenzionale, dovendo tener conto, anche in questo caso, del diritto al silenzio (cfr. ord. 117/ 2019 Corte cost.), “quale corollario essenziale dell’inviolabilità del diritto di difesa, riconosciuto dall’art. 24 Cost.”, recentemente riconosciuto tal quale nell’ambito dei procedimenti amministrativi “punitivi” dalla Cgue, Grande Sezione, sent. 2.2.2021, D. B. c. Consob. Siccome nomina sunt consequentia rerum, è lecito attendersi una pronuncia in linea con l’apotropaico precedente di un anno e mezzo fa, che cancelli dall’ordine delle cose l’aggettivo ostativo, un ossimoro dell’umano.

Del resto, nella recente pubblicazione con il professor Ceretti (Un’altra storia inizia qui), ritenuta pericolosa – e dunque vietata per la lettura di un ergastolano, l’attuale ministra Cartabia, citando Padre Turoldo, ha ricordato l’ammonimento nessuno uccida la speranza, neppure del più feroce assassino, perché ogni uomo è una infinita possibilità. Con Ricoeur, ognuno vale molto più delle sue (peggiori) azioni. La Speranza, dunque.

Quella di cui parla la Corte Edu (Vinter c. Regno Unito), quella che “ci consente di aprirci al futuro, liberandoci dalla ostinata prigionia del passato e del presente”, con le parole di un grande psichiatra, Eugenio Borgna. Che senso avrebbe consentire a un ergastolano (ostativo – e speriamo di non dover usare mai più questa bestemmia) di andare in permesso, e impedire il compimento del suo diritto all’effettivo reinserimento sociale, verificato per facta concludentia, diversi dalla collaborazione?

Se la liberazione condizionale è legata al sicuro ravvedimento del condannato, se essa partecipa della stessa finalità delle misure alternative, come ricordato dalla Corte nella storica sentenza n. 32/ 2020 (§ 4.3 Considerato in diritto), nessuno potrà più dire “parla, e (forse) ti sarà dato”.

Ed ancora, se l’accredito di fiducia che merita chi si accosti a questo istituto, al termine di un percorso di progressione trattamentale lunghissimo, è sicuramente maggiore rispetto a chi sperimenti i primi momenti di libertà, come coloro che fruiscono dei permessi, è lecito attendersi una sentenza che apra alla vita vera, dopo una verifica dei presupposti appoggiata sull’Uomo nuovo, e non su informative stereotipate.

Ferrara, Università degli Studi, 27.9.2019; davanti alla migliore dottrina si tenne un convegno dedicato al tema, alla vigilia dell’udienza di ottobre. Quel giorno ero lì, come poi in aula il mese dopo, e ricevetti il sostegno unanime dei relatori (“davanti alla Corte non sarà solo, ci saremo tutti”, le toccanti parole del professor Palazzo, che ancora mi scaldano il cuore).

Martedì prossimo torna il divieto per il pubblico di partecipare in presenza alle udienze della Corte, a causa del perdurare della pandemia. Allora lo faccio da qui; tendo idealmente la mano alla collega che in aula darà voce ai Diritti e alla speranza, per mettere finalmente in sicurezza un risultato atteso da troppo tempo; “subito si cuce questo niente da dire ad una voce che batte… siamo questo traslare, cambiare posto e nome. Siamo” (Mariangela Gualtieri).

*Avvocato

L’ergastolo va a processo e ora per il carcere a vita può davvero essere la fine

di Andrea Pugiotto/ Il Riformista, 20 marzo 2021

La Consulta deciderà sul divieto di accedere alla libertà condizionale per gli ergastolani ostativi, cioè per chi non si pente. Se lo giudicherà incostituzionale, cancellerà la pena fino alla morte. In sua difesa si è costituito il governo ma era il Conte 2, Cartabia non l’avrebbe fatto.

  1. Il 23 marzo la Corte costituzionale deciderà la sorte dell’ergastolo ostativo alla concessione della liberazione condizionale. Sarà un’udienza pubblica, grazie all’intervento della parte privata opportunamente ammessa con decreto del Presidente della Consulta: la sua tardiva costituzione, infatti, era dipesa dalle restrizioni anti-Covid che avevano impedito al difensore di recarsi in carcere ad acquisire per tempo la procura speciale dell’assistito, Salvatore Pezzino. Sarà un’udienza partecipata anche dal Governo tramite l’Avvocatura dello Stato e – in forma esclusivamente cartolare – da Antigone, Garante Nazionale dei diritti dei detenuti, L’Altro Diritto, Macrocrimes, Nessuno Tocchi Caino: le loro memorie, infatti, sono state ammesse e acquisite al fascicolo di causa con decreto del Presidente Coraggio, su parere del giudice relatore Zanon. Ci sarà anche un convitato di pietra, la Corte di Strasburgo, che ha già accertato l’incompatibilità dell’ergastolo ostativo con l’art. 3 Cedu che vieta le pene crudeli, inumani e degradanti (sent. 13 giugno 2019, Viola c. Italia n. 2).

  1. È una dialettica processuale significativa. Nel 1974, chiamata a pronunciarsi sulla costituzionalità dell’ergastolo comune, la Corte decise in totale assenza di contraddittorio. Allora, benché sollevata da una corte d’assise, su eccezione del pm, con l’adesione della parte civile e dei tre imputati, nessuno, nemmeno il Governo, si costituì davanti alla Consulta. Ne derivò, per questo, una stringatissima sentenza di rigetto (la n. 264/1974). Oggi accade t’opposto. Merito delle nuove norme integrative del processo costituzionale che hanno introdotto l’amicus curiae, la possibilità per formazioni sociali e soggetti istituzionali, portatori di interessi collettivi o diffusi attinenti alla qua estio, di presentare opinioni scritte. Ma la novità va oltre il mero dato normativo. La partecipata udienza del 23 marzo, infatti, segnala la crucialità del tema all’esame della Corte, con tutte le sue domande di senso: se per Costituzione la pena mira al reinserimento del reo nella società, come può ammettersi il carcere a vita? Se è criterio costituzionalmente vincolante valorizzare i progressi del condannato durante l’esecuzione della pena, come può giustificarsi un regime ostativo che nega al giudice ogni valutazione individualizzata? Se il lungo trascorrere del tempo può comportare trasformazioni rilevanti nella personalità del detenuto e nel contesto esterno al carcere, su quali basi poggia una presunzione assoluta di pericolosità sociale che inchioda, per sempre, il reo al suo reato? Se il diritto al silenzio è espressione del diritto alla difesa e ad un equo processo, come può sanzionarsi il rifiuto di collaborare con la giustizia? Specialmente nella sua variante ostativa, si conferma così che “l’ergastolo non è la soluzione dei problemi, ma un problema da risolvere” (Papa Bergoglio).

  1. È merito non di un eccentrico e periferico tribunale di sorveglianza ma della Sez. I penale di Cassazione aver investito del problema la Corte costituzionale, seguendo strategie argomentative robuste e persuasive, già illustrate su queste pagine (Il Riformista, 9 luglio 2020). È lo stesso giudice che, con analoga iniziativa, ha aperto una breccia nel muro dell’ostatività penitenziaria, provocando la sent. n. 253/2019. Con essa la Consulta ha riconosciuto anche agli ergastolani ostativi la facoltà di chiedere – e non il diritto di ottenere – un permesso premio, dopo almeno 10 anni di detenzione, comunque condizionato a un severo regime probatorio e al vaglio rigoroso dell’autorità giudiziaria. Ora in gioco è la liberazione condizionale, che della pena è causa estintiva dopo 26 anni di detenzione e qualora il reo abbia dato prova di “sicuro ravvedimento”. Secondo la Consulta, è proprio la sua possibile concessione a rendere costituzionalmente accettabile la pena perpetua, perché la liberazione condizionale “consente l’effettivo reinserimento anche dell’ergastolano nel consorzio civile” (sent. n. 264/1974). Questa acrobatica quadratura del cerchio – che salva l’ergastolo purché non sia un ergastolo – non vale però per la condanna a vita di chi ha commesso un reato associativo incluso nella blacklist dell’art. 4 bis, 1° comma, dell’ordinamento penitenziario: agli ergastolani ostativi non collaboranti, infatti, la liberazione condizionale è preclusa. Da qui la principale censura della Cassazione: se la liberazione condizionale è l’unico istituto che, in virtù della sua esistenza nell’ordinamento, salva la costituzionalità dell’ergastolo, “vale evidentemente la proposizione reciproca” (sent. n. 161/1997).

  1. Come fa nel suo intervento la parte privata, anche gli amici curiae depositati a Corte argomentano l’incostituzionalità dell’ergastolo ostativo. Tutti, nessuno escluso. Si tratti delle memorie presentate da associazioni militanti (Antigone, Nessuno Tocchi Caino), da centri studi universitari (L’Altro Diritto, Macrocrimes) o da un soggetto istituzionale (il Garante nazionale). E una convergenza significativa che la Consulta farà bene a non sottovalutare. I dati statistici ufficiali, forniti dal Garante nazionale, attestano poi la natura tutt’altro che marginale della quaestio sottoposta alla Corte costituzionale: dei 1.800 ergastolani in carcere, 1.271 (pari al 71%) sono ostativi e il loro numero, negli ultimi 15 anni, è in costante crescita. Dunque, oggi l’ergastolo è principalmente un ergastolo privo di liberazione condizionale. Cioè detenzione fino alla morte. Il che spazza via l’abusato luogo comune del fine effettivo del carcere a vita: quelli ostativi, infatti, sono ergastolani senza scampo e senza speranza.

  1. La decisione di costituirsi in giudizio a difesa dell’ergastolo ostativo è del precedente Governo. Scelta non obbligata, dunque tutta politica, trattandosi giuridicamente di intervento facoltativo e libero nell’opzione pro o contro la legittimità della legge impugnata. C’è da aspettarsi che l’Avvocatura dello Stato giochi la carta disperata della political question, chiedendone l’inammissibilità: rimprovererà cioè alla Cassazione di aver contestato insindacabili scelte legislative di politica criminale, giustificate dalla necessità di contrasto alla criminalità organizzata. Sarà come calciare la palla fuori dal campo di gioco. Eppure l’Avvocatura non può ignorare il principio costituzionale “della non sacrificabilità della funzione rieducativa sull’altare di ogni altra, pur legittima, funzione della pena” (sent. n. 148/2019). Né che il divieto di trattamenti contrari al senso di umanità è assoluto e incondizionato, anche in caso di “pericolo pubblico che minacci la vita della nazione” (art. 15 Cedu). Né che la stessa Commissione anti mafia ha preso atto, alla luce della giurisprudenza più recente delle Corti dei diritti, che “la preclusione assoluta in mancanza di collaborazione non è più compatibile con la Costituzione e con la Cedu” (relazione del 20 maggio 2020). Sono cose che la nuova Guardasigilli Cartabia sa bene, avendo concorso come giudice costituzionale alla già citata sent. n. 253/2019: fosse dipeso da lei, immagino che l’Avvocatura dello Stato avrebbe seguito ben altro spartito.

  1. Serpeggerà tra i giudici costituzionali la tentazione della c.d. incostituzionalità prospettata, tecnica inventata nel noto caso Cappato: accertata l’illegittimità, la Corte ne rinvia la formale dichiarazione ad altra lontana udienza, dando così tempo al legislatore di riformare l’ergastolo ostativo. Alle tentazioni è bene non cedere. Specie in materia di libertà personale, il sindacato costituzionale – di norma – deve assecondare la sua natura contro-maggioritaria. Infatti, il tempo concesso a un legislatore riluttante, che molto ne ha già sprecato, allungherebbe indebitamente la reclusione di Salvatore Pezzino e di tutti gli ergastolani in condizione di chiedere (e magari ottenere) la fine di una pena altrimenti senza fine. Una reclusione che dura già da decenni. Se posso, inviterei a non dimenticarlo.

Colleghi magistrati, i processi non fateli in TV come Gratteri

di Emilio Sirianni/Il Riformista, 20 marzo 2021

Emilio Sirianni è un giudice che da sempre vive e lavora in Calabria. Nei giorni scorsi, dopo la messa in onda di “Presa Diretta” (la trasmissione Tv della quale è stato protagonista il Procuratore Gratteri), ha scritto una lunga mail ai suoi colleghi. La mail è stata pubblicata ieri su “Questione Giustizia”, la rivista di Magistratura Democratica. Ne pubblichiamo amplissimi stralci.

Ero indeciso se scrivere di nuovo sull’argomento. La sensazione di inutilità, di prendersela contro i mulini a vento è forte, come pure la voglia di dire “ma chi me lo fa fare”. Però, in questo Sud io ci sono nato e ci vivo, l’oppressione e pervasività di “quel” potere le conosco bene e conosco bene la rassegnazione alla sconfitta. E relativi volti. Quelli di chi, letteralmente, ti rappresenta la fine della vita tua e di chi ti è vicino, pur non facendolo in modo esplicito, ma sempre con ragionamenti ellittici, dal suono amichevole persino e proprio per questo più terrorizzanti. Quelli di quanti stanno dietro o a fianco ai primi, ma mai nei luoghi della gente normale e che indossano toghe, siedono in c.d.a., presiedono enti, casse, partiti, fondazioni, frequentano le stanze di compensazione degli interessi che contano e decidono le sorti di queste terre da generazioni. Infine quelli dagli occhi bassi e i pugni stretti, che mordono le labbra e cedono e cedono e pare non debbano mai smettere di farlo. Ma io sono in grado di comprendere e svelare, per il mestiere che faccio e, proprio perché conosco quei volti, sento di dover continuare a parlare. (…)

Su Rai3, nella trasmissione Presa diretta, si è parlato del noto processo Rinascita-Scott, che proprio in questi giorni muove i primi passi nella nuovissima aula bunker costruita in tempo record a Lamezia Terme. (…) Sento il bisogno di dire quanto questa riflessione mi costa. Mi costa molto, per tante ragioni che prima ho solo accennato. Perché ho riconosciuto nei molti filmati dei ROS i volti di cui dicevo. Perché ho riconosciuto, nelle parole intercettate, parole che mi suonano in testa e mi pesano sul cuore da una vita. Di più, mi costa molto perché, da tecnico, ho ben percepito -come chiunque di voi abbia visto la trasmissione- il valore e l’importanza di quegli elementi di prova. Il loro peso dirompente laddove vanno a incidere l’empireo degli intoccabili, squarciando la pesante coltre dietro cui si nascondono. Mi costa moltissimo perché sento sulla mia pelle la rabbia e il dolore di quei genitori che hanno perso i figli per mano di un potere criminale, di tutte quelle donne e quegli uomini che manifestavano a sostegno dell’indagine sotto le finestre dei carabinieri all’indomani degli arresti, invocando finalmente giustizia. Ma al tempo stesso, proprio per questo, non posso tacere.

La stampa – lo sappiamo bene – fa il suo mestiere. Cerca notizie d’interesse pubblico e le diffonde e il valore di un giornalista si misura sulla sua capacità di trovare le notizie e sulla capacità di esporle. Il giornalista di cronaca le scova muovendosi fra segreti istruttori e fasi di discovery, fra prove nascoste e prove esibite, fra indiscrezioni carpite e indiscrezioni fatte filtrare. Del resto anche la polizia giudiziaria e gli organi inquirenti fanno il loro di mestiere. Cercando prove, custodendole gelosamente, coltivandole affinché, al momento giusto, germoglino e diano frutti. Ma anche in questo caso, in un gioco di specchi e di parti che è antico quanto il processo stesso, praticando sovente l’arte dell’indiscrezione veicolata e del consenso. Spesso utili anche per le sorti delle ipotesi d’accusa, ma altrettanto spesso per quelle delle carriere personali. In America ci hanno costruito, da sempre, un genere letterario e cinematografico che non conosce crisi. Nella trasmissione di ieri, però, abbiamo assistito ad una sorta di smascheramento. Tutto si è svolto alla luce del sole anzi sotto la luce delle telecamere. Negli studi televisivi ed in esterni, letteralmente sul luogo del reato. Niente segreti pazientemente carpiti o sapientemente filtrati nell’ombra del lavoro d’indagine giornalistica od investigativa, ma ufficiali dei carabinieri che illustrano il contenuto di intercettazioni telefoniche e video, indicano i luoghi in cui si sono appostati per eseguire le riprese, illustrano le storie criminali dei vari protagonisti e gli organigrammi delle rispettive cosche. E in alto su tutti, ovviamente, l’Inquirente.

Tralasciamo gli aspetti personali che ognuno è libero di valutare come meglio crede. Penso ai reiterati riferimenti a concetti quali “codardia/vigliaccheria” o ai dialoghi interiori con compagna morte (intervista alla Gazzetta del Sud del 16 marzo). Quel che mi allarma, e che dovrebbe allarmare tutti, è che, proprio alla vigilia di un delicatissimo processo, si ritenga normale che il pubblico ministero partecipi, in veste di protagonista assoluto (pur se affiancato, come detto, da spalle di prim’ordine), al processo mediatico-televisivo che precede e affianca quello che s’avvia nell’aula bunker. Un processo nel quale tre giovanissime colleghe, che assieme non arrivano a sommare 10 anni di anzianità, dovranno affrontare, oltre all’ordinaria pressione che accompagna un processo di queste dimensioni e complessità anche la pressione mediatica, enorme, che una delle parti processuali oggettivamente contribuisce a determinare. So che sapranno farlo, che resistere a simili pressioni è la parte di bagaglio professionale che alle nostre latitudini si acquisisce più celermente, ma è giusto ed accettabile che ciò accada?

Infine, noi, che siamo cresciuti alle lezioni di garantismo di Luigi Ferrajoli e di tanti altri maestri, abbiamo fermo in mente il loro insegnamento che ci ricorda come il soggetto da tutelare nel processo penale sia sempre l’imputato, a difesa dei cui fondamentali diritti sono predisposte tutte le regole e garanzie che ne scandiscono l’incedere. La prima delle quali è quella che stabilisce che la prova si forma nel processo. Non nelle indagini ed ancor meno nella rappresentazione mediatica delle stesse. Una regola, questa, che esprime anche un fondamentale principio epistemologico del processo penale accusatorio, che individua nel contraddittorio e nella dialettica paritaria tra le parti del processo il miglior criterio per giungere all’accertamento della verità. Ed a me, a noi tutti che in queste terre disgraziate ci troviamo o abbiamo scelto di vivere, quello che interessa, prima d’ogni altra cosa, è la verità. Per questo, principalmente, vorrei invitare chiunque indaghi sulla criminalità mafiosa, con toga sulle spalle o stellette sul petto, a non arruolarsi in quella guerra che il Procuratore Gratteri ha evocato in TV, continuando, molto più banalmente, a fare ciascuno la cosa più difficile: il proprio mestiere.

La giustizia che confonde la questione morale con la questione penale

di Giuseppe Gargani/Il Dubbio, 20 marzo 2021

Lunedì scorso nella trasmissione “Presa Diretta”, su Rai3, per oltre tre ore si è svolto un processo parallelo a quello che è appena iniziato a Catanzaro, nel quale sono imputate oltre 400 persone.

Nella settimana nella quale il lungo processo all’Eni e in particolare a Scaroni e a De Scalzi, accusati della corruzione più scandalosa del secolo scorso, si conclude con l’assoluzione piena perché il fatto non sussiste, la Rai organizza una trasmissione in prima serata per anticipare il processo che è cominciato a Catanzaro da pochi giorni per oltre 400 imputati. Nella trasmissione televisiva tutti gli imputati sono stati dichiarati colpevoli a prescindere dalla conclusione del processo che avverrà fra molti mesi.

Le notevoli sentenze che si sono concluse e si concludono con l’assoluzione dell’imputato non sono in grado di turbare la stampa e la Rai, che calunniano ed espongono al pubblico ludibrio persone in attesa di provare la propria innocenza. Aggiungo che quando la sentenza statuisce che il fatto non esiste, significa che il processo era pretestuoso, non doveva essere fatto: è il caso dell’ultima sentenza dell’Eni, ente prestigioso nel mondo che è stato sottoposto per lunghi anni a denigrazioni di ogni tipo. Come è possibile che un Paese che ha solide tradizioni giuridiche come l’Italia sia caduto così in basso e con l’indifferenza dei più, si calpesti diritti fondamentali, ma anche principi elementari di educazione, di rispetto per le persone?! Proviamo a dare una risposta.

Assistiamo da anni allo scontro tra garantisti e giustizialisti con polemiche vivaci ma alla fine si scopre che ognuno è alternativamente garantista e giustizialista a seconda dei propri interessi personali. È la questione morale che viene invocata e al tempo stesso dimenticata.

Negli anni 70 è stata posta in maniera forte e drammatica la “questione morale” come problema sociale e istituzionale: lo fece per primo Enrico Berlinguer in presenza della crisi del comunismo sovietico per dare una linea politica al suo partito e per riscattarlo dai soprusi e dai finanziamenti sovietici. Invocò questa scelta giusta senza denunziare i “peccati” del Pci, solo per contestare il potere dei partiti della maggioranza che in quel periodo governavano.

E la “questione morale” divenne prontamente “questione penale” e la magistratura, con le modalità ormai note, si impegnò a processare il “sistema” più che a indagare sui singoli reati e sui diretti responsabili. Il giudice, nonostante le innumerevoli sentenze di assoluzione, che pur vi sono state, ha acquisito le caratteristiche del giudice etico che condanna il male per far vincere il bene! Siccome in Italia il giudice viene confuso con il pubblico ministero è quest’ultimo l’angelo vendicatore del malcostume: questo il messaggio che il servizio pubblico trasmette.

Il confondere la “morale” con il “penale” costituisce l’equivoco più deleterio per la comunità e per le istituzioni perché permette di “consentire” ma al tempo stesso di “criminalizzare” qualunque comportamento non trasparente o non opportuno!

La Rai trasgredisce la questione morale in tutti i suoi aspetti, riservatezza, obbligo di informazione corretta sostenuta da prove che valgono anche fuori dal processo. Nel vecchio processo penale italiano il pm istruiva il processo inquisitorio nel senso che raccoglieva le “prove” e portava il suo elaborato al giudice; nella concezione del “nuovo” (si fa per dire!) processo accusatorio il pm è dominus dell’accusa, ma gli indizi che raccoglie, debbono diventare “prove” nel contraddittorio, dinanzi al giudice. La dialettica processuale individua il pm come “parte” e dà rilevanza al giudice “terzo”, al di sopra delle parti.

Nella pratica quotidiana avviene in maniera profondamente diversa da come il codice stabilisce. E la Rai servizio pubblico che dovrebbe rispondere alle leggi dello Stato e alla Costituzione, ma dovrebbe soprattutto rispondere alla legge morale che è il presupposto di qualunque ordinamento, tiene conto solo degli indizi ricercati dal pm e li fa diventare prove nella trasmissione.

Dunque lunedì scorso nella trasmissione Presa Diretta per oltre tre ore si è svolto un processo parallelo a quello che è appena iniziato a Catanzaro e credo si sia superato qualunque limite.

Il processo ha un suo valore sociale e questo dovrebbero saperlo paradossalmente più i pm che i giudici, perché il dibattito in tribunale deve essere finalizzato a far diventare prova gli indizi, i sospetti che hanno consentito l’indagine con i provvedimenti relativi.

È il cittadino singolo e la società nel suo insieme che sono interessati e rendere giustizia e la democrazia si invera in questo rapporto istituzionale. D’altra parte questo accanimento a colpevolizzare le persone prima di un giudizio terzo non si comprende se non con il dilagare di un populismo penale irrazionale e pericoloso e soprattutto rancoroso. Nessuna democrazia al mondo può supportare una ferita così grave come questa, di fronte alla quale non si può assistere inerti.

Il governo che negli anni scorsi ha voluto garantirsi una presenza consistente nella Rai, deve dare direttive per far applicare la Costituzione, e il Parlamento deve controllare che non ci sia una informazione distorta che allarmi il cittadino e renda un imputato colpevole prima del sacrosanto processo di cui ha diritto. Il signor Riccardo Iacona conduttore della trasmissione così come gli altri conduttori dovrebbero prendere atto di tutte le sentenze che scagionano i presunti colpevoli che in precedenza avevano abbandonatemene offeso.

Aggiungo per ultimo che in particolare nella trasmissione di lunedì si è intervenuto in una problematica delicatissima costituita dal rapporto tra l’avvocato e il suo cliente che è l’anima del processo perché il diritto di difesa è sacrosanto e costituzionalmente garantito, e dunque l’onorevole avvocato Giancarlo Pittelli è stato offeso e calunniato.

Ho ricordato tante volte una mia proposta di legge, mai approvata, volta a tenere segreto il nome del giudice e in particolare del pm, per tutelarli e metterli appunto al riparo da reazioni sconsiderate, ma anche da critiche ingiuste a cui a volte sono sottoposti. Se ci fosse questa legge il protagonismo dei pm, inevitabile per la umana debolezza, non alimenterebbe processi farlocchi in tv e il procuratore Gratteri, pm nel processo di Catanzaro, sarebbe maggiormente rispettato. Un appello al ministro della Giustizia che ha i poteri per evitare i processi in tv.