giovedì, 25 Aprile 2024
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Crowds of people and gatherings amid the second wave of the Covid-19 Coronavirus pandemic, in Rome, Italy, 28 February 2021. ANSA/ MASSIMO PERCOSSI

Campania rossa, Veneto e Friuli arancioni. Rezza: “Sos brasiliana”

Campania rossa, Veneto e Friuli arancioni. Rezza: “Sos brasiliana”

Campania rossa, Veneto e Friuli arancioni. Rezza: “Sos brasiliana”

La terza ondata

di  | 6 MARZO 2021

Per la prima volta, dopo sette settimane, l’indice di trasmissione del virus Rt supera 1 e si colloca a 1,06 (range 0,98-1,20) nel periodo 10-23 febbraio. C’è “un’importante accelerazione nell’aumento dell’incidenza”, scrive la Cabina di regia di ministero della Salute e Istituto superiore di sanità: da 145 a 195 nuovi casi ogni 100 mila abitanti, con un aumento del 34,5% in sette giorni. Sono i dati al 28 febbraio: ieri era già a 222. “In netto aumento” i malati in terapia intensiva che sono passati in una settimana da 2.146 ai 2.327 (+8,4%) del 2 marzo, ma ieri erano 2.525 con un ulteriore +8,5% in appena tre giorni. Siamo al 28%, la soglia d’allerta è al 30% e nove Regioni l’hanno superata.

Non ci vuole molto a prevedere che il virus, anche per effetti delle varianti e di quella inglese in particolare ormai “prevalente” (54% dei nuovi contagi al 18 febbraio, chissà da allora…), non si fermerà da solo. “Bisogna intervenire in maniera tempestiva e radicale per contenere le varianti del virus”, ha detto ieri il professor Silvio Brusaferro, presidente dell’Iss. Il direttore della Prevenzione della Salute, professor Gianni Rezza, ha sottolineato i pericoli della variante brasiliana: corrisponde al 4,3% dei casi al 18 febbraio, è radicata soprattutto in Umbria, Toscana, Abruzzo, Marche e Lazio e ha mostrato una parziale resistenza al vaccino. Secondo il matematico Giovanni Sebastiani del Cnr, i numeri sono paragonabili a quelli del marzo 2020: “Le curve delle terapie intensive di Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna in crescita esponenziale, con tempo di raddoppio di poco sopra a 4 giorni per le prime due e pari a 7 giorni circa per l’ultima. E ci sono situazioni critiche anche in alcune regioni del Centro-Sud”.

Eppure mezzo Paese rimane in zona gialla, mantiene cioè la normativa che secondo il Comitato tecnico scientifico “ha dimostrato una capacità di contenere l’aumento dell’incidenza ma non la capacità di ridurla” (dal verbale del 23 febbraio). Solo la Campania, che ha Rt medio a 0,96 e i nuovi casi in rapido aumento, passerà lunedì in zona rossa, dove ci sono già Basilicata e Molise, ma solo perché l’ha chiesto il presidente Vincenzo De Luca. Veneto (Rt a 1,08) e Friuli-Venezia Giulia (0,92), ha disposto il ministro della Salute Roberto Speranza, raggiungeranno le altre Regioni in arancione. Che sono Lombardia (1,13 ma la stessa Regione ritiene più attendibile il dato degli ospedalizzati: 1,24), Piemonte (1,15), Trento (1,1), Bolzano (0,75 e incidenza in calo ma sempre altissima: 377 nuovi casi in 7 giorni per 100 mila abitanti), Marche (1,08), Toscana (1,18) e Umbria (0,79: il peggio sembra passato ma le terapie intensive sono al 55%, quasi il doppio della soglia di allerta) ed Emilia-Romagna (1,13 e ospedali in affanno). Lombardia ed Emilia-Romagna hanno dati peggiori della Campania, ma Rt non supera 1,25 e quindi la zona rossa, con il Dpcm attuale come col precedente, non è possibile. Le due Regioni hanno adottato misure locali. Bologna è da tre giorni zona rossa e altre province sono “arancione scuro”. La Lombardia da giovedì è “arancione scuro”: scuole chiuse e restrizioni varie per i parchi e il commercio. Secondo il presidente Attilio Fontana “le misure rafforzate hanno scongiurato la zona rossa”. Ma in realtà i dati analizzati a Roma risalgono ai giorni precedenti.

Si ipotizza che Rt salga meno anche perché con le varianti aumentano i casi fra i giovani, spesso asintomatici, mentre l’indice è calcolato sui soli sintomatici: “È possibile, almeno in parte”, dicono i tecnici della Salute. Che, se i numeri e le regole lo consentissero, avrebbero preferito provvedimenti più drastici.

Tutte le Regioni meno la Sardegna, già zona bianca, sono a rischio “alto” o “moderato”. Restano gialli il Lazio, la Liguria e la Puglia, dove Rt è rispettivamente a 0,98, 0,96 e 0,93, perché gli ospedali sono sotto le soglie d’allerta. Speriamo che duri.

Si conferma il calo dei contagi tra gli operatori sanitari e gli over 80, molti dei quali già vaccinati. Il piano vaccinale cambierà: ci lavorano il neocommissario, generale Francesco Paolo Figliuolo e il nuovo capo della Protezione civile, ingegner Fabrizio Curcio.

Draghi chiama McKinsey e soci per il Recovery PlanDraghi chiama McKinsey e soci per il Recovery Plan

di Gianni Barbacetto e Carlo Di Foggia | 6 MARZO 2021

Magari il Recovery Plan – come ci ricorda certa stampa – “se lo scrive da solo Mario Draghi” con il ministro dell’Economia, Daniele Franco. Di certo, però, al Tesoro non hanno disdegnato un aiuto esterno, quantomeno nel valutare i progetti. Il ministero ha infatti appena arruolato il gigante mondiale della consulenza McKinsey per farsi dare una mano sul Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) che deve stabilire come spendere i 209 miliardi del piano europeo entro il 2026.

Il coinvolgimento di McKinsey – rivelato ieri da Radio Popolare – va inquadrato in un contesto più ampio. A quanto risulta al Fatto, ci sarebbero altri tre o quattro colossi del settore al lavoro sulla revisione del Pnrr. Con la Pa, specie coi ministeri già lavorano le big four contabili (Kpmg, Deloitte, E&Y, Pwc) ma anche quelle della consulenza (Bain & Company e Boston Consulting). Nella prima versione del Piano, quella redatta ai tempi del governo Conte nella cabina di regia a Palazzo Chigi coordinata dal Comitato per gli affari europei (Ciae), qualcuna è stata già coinvolta (per esempio Kpmg e Pwc nelle schede di progetto della parte Sanità). Si trattava di una fase, come si suol dire, di lavoro bottom up (dal basso verso l’alto). La novità è che con l’arrivo di Mario Draghi si è deciso di coinvolgerle nella fase di cesura finale, quella che conta davvero.

Il ministero dell’Economia ha deciso di rivedere in parte il Piano trovato in eredità e, vuoi anche per i tempi assai stretti, ha chiamato i colossi. McKinsey è il leader mondiale nella consulenza strategica (dove si muovono anche Bain & Company e Boston Consulting): avrà un ruolo di supporto alle scelte, che restano politiche. In sostanza fornisce analisi dei dati e di impatto sui progetti selezionati dal Tesoro. Dovrà spiegare, per esempio, se un investimento ha funzionato o no in altri Paesi e fornire studi sui possibili effetti. Dall’analisi di questi dati può dipendere la scelta politica.

Il contratto, pare, non si basa su cifre elevate, è pensato per coprire i costi di lavoro del team (di norma poche persone) che si interfaccia col ministero. Il Tesoro è formalmente il cliente unico, ma i gruppi starebbero lavorando con tutta la cabina di regia incaricata di rivedere il Pnrr insediata al ministero sotto il coordinamento del dirigente della Ragioneria, Carmine Di Nuzzo, fedelissimo di Franco, e che coinvolge diversi ministeri, dalla Transizione ecologica (Cingolani) a quello della Transizione digitale guidato dall’ex manager Vodafone, Vittorio Colao, che proprio in McKinsey si è formato. Sul fronte digitale, peraltro, già lavorano con la Pubblica amministrazione colossi specializzati come Accenture.

Difficile che questi nuovi contratti siano particolarmente onerosi per il Tesoro. Contribuire alla stesura del Piano che determinerà gli investimenti pubblici dell’Italia nei prossimi sei anni vale già come riconoscimento. E, magari, come posizionamento.

La variante saudita

I sogni, vedi quello di Padellaro e quello mio su Conte, portano sfiga. Ma nessuno li può controllare, né costringere a un minimo di attendibilità. Infatti l’ultimo è quanto di più fantasioso si possa immaginare. C’erano tutti i capitribù del Pd (che è peggio della Libia) in conclave nei loro caratteristici costumi e copricapi. Era giovedì sera e s’interrogavano sul da farsi dopo le dimissioni di Zingaretti. Ciascuno sfornava il nome del suo segretario preferito, un po’ come Guzzanti-Veltroni che cercava il candidato premier del 2001 (Heidi, Topo Gigio, Napo Orso Capo, Amedeo Nazzari…). E col medesimo effetto-risata. Guerini? “E chi è?”. Bonaccini? “Sta in zona rossa e poi è già mezzo imparolato con Salvini”. Franceschini? “Aridaje!”. Lotti? “È inquisito e a quel punto tanto vale richiamare Matteo”. Pinotti? “Dài, è uno scherzo!”. Di nuovo Zinga? “Ma se dice che si vergogna di noi!”. Zanda? “Tanto vale chiamare De Benedetti”. Fassino? “Seee, serve giusto un portafortuna”. Gentiloni? “Meglio la melatonina”. Orfini? “Piuttosto un cappio”. Marcucci e Delrio? “Allora meglio Fassino!”.

Il barista che portava le tisane aveva La7 sullo smartphone e guardava uno strano tipo dall’accento emiliano che spiegava a un misirizzi due o tre cose sulla sinistra. Che non può innamorarsi di Draghi. Che non può farsi fare di tutto senza reagire, tipo la cacciata di Arcuri (“Con lui eravamo primi in Europa per i vaccini e dopo il taglio siamo ancora ai livelli di Germania, Francia e Spagna: fra sei mesi vedremo dove siamo”). Che non può rinunciare a Conte, massacrato e poi silurato non certo perché poco di sinistra, semmai troppo. Che deve lavorare a un campo largo progressista col M5S e col 40-45% di incerti, delusi e astenuti, anziché ammucchiarsi con Lega e Forza Italia Viva. Che deve battersi per i brevetti liberi dei vaccini e dei farmaci salvavita e contro l’ennesimo condono fiscale. A quelle parole, i capitribù ebbero una strana sensazione, come di déjà vu. “Queste cose mi pare di averle già sentite da qualche parte”. “Anch’io, ma tanti anni fa”. “Pure a me sono familiari, forse mio nonno, la maestra, chissà…”. “Una volta, in un incubo terribile, ho sognato che le dicevo anch’io”. “A me quel tipo pare tanto di averlo già visto, ma non mi ricordo dove!”. Il barista li interruppe: “Coglioni, quello è Bersani, il vostro ex segretario, che avete lasciato andare via perché non piaceva a quello di Rignano! Fatevi curare”. Lo presero in parola e chiamarono un virologo. Il quale li visitò, diagnosticò a tutti una nuova mutazione del Covid e dettò una terapia d’urto: mettersi in quarantena per 10 anni e richiamare Bersani come segretario. Quelli, terrorizzati, obbedirono. Poi lessero il referto: “Variante saudita”.

Graviano “canta” coi pim: nuova indagine su B.

Graviano “canta” coi pim: nuova indagine su B.

Le origini. I soldi del capo di Forza Italia. Cose loro “Mio nonno era in contatto con l’ex Cavaliere”: e i pm di Firenze scavano sui patrimoni iniziali di Silvio. Volano a Palermo. Risentono l’ex gelataio Baiardo

di  | 6 MARZO 2021

 

Si muove come un fiume carsico l’ inchiesta fiorentina per strage su Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri. L’ipotesi più volte sollevate e più volte scartata è che ci siano stati rapporti tra Silvio Berlusconi e Marcello dell’Utri con i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, poi condannati definitivamente per le stragi del 1992 e 1993.

Berlusconi e Dell’Utri sono stati già indagati e archiviati negli anni novanta e duemila. Sono di nuovo indagati da più di tre anni per le parole dette contro Berlusconi in carcere da Giuseppe Graviano nel 2016 e 2017 poi ribadite dal boss con affermazioni, tutte da riscontrare, sui suoi rapporti con Berlusconi risalenti al 1993 in aula al processo Ndrangheta Stragista.

L’indagine è stata rivitalizzata dalle dichiarazioni di Giuseppe Graviano del febbraio 2020 in aula sugli investimenti fatti negli anni settanta dalla sua famiglia materna nelle imprese milanesi di Berlusconi. Parole di un boss che non è un collaboratore e non si è mai pentito e sembrano più messaggi minacciosi che rivelazioni. Al Fatto risulta che nell’ inchiesta è stato sentito anche Salvatore Baiardo, l’ex gelataio ad Omegna, condannato per favoreggiamento più di venti anni fa perché ospitò quando erano latitanti i due fratelli di Brancaccio, arrestati nel gennaio 1994.

Dopo la scossadella trasmissione Rai Report che ha intervistato a gennaio il favoreggiatore sui presunti rapporti tra Berlusconi e dell’Utri con i due boss, qualcosa si muove. Anche Baiardo è un soggetto dalle rivelazioni carsiche. Nel 1995 aveva accennato qualcosa sui rapporti tra il gruppo Berlusconi e i Graviano ai Carabinieri che avevano arrestato i due boss a Milano. Fu ritenuto inattendibile. Poi l’inchiesta passò a Francesco Messina, attuale Direttore centrale Anticrimine della Polizia di Stato, allora capo della Dia di Milano. Messina andò a sentire Baiardo e scrisse un’informativa basata sulle sue rivelazioni che Baiardo non firmò per paura. Baiardo parlava vagamente dei rapporti tra dell’Utri e i Graviano, mai riscontrati. Messina in tv a Report ha detto che non ricevette nemmeno un impulso a indagare dai magistrati su quell’informativa. Era il novembre del 1996, quasi 25 anni fa.

Poi Salvatore Baiardo, ormai una decina di anni fa si è fatto vivo con Il Fatto, che lo ha intervistato. Tirò il sasso alludendo alle vacanze in Sardegna nel 1992 e 1993 dei fratelli Graviano a poca distanza dalla villa di Berlusconi, facilmente raggiungibile via mare da villa Certosa. Poi tirò indietro la mano dicendo che comunque da lì a dire che si erano incontrati “c’è di mezzo il mare”.

Infine Baiardo ha parlato a Report nell’intervista trasmesa due mesi fa. Secondo lui i rapporti finanziari tra i Graviano e Berlusconi sarebbero stati reali ma più importanti di come li racconta Giuseppe Graviano. Affermazioni non riscontrate e talvolta fumose e discordanti che sono senza alcun fondamento per i legali di Berlusconi. Al Fatto risulta che, dopo quelle affermazioni a Report, Baiardo è stato sentito a verbale dai pm di Firenze. Di nuovo. Era già stato sentito in gran segreto nei mesi scorsi altre tre volte e avrebbe parlato a lungo.

Secondo L’espresso i pm fiorentini sarebbero scesi in trasferta a Palermo per cinque giorni tra 8 e 12 febbraio per fare verifiche sul territorio proprio nel filone dell’inchiesta che riguarda i presunti rapporti economici del passato tra la famiglia Graviano e il gruppo Berlusconi. Inoltre i pm di Firenze prima sono andati a interrogare in carcere a Terni Giuseppe Graviano per chiedergli conto delle sue rivelazioni fatte al processo Ndrangheta Stragista su suoi presunti rapporti con Silvio Berlusconi. Il boss di Brancaccio è stato ascoltato il 20 novembre e il giorno prima era stato ascoltato il fratello Filippo Graviano nel carcere di L’Aquila. Da più di dieci anni Filippo a differenza di Giuseppe dice di essersi dissociato. Il boss ha ammesso di essere stato un associato a Cosa Nostra anche se nega di essere mai stato il capo del mandamento o di aver preso parte alle stragi del 1992 e 1993 per le quali è stato condannato.

I due fratelli Graviano sono stati condannati per le stragi del 1992 (costate la vita ai giudici Giovanni Falcone, con la moglie Francesca Morvillo e tre agenti di scorta e al giudice Paolo Borsellino con 5 agenti di scorta) nonché per le stragi del 1993 a Firenze e Milano, costate la vita a 10 persone in tutto tra le quali due bambine, nonché per gli attentati contro le basiliche e contro il conduttore Maurizio Costanzo e la moglie Maria De Filippi, nonché per l’esecuzione del beato don Pino Puglisi, parroco del loro quartiere Brancaccio. Nonostante tutte le condanne definitive i due fratelli che hanno ormai 57 (Giuseppe, il boss vero del clan) e 59 anni (Filippo, il più grande che però era in realtà più l’uomo dei conti) continuano a sperare di potere uscire. Filippo Graviano ha chiesto recentemente un permesso premio motivandolo con la sua dissociazione. Nel 2010 Giuseppe Graviano e Filippo Graviano furono convocati al processo di appello contro Marcello Dell’Utri per concorso esterno. Alla domanda se lo conoscessero, Filippo ha risposto di no raccogliendo i complimenti di dell’Utri sul suo ravvedimento mentre Giuseppe si è avvalso della facoltà di non rispondere. Dell’Utri, che era stato ritenuto colpevole in primo grado anche per la fase politica del suo impegno pubblico, in appello è stato assolto anche perché il racconto di Spatuzza in quel processo non è stato ritenuto attendibile.

Nell’agosto del 2013 Giuseppe Graviano scrisse dal carcere una lettera all’allora ministro Beatrice Lorenzin, che al Fatto disse di non averla letta. Nella lettera, svelata ieri da L’espresso, chiedeva un miglioramento delle sue condizioni carcerarie e sosteneva di essere in carcere “perché dal primo giorno del mio arresto mi è stato detto che se non avessi accusato il presidente di Forza Italia e collaboratori venivano accusato di tutte le stragi del 1993 in poi, lo stesso i miei fratelli, per i parenti altre accuse di 416 bis”. Il boss sosteneva di esser stato spinto “a confermare le accuse dei collaboratori di giustizia nei confronti del senatore Berlusconi, (…) per la provenienza dei capitali per formare il patrimonio della famiglia Berlusconi e in questi ultimi 20 anni altri che conoscete anche tramite i mass-media per ultimo Spatuzza che accusa il senatore Berlusconi e l’ex senatore dell’Utri delle stragi del 1993 e il senatore Renato Schifani per affari con i fratelli Graviano”. Il boss però scriveva “ho la forza di non cedere ai ricatti”.

Associazione per delinquere, Alfredo Romeo va a processo

Associazione per delinquere, Alfredo Romeo va a processo

L’inchiesta da cui nasce Consip

di  | 6 MARZO 2021

Ci sarà un processo per il ‘sistema Romeo’ a Napoli. L’immobiliarista Alfredo Romeo, il dominus del caso Consip a Roma, dove è sotto processo per la corruzione di Marco Gasparri ed è indagato per traffico d’influenze in concorso, tra gli altri, con Tiziano Renzi (il papà dell’ex premier Matteo Renzi), è stato rinviato a giudizio a Napoli per associazione a delinquere finalizzata a reati di Pubblica amministrazione insieme ad alcuni tra i suoi più stretti collaboratori, tra cui l’ex parlamentare Italo Bocchino, e alcuni dirigenti della Romeo Gestioni Spa. Lo ha deciso ieri il Gup Simona Cangiano con un articolato provvedimento con il quale ha prosciolto Romeo e altri imputati da due ipotesi di reati fiscali e da una ipotesi di corruzione per alcuni lavori di riqualificazione delle aree prossime all’Hotel Romeo.

Il giudice ha accolto buona parte dell’impianto accusatorio dei pm Celestina Carrano ed Henry John Woodcock, che avevano riproposto un’accusa di associazione a delinquere respinta dal Gip che nel novembre 2017 ordinò l’arresto di Romeo, ma solo per determinati e circoscritti episodi. Quasi tre anni e mezzo dopo, è arrivato il rinvio a giudizio di Romeo “promotore e organizzatore” del sodalizio di tangenti e favori intorno al suo impero imprenditoriale di leader del global service, la formula del tutto compreso nei servizi di pulizia e manutenzione di strutture pubbliche. Tempi lunghi, dipesi anche da una lunga battaglia in udienza preliminare sull’utilizzabilità di intercettazioni disposte col trojan in virtù di un’aggravante camorristica presto caduta durante le indagini.

A giudizio anche Ciro Verdoliva, direttore dell’Asl Napoli 1 e all’epoca direttore del Cardarelli, ospedale i cui appalti finirono al centro di uno dei filoni delle indagini. È accusato di corruzione e frode in pubbliche forniture, il processo chiarirà anche l’episodio dei lavori di ristrutturazione a casa sua ottenuti, secondo i pm, in cambio dell’assegnazione di consulenze. Verdoliva è stato prosciolto da un paio di accuse di rivelazione di segreto, ed è stato prosciolto con lui il carabiniere dei Nas Sergio Di Stasio, papà della deputata M5S, Iolanda Di Stasio. Altro nome di peso che finisce sotto processo è quello dell’ex governatore della Campania, Stefano Caldoro. Traffico di influenze, il capo di imputazione che divide con Romeo, Bocchino e Natale Lo Castro: avrebbe mediato con quest’ultimo, direttore amministrativo della Federico II di Napoli, la revoca di un appalto che interessava a Romeo.

Il reato di corruzione viene contestato anche a un dirigente di prima fascia del ministero della Giustizia, Emanuele Caldarera, all’epoca con funzioni di Direttore generale per la manutenzione degli uffici ed edifici del complesso giudiziario di Napoli. Secondo l’accusa, la figlia di Caldarera fu assunta in Romeo Gestioni mentre il padre sbloccava alcuni pagamenti in favore del gruppo.