La mattina del primo febbraio del 1950 San Potito Sannitico era coperta di neve, ma il tranquillo e ameno paesino doveva essere, di lì a poco, sconvolto da una immane tragedia: Un parricidio ed un tentativo di omicidio. San Potito Sannitico si trova ad un’altitudine che varia, dai 120 metri sul livello del mare del confine con Alife e Gioia Sannitica ai 1.040 della località Selva dell’Ariola. Fa parte del parco regionale del Matese. Dista da Caserta 43 km. Il nome deriva da San Potito, santo del II secolo le cui reliquie, scoperte a Tricarico, vennero portate a Benevento da dove si irradiò il culto. Il territorio comunale è stato abitato sin dall’antichità, come testimoniano alcuni ritrovamenti archeologici.

Nel XV secolo era denominato Casale Sancti Potiti e dipendeva amministrativamente da Piedimonte Matese. Nel 1615 ottenne una prima e parziale autonomia amministrativa che portò alla costituzione di un comune autonomo nel 1749. Dal 1862 si chiama San Potito Sannitico. Nel 1945 passò dalla provincia di Benevento a quella di Caserta.

Quella mattina, il giovane Mario Federico, di anni 24, nativo del luogo, portatosi in casa della zia materna Alfonsina Golini, dopo un concitato scambio di parole esplodeva all’indirizzo della medesima vari colpi di pistola attingendola alla fossa illiaca sinistra, alla faccia esterna del gomito e alla faccia esterna della coscia sinistra.

 Dopo aver sparato alla zia uccise il padre

Il giovane raggiungeva quindi di corsa la casa del genitore Alfonso Federico contro il quale esplodeva – dopo breve diverbio – altri colpi di pistola attingendolo all’emitorace destro. Le due vittime venivano soccorse da volenterosi e ricoverati all’Ospedale di Piedimonte d’Alife (oggi Piedimonte Matese). La Golini – sottoposta a interrogatorio da parte del magistrato inquirente – dichiarava di aver allevato dalla tenere età Mario Federico, figliuolo di una sua sorella deceduta molti anni prima e di aver apprestato al medesimo le cure di una madre. Il giovane – sempre secondo il racconto della donna – scampata miracolosamente alla morte – si era allontanato da lei in occasione del servizio militare prestato in Italia Settentrionale. Ritornato in paese – dopo aver espletato il servizio di leva – manifestò ben presto il profondo mutamento del suo carattere e la tendenza a costruirsi altrove un avvenire. Dimentico del bene ricevuto dalla zia (che in quel momento pensò in cuor suo di aver allevato una serpe) come tutti gli ingrati, volle dividersi da costei al punto da pretendere che la medesima provvedesse ad allocarlo altrove. Ottenne così un vano in altro edificio, la somma di lire 20.000 mila, biancheria, coperte, utensili per le esigenze più urgenti. Alcun tempo dopo Mario Federico si allontanò novellamente dal paese, trasferendosi ad Albenga in Liguria ove aveva prestato il servizio militare e nel quale gli si era presentata la possibilità di una modesta quanto temporanea sistemazione. Sta di fatto, però, che rientrò definitivamente a San Potito dopo una quindicina di giorni e precisamente il 28 gennaio.

 Il cervello fuso da un maleficio di una strega?

 

 Si disse che aveva passato le feste natalizie presso una vedova in quel di Albenga, una donna bellissima e vogliosa che portava però la nomea di essere una “strega”. Appena rientrato in paese si presentò alla zia e le domando se fosse vero che ella intendeva vendere alcuni immobili che la stessa le aveva promesso – tempo innanzi – in donazione nell’ipotesi che si fosse deciso a prendere moglie. La Golini gli rispose che ciò era vero in quanto il censurabile comportamento del giovane non più affettuoso come un tempo nei riguardi della zia gli aveva alienato considerazioni e sollecitudine. A tale risposta il Mario cavò di tasca una pistola e sparò senza pietà ripetutamente contro di lei, allontanandosi subito dopo, credendo di averla uccisa. Il padre Alfonso Federico, interrogato presso l’ospedale quasi in fin di vita ma sussurrando dichiarava che la mattina del primo febbraio suo figlio Mario (che da bambino aveva lasciato la casa materna per essere più concretamente allevato dalla zia Alfonsina Golini) si presentò da lui chiedendogli perentoriamente di cedergli un certo appezzamento di terreno. Il padre gli ricordava che quando era passato in seconde nozze – per la morte della giovane moglie – lui aveva invitato il giovane a vivere in famiglia ma lo stesso aveva risposto che stava bene con la zia. Alle obiezioni del genitore sulla concessione di un pezzo di terreno, gli faceva notare essere ciò impossibile essendo quel terreno gran parte dei suoi modestissimi cespiti destinati al sostentamento della famiglia e d’altra parte egli offriva ancora una volta ospitalità ed assistenza e cospicue possibilità di lavoro e sistemazione, il giovane, inopinatamente e proditoriamente, esplodeva contro di lui numerosi colpi di pistola, quindi fuggiva.

 L’assassino trovato agonizzante in un dirupo: aveva tentato il suicidio

 

 

Nel pomeriggio dello stesso primo febbraio Alfonso Federico decedeva in conseguenza delle riportate lesioni agli organi interni. La perizia sul cadavere del povero padre assassinato fu redatta – per ordine del magistrato inquirente – dai periti settori dottori Giovanni Pozzuoli, Giovanni Burrelli e Mario Pugliese. Nell’intervallo tale Augusto Petrella, un contadino che nonostante le bufere di neve era andato in giro per le campagne, informava i carabinieri di aver notato Mario Federico (la voce del suo duplice delitto si era già sparsa per le contrade e soltanto a pensare che aveva ucciso il padre la gente rabbrividiva) giacere in una scarpata della via della Bonifica a circa un chilometro da Piedimonte d’Alife. Sull’accorrere di squadre di soccorso, ambulanze, vigili del fuoco e carabinieri il giovane veniva infatti trovato bocconi e presentava ferita di arma da fuoco all’orecchio destro penetrante in cavità. Trasportato in ospedale e ricevute le prime cure il Federico veniva sottoposto ad interrogatorio dal maresciallo comandate la Stazione di Piedimonte d’Alife ed al medesimo dichiarava di aver sparato contro la zia perché costei le aveva fatte molte promesse senza mantenerle e contro il padre perché avendo chiesto a costui di cedergli del terreno per lavorare si sentì rispondere che egli non era considerato come figlio e che nulla si era disposto a fare per lui.

Nel suo interrogatorio al magistrato inquirente il Federico dichiarava di aver divisato di sopprimere la zia ed il padre nella ipotesi che gli stessi si fossero rifiutati di prestargli aiuto economico e concreto. Il padre gli aveva negato il terreno continuando a disinteressarsi di lui come aveva fatto per il passato. Dichiarava infine di aver tentato di uccidersi per sottrarsi alle conseguenze del gesto. La pistola usata per perpetrare i delitti fu da lui acquistata – a questo specifico fine – a Casal Monferrato con denaro guadagnato in un breve periodo di lavoro procuratosi in quelle contrade.

Non era sembrato, tuttavia, il delitto di un folle, sia per la logica delle deduzioni, sia per la dinamica dei fatti e sia infine per la causale. Il fatto poi che aveva tentato il suicidio ritornava tutto a suo favore. Fu una pazzia simulata? Certo è che la sua condanna per il delitto più aberrante che esista: il parricidio fu veramente mite. Ma quello che più impressionò i giudici fu il giudizio dello psichiatra.

Sottoposto ad alcuni test si comportò come un bambino dal cervello fuso. Al disegno mostratogli dal perito che raffigurava una donna incinta rispose che era la madonna. Un bambino sopra una bilancia rispose è il bambino Gesù del Santo Natale. Un bambino sul seggiolone col biberon rispose un bambino sulla sedia. Una donna che allatta rispose la madonna addolorata. Una vescica di plastica ed un termometro rispose un cuore trafitto. Un uomo con una cassa sulle spalle rispose un paracadute. Una cancellata con una bottiglia, un piatto, un bicchiere con vivande, rispose mi fa pensare tante belle cose perché mi fa pensare a mia madre perché io sono qua e lei e là. Uno scolaro con una cartella rispose un angelo. Un vecchio seduto sopra una panca rispose un mendicante.

Nelle conclusioni il perito scrisse tra l’altro che: “Mario Federico è persona affetta da frenesia biopatica di medio grado con eretismo temporamentale ed emotivo. Tale stato morboso preesisteva al reato ed aveva carattere e vigore di vera e propria infermità mentale. Al momento del commesso reato a causa di tale stato di infermità mentale l’imputato si trovava in condizioni tali da avere grandemente scemata, senza essere esclusa, la propria capacità di intendere e di volere. La lesione

auricol-mastoidea mandibolare provocata nell’imputato dal colpo di pistola infertosi nel tentativo di suicidio non ha modificato le già deficienti condizioni psichiche; cioè gli attuali rilievi clinici non possono far capo a detta lesione”.

Conclusa la fase istruttoria, Mario Federico, venne rinviato al giudizio della Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere (Presidente Paolo De Lise; giudice a latere, Victor Ugo De Donato; pubblico ministero, Pasquale Allegretto; giudici popolari: Osvaldo Troianiello, Ugo Stella, Domenico Barbato, Ugo Penna, e Ettore Faraone) per rispondere del duplice addebito di parricidio e di tentato omicidio in persona della zia con la comune aggravante della premeditazione. In dibattimento l’imputato confermava le precedenti dichiarazioni modificandole soltanto in rapporto alla formalità dell’acquisto della pistola comprata per mera difesa personale. L’idea comunque di sopprimere i due congiunti seguì di poco l’acquisto dell’arma.

A questo punto il colpo di scena. La difesa chiese ed ottenne che l’imputato venisse sottoposto a perizia psichiatrica esibendo un certificato del dottor Giulio Gaglione da Marcianise, che aveva riscontrato che il giovane era affetto da “squilibrio maniacale”. La Corte dispose un accertamento tecnico sullo stato di mente del prevenuto. L’indagine veniva affidata al dottor Giovanni Amati, direttore del manicomio giudiziario di Aversa. In definitiva – diagnosticò il perito della Corte di Assise – l’imputato Mario Federico era da giudicarsi persona socialmente pericolosa, con finalità prevalentemente ortofreniche.

Ripreso il giudizio l’imputato venne condannato ad anni 26 per parricidio e tentato omicidio in danno della zia con la concessione dell’attenuante del vizio parziale di mente. Fu un unico disegno – dissero i giudici – e quindi la continuazione dei delitti con unico movente. Quanto alle pene da infliggere fu un vero e proprio calcolo di matematica: quanto al parricidio comporta la pena dell’ergastolo. In virtù della diminuente del vizio parziale di mente tale pena viene degradata nella reclusione di anni 20 a 24 anni. Quindi condanna ad anni 22 elevata a 26 per la continuazione dei due delitti. “La materialità del fatto – scrissero i giudici nella loro motivazione – è pacifica. Il fine di uccidere – già ampiamente confessato dall’imputato – è reso manifesto dalle modalità dell’episodio. Sullo stato di mente del Federico l’egregia relazione del perito professor Amati ha posto sufficientemente in luce le gravi disarmonie riscontrabili nel campo psichico del Federico, accertate nel periodo del ricovero di costui nel manicomio giudiziario. L’infermità psichica del soggetto è evidenziata da notevoli irregolarità biologiche “iperplasia del tessuto linfoide; eritrocitopemia e grossolana evoluzione delle varie sensibilità da fenomeni di distonia neurovegetativa”. Ne consegue che l’atto delittuoso fu per buona parte frutto di un’automatismo che ebbe potere di resistenza dei centri inibitori del soggetto. Riconosciuta – scrissero infine i magistrati nella motivazione della sentenza di condanna – al Federico l’infermità parziale di mente non gli si può far carico dell’aggravante della premeditazione essendo inconciliabile sul piano tecnico- giuridico la persistenza e la sostanza del proposito delittuoso nel superamento di ogni contromotivo etico al delitto con la fragilità e l’oscillazione dei poteri critici ed inibitori d’una mente malata. Quindi la non concessione delle attenuanti generiche e della discriminante della provocazione. Definì il padre “vigliacco” e quasi mostrò di compiacersi di aver schiusa la tomba a chi gli diede la vita.

La Corte di Assise di Appello di Napoli (Presidente Nicola Mancini; giudice a latere Alberto Cordua e Procuratore Generale Luigi De Magistris, il nonno dell’attuale sindaco di Napoli) confermò l’appellata sentenza. La Cassazione pose il suo sigillo finale. Nei tre gradi di giudizio furono impegnati gli avvocati: Ciro Maffuccini, Vincenzo Fusco e Generoso Jodice.