Uccise con tre colpi di pistola il cugino e ferì il nipote

 il delitto accadde il 4 agosto del 1949, in località “Passo dell’Orso”, in agro di Marcianise

 

La tipologia dominante al cui interno si può inserire Marcianise

è sicuramente quella di un centro tipicamente contadino e l’economia

agricola ha costituito per lunghi secoli la ragione della sua storia e della

sua cultura: posta al centro della fertile pianura di Terra di Lavoro,

Marcianise appare sede di insediamenti contadini fin da epoca molto

remota che sono stati attratti dalla feracità del suolo e dalla possibilità,

quindi, di praticare un’agricoltura particolarmente produttiva e redditizia.

Nel 1872 il re Vittorio Emanuele II emanò un decreto nel quale

dichiarava Marcianise una città e non più un piccolo centro agricolo.

Ma è proprio nella Marcianise agricola che è scoppiato l’atroce delitto

di cui ora ci occupiamo.

Con un dettagliato rapporto i carabinieri relazionarono alla

Procura della Repubblica che il giorno 4 del mese di agosto del 1949,

in località “Passo dell’Orso”, in agro di Marcianise, il possidente terriero

Antimo Farina, era venuto a litigio – per motivi di interesse – col

proprio cugino Antonio Farina che uccideva con tre colpi di pistola.

Verso le ore 12 di quel giorno il Farina, come di consueto, si recò con

la propria moto Vespa a controllare lo stato di maturazione della canapa

esistente nella vasca di sua proprietà attigua ad altra vasca di proprietà

del cugino Antonio Farina.

In quel momento questi era intento a parlare a gesti con il sordomuto

Martino Biancur. Sul posto vi erano presenti anche altri parenti,

nipoti ed altri sensali: Antonio Farina, Pasquale Farina e vari operai,

addetti alla lavorazione della canapa.

Giunto sul posto Antimo, dai discorsi che il proprio cugino teneva

con il predetto Biancur, ebbe la sensazione che Antonio Farina

intendesse sottrargli un affare essendosi in precedenza il Biancur

pegnato con lui per la macerazione della propria canapa. Le rimostranze

che per tale motivo ebbe a rivolgere al cugino ne provocarono

il risentimento, che l’altro disse: “di non aver bisogno di fare un simile mercimonio”.

A questo punto Antimo si mosse contro il cugino il quale fece altrettanto per affrontarlo e la discussione, con reciproco scambio di ingiurie,

proseguì animatamente senza che alcuno dei due trascendesse

a violenza o minaccia.

Ad un tratto Pasquale Farina, figlio di Antonio, semideficiente

e ritardato mentale (per pregressa cefalopatia), fu visto armarsi di una

grossa mazza prelevata da un carretto ed avanzare con la stessa sollevata

in aria – accanto al padre che nel frattempo si avvicinava al cugino

Antimo – per giungere in atteggiamento risolutamente minaccioso fino

a due metri di distanza da quest’ultimo.

Intanto Federico Casella, cognato di Antonio Farina, che si trovava

nella vasca di macerazione, sentendo aumentare il tono della discussione

uscì dalla vasca e pure si avvicinò ad Antimo ricevendo un

pugno al collo.

Secondo la tesi di Pasquale Farina, però, sostenuta dal proprio

zio Antonio, egli obbedendo all’ingiunzione di questi, aveva deposto la mazza a terra, quando Antimo Farina, estratto la pistola dalla fondina

che teneva nella cintola dei pantaloni, aveva puntato tale arma prima

contro di esso Pasquale, facendo partire tre colpi ed infine due colpi dirigeva

contro il cugino Antonio, il quale, pur essendo gravemente ferito,

veniva da Antimo ripetutamente colpito al capo col calcio dell’arma.

Antimo Farina, invece, assumerà nei suoi interrogatori di essere

stato affrontato dal cugino Antonio e dal cognato Federico Casella che

avevano brandito delle “varre”, nonché dal nipote Antonio Farina, fu

Luca, che pur essendo disarmato cercava ugualmente di colpirlo; che

dopo essere stato colpito dai predetti aveva estratto la pistola ingiungendo

agli altri di arrestarsi ma poiché costoro invece incalzavano, avvicinandosi

minacciosamente più vicino era stato costretto a fare fuoco…

Federico Casella, cognato dell’assassino, sosterrà, invece, di essere intervenuto quale paciere e di essere stato costretto ad armarsi di

mazza soltanto in un secondo momento e quando già Antimo Farina

aveva cominciato a sparare. Dalle accurate indagini degli inquirenti risultò comunque che Antimo Farina, dopo di avere esploso i detti colpi

di pistola contro i propri congiunti, risalì sulla propria moto e con la

stessa si diresse verso Marcianise, ove nella casa del suo colono Vincenzo

Valentino (il Valentino scamperà alla morte per una singolare

circostanza nel delitto che Francesco Pasquariello consumò a Marcianise,

dopo una ventina di giorni, e precisamente il 28 agosto del 1949,

allorquando uccise il Preside Nicola Di Benedetto, perché lo aveva sfrattato

dal suo terreno; il delitto è narrato in un prossimo capitolo di questo

libro) lasciava la pistola, una Beretta calibro 7,65, e dalla nuora del

Valentino, Rosa Piccolo, si fece dare dell’alcool per medicarsi un dito

ferito – a suo dire – casualmente con la frizione della sua motoretta.

Si costituiva alle 17 di quello stesso giorno presso il Comando

dei Carabinieri di Caserta confessandosi autore dei delitti commessi.

Intanto Antonio Farina poco dopo moriva per le gravissime ferite e veniva

trasportato cadavere a Recale. Gli altri due feriti venivano di urgenza

ricoverati all’ospedale di Caserta.

Un morto e due feriti… per l’attrito tra due

Attraverso la perizia generica, ordinata dalla magistratura, risultò

che Antonio Farina, fu Pasquale, oltre a quattro piccole ferite contuse

superficiali al capo, aveva riportato due ferite da arma da fuoco

transfosse ma al torace col foro di entrata ed uscita al nono spazio intercostale di destra. Causa determinante della morte – avvenuta dopo circa un’ora – furono le ferite al torace. In Pasquale Farina furono riscontrate

varie ferite e conseguì la guarigione sul 40esimo giorno come pure altre

ferite furono riscontrate su Antonio Farina fu Luca.

L’assassino, nella stessa giornata della sua costituzione, veniva

sottoposto a visita medica da parte del dottor Luigi Iaselli, che constatò

una piccola ferita lacero contusa al mignolo sinistro.

Nel carcere fu sottoposto a varie visite dai sanitari dottori Antonio

Pucci e Giuseppe Cangiano e fu stabilita una guarigione in 20

giorni. Nell’interrogatorio reso il sei agosto (due giorni dopo il delitto),

il Farina dichiarò che i rapporti con il cugino erano tesi ed ebbe la sensazione

che lo stesso volesse sottrargli clienti nella macerazione della

canapa. Notò che il nipote Pasquale era armato di una varra e gli veniva

incontro in atteggiamento minaccioso. Ammise di aver colpito con il

calcio della pistola il cugino perché questi – nonostante fosse ferito – lo

teneva ancora avvinghiato mentre il Casella lo attendeva al varco impedendogli

la fuga in Vespa. Antonio Farina al Pretore dichiarò che nel

momento in cui sopraggiungeva Antimo Farina il sordomuto Biancur

aveva chiesto ad Antonio Farina (omonimo) di porre la canapa a macerare

nella vasca; mentre Federico Casella ed altri facevano da pacieri.

Pasquale Farina ammetteva di aver preso dal carretto una di

quelle grosse mazze che servono a sostegno laterale del carico di canapa

e di essersi messo con la detta varra contro lo zio Antimo convinto che

questi volesse aggredire il padre. Martino Biancur, (il sordomuto) ammetteva

di essersi trovato a parlare con il Farina ed ha negato che aveva

chiesto allo stesso di deporre la canapa a macero nella sua vasca. I carabinieri

interrogarono vari testimoni: Francesco Argenziano, Angelo

Scaldarella, Vincenzo Valentino, Vincenzo Braccio e Alessandro Penna,

i quali confermarono – per la massima parte – la tesi dell’assassino sulla

aggressione e quindi sulla legittima difesa.

Si appurò, altresì, che esisteva un sordo attrito tra le famiglie

specialmente da quando Antonio si era opposto alla collocazione di sostegni

per la installazione di una motopompa.

Dal canto suo Antimo si era rifiutato di concedere l’acqua per

l’irrigazione del fondo di Antonio. Entrambi si facevano concorrenza

nella clientela che si serviva delle loro vasche di macerazione. Il Pasquale

Farina (nipote dell’assassino) essendo notoriamente deficiente

poteva diventare pericoloso per il bastone che impugnava.

In sostanza si accertò che il Biancur aveva un contratto preliminare

con l’imputato per la macerazione della canapa; che la vittima

aveva chiamato cornuto il cugino ingiuriandolo e facendo intendere che

la moglie gli aveva fatto le corna. Che Antimo Farina era stato ferito al

mignolo e che aveva estratto la pistola quando gli altri si avvicinavano

minacciosi armati di varre, tridenti e zappe, che era stato colpito al

braccio per fargli cadere la pistola ma che questi aveva esploso tutti i 9

colpi dell’arma.

Una perizia espletata sull’imputato non potette, però, accertare

con quale mezzo era stata prodotta la ferita al mignolo. Ci furono – nel

corso della istruttoria formale – delle segnalazioni della difesa dell’imputato che segnalarono agli inquirenti una losca attività di tale Giuseppe

Rossi, che si diceva essere diventato il consigliere della vedova di

Antonio Farina (un altro esposto lo indicò come amante) e sulle deposizioni

di Raffaele Galiero e Pietro Trucco, si accertò che il Rossi aveva

avvicinato i due (in Capua circa 40 giorni dopo il delitto) e, promettendo

loro una grossa somma di denaro (sessantamila lire dell’epoca),

li aveva invitati a deporre contro Antimo Farina, modificando le loro

deposizioni già rese alle Autorità. I due, però, si erano rifiutati. Ma il

Rossi incriminato per intralcio alla giustizia si era protestato innocente.

Esibì un suo alibi adducendo che nel giorno indicato dai testi

non si trovava a Capua bensì a Napoli. Anche la parte civile segnalò

l’attività truffaldina per subornare i testimoni ed una parte rilevante pare

l’ebbe il sacerdote Antonio Farina (fratello dell’imputato) il quale, però,

con apposito esposto denunciava Salvatore Iavarone per subornazione.

Quest’ultimo nell’interesse dell’imputato avrebbe fatto sì che Fimiano

De Vivo, Golino e Perna, escussi poi quali testi nel processo – dicessero

al Rev. Farina ciò che a loro risultava. Il sacerdote scrisse il contenuto

delle deposizioni che costoro avrebbero dovuto rendere. In un secondo

momento però – avuto contatti con la vedova della vittima – induceva i

quattro testi a modificare le deposizioni già rese – dietro promessa di

denaro (una somma superiore a quella dell’imputato e cioè 80 mila lire).

I predetti però si rifiutarono.

Il Reverendo Farina dal canto suo riferì che lo Iavarone si era a

lui presentato con un foglietto su cui erano vergati i nomi dei testimoni

presentandogli i predetti. Sentito in merito il prete dichiarò che avendo

appreso che gli stessi erano analfabeti aveva riassunto su due foglietti il

contenuto delle loro dichiarazioni che aveva fatto firmare col segno

della croce.

Antimo Farina veniva condannato ad anni 24 di reclusione

per omicidio volontario

Gli imputati: Antimo Farina, Giuseppe Rossi e Salvatore Iavarone,

il primo per omicidio, gli altri per concorso in omicidio e detenzione

di armi da guerra, vennero tratti a giudizio innanzi la Corte di

Assise di Santa Maria Capua Vetere (Presidente, Carlo Fellicò; giudice

a latere, Victor Ugo De Donato; giudici popolari: Riccardo Ricciardi,

Gennaro Cervo, Gaetano Papa, Giuseppe De Chiara, Domenico Barbato,

Vincenzo Paero e Giovanni Pozzuoli; pubblico ministero, Francesco

Andreaggi; ufficiale giudiziario, Giuseppe Girardi e cancelliere

Domenico Aniello).

In dibattimento le cose si trasformarono e si fece a gara per mettere

testimoni falsi per avvalorare da un lato la legittima difesa e dall’altro

una proditoria aggressione. Parte civile e imputati con un cast di

avvocati valorosi si scontrarono più volte.

Nel dibattimento Antonio Farina fu Luca e Carmela Celiento

(anche in nome e per conto del figlio minore Pasquale) si costituivano

parte civile contro l’imputato. Questi a sua volta si costituiva parte civile

contro Rossi e Iavarone per subornazione dei testi a suo carico.

A chiusura gli avvocati invocarono l’assoluzione dell’imputato

per legittima difesa, in subordine, eccesso colposo con la concessione

delle attenuanti generiche. Per Rossi e Iavarone la richiesta fu di assoluzione

per insufficienza di prove.

La Corte, con verdetto del 28 luglio del 1951, condannò con la

continuazione (omicidio e tentato omicidio) Antimo Farina alla pena

di anni 24 di reclusione; il Rossi ad un anno e mesi 4 e lo Iavarone ad

anni uno. La Corte di Assise di Appello di Napoli, con sentenza del 9

marzo del 1953, composta dal presidente Nicandro Siravo, dal giudice

a latere, Gennaro Guadagno, e dai giudici popolari: Raffaele Merola,

Aldo Fruscella, Giovanni Russo, Emilio Rusi, Guglielmo Amorante, Alfonso

Apicella, con la partecipazione del procuratore generale Tito

Manlio Bellini, emise il verdetto contro Antimo Farina, Giuseppe Rossi,

e Salvatore Iavarone, tutti appellanti contro la sentenza della Corte di

Assise del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere.

Nel merito, i giudici di secondo grado stigmatizzarono il contrasto

esistente tra le deposizioni e ritennero che Antonio Farina (la vittima)

ebbe il torto di non prevedere le conseguenze delle sue rimbeccate

espresse nella frase: Non ho bisogno di fare questo mercimonio. O di leccare questi

piattelli, ferendo così l’orgoglio ed il prestigio economico dell’Antimo

che rispose: Perché io ne ho bisogno e tu no?

Inoltre i giudici di appello scrissero che era censurabile la valutazione

dei fatti compiuta dai primi giudici per la superficialità del metodo adoperato nell’esame delle prove della lacunosa ricostruzione.

Negarono la legittima difesa (mancava il pericolo imminente)

mentre concessero l’attenuante dello stato d’ira e le attenuanti generiche

per l’incensuratezza. La condanna definitiva (confermata anche

dalla Corte di Cassazione) fu di anni 10 e mesi 9. Condanna, lieve, invece,

ad un anno per Iavarone e assoluzione per Rossi.

Nel processo di primo, secondo grado e Cassazione furono impegnati

gli avvocati: Vittorio Verzillo, Cesare Di Benedetto, Alberto

Martucci, Lorenzo Ferillo, Alfredo De Marsico, Gaetano Farro, Amerigo

Crispo, Giuseppe Fusco e Federico Simoncelli, (il nonno dell’attuale

avvocato Federico Simoncelli). ( 9 – Continua)