Come salvarci dal sangue

 Ogni volta è diverso, ogni volta è uguale. Non si riesce nemmeno più a raccontare cos’è successo – come, a che ora? E dov’erano le vittime? Dormivano? Di certo al primo colpo gli altri si saranno svegliati. E allora cosa hanno fatto? Si sono difesi? Si sono nascosti? – non si può più pensare l’ultima carneficina domestica senza fermarsi ogni piè sospinto a dirsi, sì, anche questa volta i bambini erano gemelli, ma no, qui è stato con la pistola non con il cuscino, e però sì anche stavolta era l’ultima sera insieme, i genitori si stavano separando.

 E di nuovo in Piemonte, una villetta, ma no l’ultima volta era in Lombardia, una villetta. Nord, Nord Ovest: le ultime stragi in cui lui uccide lei, uccide i figli, questa volta anche il cane e poi si ammazza, almeno prova. Carignano, Rivara, Beinasco, ha senso disegnare una mappa geografica per dire: Piemonte, provincia, cintura di Torino? No, non ha alcun senso perché succede ovunque, continuamente, e però tornano in mente le parole di quel padre che chiede “lo scriva, per favore lo scriva che mia figlia l’hanno ammazzata nel civilissimo Nord Italia e non fra i barbari qui al Sud, lo dica”.

 Per qualche ragione, non è così difficile capirlo, al padre rimasto orfano di figlia importa che si sappia che è successo ‘su al Nord’. Stefania Prandi difatti lo scrive, nel suo libro intitolato Le conseguenze: una raccolta di composta commovente disperazione nelle storie di chi resta, delle sorelle, dei padri e delle madri, dei figli. Su al Nord, anche.

 Poi è sempre uguale, dentro ogni vita diversa. Si stanno separando, si sono appena separati. Lei se ne vuole andare allora piuttosto l’ammazzo, ammazzo anche i figli. Sono tutti roba mia. Nelle cronache si legge: lui era depresso, lei lo voleva lasciare. Il pover’uomo, la donna ribelle. Come se chi racconta fosse cresciuto con la stessa idea di mondo: la cultura di fondo, persino inconsapevole.

 C’è in questa cultura un senso del possesso maschile radicato e condiviso. Oscurare in chi agisce anche il più tenace dei sentimenti umani: la pietà. Per un bambino, per un cane. Perché se pure sei convinto nel tuo furore padronale, nel tuo assetto proprietario delle vite altrui, che la “colpa” è sua, di lei che vuole andarsene libera da te. La colpa però, alibi indecente, non può essere di un neonato, di un bambino. Non può essere di un cane.

Ma in che ordine uccidono la famiglia, quando ammazzano anche i bambini? Scelgono, quasi sempre, di punire la donna mostrandole prima la morte dei suoi figli. La vendetta per il torto subìto, l’onore leso: questo vince la pietà.

 Come si disinnesca un pensiero simile? La punizione non è un deterrente, è chiaro. Si uccidono, spesso, e comunque non è la pena eventuale a fermare chi strangola, soffoca, accoltella: uccide con le mani. Ci vuole tempo, per farlo. Non si fermano. Bisogna caricarla, una pistola. Pensarci. Non si fermano. Non bastano le denunce delle donne (“alle ragazze dico non denunciate, dopo sarà peggio: prendete i vostri figli e scappate di nascosto”, è ancora un padre che parla a Stefania Prandi), è triste ma è vero: quante sono le donne uccise dopo aver denunciato? E poi ci sono quelle che non sanno, non possono, non riescono. In Ogni volta che ti picchio Meena Kandasamy, poeta e attivista indiana, donna colta e libera, racconta la trappola della sottomissione psicologica, la sua, e l’impossibilità di chiedere aiuto – quando sei nella trappola.

 Cosa serve, dunque? Esiste un solo farmaco fin qui noto, e non ha effetto immediato. L’educazione. Dall’asilo, martellante: educazione, cultura, modelli condivisi. Non deve essere nel novero delle ipotesi, uccidere qualcuno che non è “tuo”, perché nessuno è tuo. Servono libri pensati per questo, scuole possibilmente aperte e sicure, pazienza se costa caro.

 Servono molte donne ridenti e potenti che parlino alle bambine, come ha appena fatto la vicepresidente degli Stati Uniti, e molti uomini educati fin da piccoli a rispettarle, amarle nella libertà. Ci vorranno trent’anni, cinquanta? Sì. Ma se cominciamo domani saranno cinquant’anni più un giorno. Ogni minuto perso è un minuto di ritardo.

 

Fonte: di  CONCITA DE GREGORIO/ Repubblica