Dopo le tormentate elezioni americane, sembra evidente che la Casa Bianca avrà un nuovo inquilino. Tutti hanno tirato un respiro di sollievo.  Non più inimmaginabili colpi di testa americani. Nonostante le resistenze di Trump che non vuole andarsene, tutte le potenze della terra hanno inviato le loro congratulazioni al nuovo Presidente, Biden. Anche Mattarella, anche Conte, perfino Renzi: l’ossequio dei vassalli con un misto di sollievo per i trascorsi pericoli e di timore per le decisioni in avvenire, tutti piegando  umilmente la testa.

      Qualunque azione si proponga Trump per sottrarsi al verdetto elettorale sarà senza storia. I giochi sono finiti. Purtroppo, le conseguenze di questo testa a testa si faranno sentire a lungo nella politica americana.

      Trump lascia un’eredità difficile da gestire. L’uomo, rozzo e imprevedibile, ha interpretato il ruolo più gradito alle masse, con i suoi slogan e i suoi tweet, con il suo populismo nazionalista, isolazionista e razzista, schierandosi a tutela dell’ordine costituito, della libera vendita al pubblico delle armi e per la sua ostinata difesa della polizia il cui comportamento, frequentemente omicida e razzista, è stato spesso incomprensibile per l’opinione pubblica.

      Questo atteggiamento prevaricatore è piaciuto a molta gente, specie nel Midwest, dove c’è l’America profonda, il nucleo  d’origine tedesca dell’immigrazione bianca, in contrasto con l’America delle metropoli. Trump ha scavato un solco profondo laddove c’erano solo differenze di mentalità. Ricucire queste ferite non sarà facile e non è neppure detto che sia possibile. Negli Stati Uniti sono latenti molti conflitti, a base etnica o religiosa o economica, non importa, ma che possono tutti trovare il modo di esplodere.

      La tensione negli animi è accentuata dai guasti della pandemia, che Trump ha negato fino all’ultimo, con un’incomprensibile ostinazione nonostante il disastro evidente che sta provocando e i suoi drammatici effetti sull’economia e sull’occupazione. Il sogno americano si è infranto nelle corsie degli ospedali e nelle secche dell’assicurazione.

      Biden avrà un compito delicatissimo sul fronte interno: placare i seguaci di Trump, scatenare una politica sanitaria adeguata per combattere l’epidemia, riaprire il negoziato per quell’Obama Care che Trump ha voluto annientare. Ci sarà poi da affrontare il problema degli emigrati nati in America, stabilendo nuovi rapporti con il Messico e con i Paesi centro-americani e così via.

      Sul fronte estero è già annunciata una marcia indietro. Molto probabilmente gli Stati Uniti riprenderanno il loro posto nelle organizzazioni internazionali abbandonate: rientreranno nell’OMS, forse anche all’Unesco, nel WTO, si siederanno di nuovo al tavolo nucleare con l’Iran, i rapporti con l’Europa dovrebbero migliorare, forse anche la NATO potrebbe trovare un guizzo di vitalità in questa occasione.

      Nulla di nuovo, invece, nei rapporti con il Regno Unito, con Israele, con l’Arabia Saudita, con l’Egitto, con il Giappone e la Corea del Sud, alleanze stabili da tempo e rassicuranti. Una cosa sembra certa: il sistema generale delle alleanze non dovrebbe cambiare.

      Ovviamente, restano invece aperti i grandi problemi con Mosca e con Pechino.

      Le voci su un probabile ritiro di Putin dalla vita politica si sono fatte negli ultimi giorni più insistenti. Se ciò dovesse accadere – anche la Federazione russa è un ginepraio d’interessi economici, politici e religiosi divergenti – è probabile una situazione di stallo fra le due grandi superpotenze, Bielorussia permettendo. Dipenderà dal tipo di governo che s’installasse  democraticamente a Mosca.  Un ritorno a criteri dittatoriali e di partito, al momento, sembra impossibile. Ma tenere unite le diversità della Federazione russa sarà un compito molto arduo, e questo si rifletterà sullo scenario internazionale. Pesano i rapporti russi sempre più intensi con la Cina e le sanzioni occidentali per le questioni ucraine. Su questi sarà difficile trovare un componimento accettabile per tutti.

      Con la Cina, invece, il discorso è molto diverso. L’espansione cinese è in diretta concorrenza con l’Impero americano. Le tirate di Trump contro il governo cinese e le presunte responsabilità per la diffusione della pandemia hanno di molto avvelenato i rapporti tra Pechino e Washington. Biden è un grande negoziatore, ma non è assolutamente esperto di politica estera. Si muove a suo agio tra i membri del Congresso e del Senato degli Stati Uniti, ma è un’incognita nei rapporti internazionali. Comunque, peggio di Trump sarà difficile. Almeno, è un uomo mite e educato, il che giova molto.

      Potrebbero migliorare le relazioni con Teheran e, forse, anche con la Corea del Nord, ma è troppo presto per formulare delle previsioni credibili.

      Nei rapporti con l’Unione europea, dopo il silenzio ostile di Trump, è ravvisabile un nuovo tipo d’intesa. Dipenderà da come evolverà la situazione economica europea, oggi disastrata più o meno come negli Stati Uniti. Il Recovery Fund programmato dalla von der Layden può essere una prospettiva interessante non solo per i Paesi europei ma, altresì, per l’America. Certo, il contenzioso esistente in materia di politica commerciale e fiscale internazionale resta in piedi, avviato probabilmente verso un approccio più pragmatico e non sorretto da misure sanzionatorie alla Trump. L’epoca dei ricatti dovrebbe essere finita.

      Un discorso a parte merita, poi, la questione turca. L’espansionismo di Erdogan, a metà strada fra la NATO e la Russia, in Libia a difesa di Haftar e in Armenia a  tutela dell’Azerbaigian (nel Nagorno-Karabach), mettendo da parte la questione siriana, denuncia un attivismo ambiguo e pericoloso. Il nuovo Segretario di Stato americano dovrà affrontare con decisione il ruolo che Ankara intende svolgere nel mondo, specie se la stella di Putin, il grande protettore di Erdogan, cominciasse a impallidire.

      Questo è un problema che c’interessa molto da vicino, come Italiani, anche se pare che al Ministro degli Esteri la cosa passi inosservata.

      Poco più d’un secolo fa la flotta italiana era sulle coste dell’Anatolia e le truppe italiane sbarcavano in Libia. Dopo un secolo, le parti si sono invertite: la flotta turca è nelle acque libiche e noi non riusciamo a liberare diciotto pescatori siciliani messi in galera da Haftar. Dovremo chiedere la mediazione di Erdogan?

      In conclusione, come a ogni elezione di un Presidente americano, molti sono gli interrogativi e i problemi. Le politiche muscolari dei Bush appartengono al passato.

      Dello stesso Trump tutto si può dire, ma nei quattro anni della sua presidenza gli Stati Uniti non sono stati in guerra con nessuno. Questo va detto e ricordato a suo merito. Ha battuto i pugni sul tavolo, non si è tolto le scarpe alla Kruscev, sbattendole sul tavolo dei negoziati alle Nazioni Unite, ha insultato chi gli pareva, ha cacciato su due piedi chi non gli piaceva, ma anche ha teso le mani alla Corea del Nord. Nessun soldato americano è morto per colpa sua. Pensiamo invece a Kennedy, l’icona dorata dei liberals, che ha cominciato la guerra del Vietnam.

      Trump lascia, comunque un’eredità pesante. Occorrerò tutta l’abilità di Biden e dei suoi collaboratori per ricucire le ferite e assicurare una presenza degli Stati Uniti nel mondo, una volta placati i sussulti interni e le probabili iniziative eversive dei primatisti, schierati con Trump.

 

 

Roma, 09/11/2020