Aspettando il lockdown. Tra feste proibite e passeggiate, l’ultimo weekend insieme

Da Roma a Milano, da Napoli a Bari, party in maschera clandestini per la notte di Halloween. Sfidando la prudenza e il rischio di contagio

 Sei uscito di casa per un invito allettante, una festa in maschera fissata per la notte di Halloween. Ce ne sono state parecchie, clandestine, scoperte dalla polizia: in case private, in club, in alberghi; a Milano, a Roma, a Napoli, a Bari. Ti sei chiesto perché mai rinunciare, in fondo saremo qualche decina, avremo maschere e, se proprio si deve, mascherine. Sei forte, sei sano, non succede niente, non può succederti niente, e comunque meglio rischiare che sentirsi presi in ostaggio. Il desiderio è più forte e imperioso della paura. Dev’essere, pensi, più forte della paura.

Tu, invece, sei quello alla finestra, ti sei affacciato per chiudere le persiane e hai notato il capannello che stazionava in piazza – i bar sono chiusi, pensi, e non c’è ragione di stare in giro, anche se è la sera di Halloween. Non di un anno qualunque, però. Così si fronteggiano – talvolta in silenzio, talvolta a voce alta – lo scandalizzato e il gaudente. Ciascuno con i suoi eccessi: l’uno, paternalistico, finisce per invocare ronde, se non linciaggi. L’altro non ha intenzione di mettere un freno alla corsa rapace, e spesso incattivita, del “faccio come voglio”. Non c’è bisogno di Halloween per cogliere nell’aria, insieme al rischio del contagio, i germi di una dialettica esasperata fra i desideri e le paure, fra le voglie di sempre e una necessaria prudenza.

La passeggiata sul lungomare in un tiepido giorno d’autunno. L’aperitivo anticipato. Il cenone senza motivo, per il gusto di stare insieme (o il timore di non poterlo più fare). Sono desideri semplici e, in qualunque altra stagione del mondo, innocenti. Diritti della quotidianità – rodatissimi, indiscutibili. La pandemia li rende, se non pericolosi, inopportuni. E, a dire il vero, perfino un po’ patetici, se rivendicati come vitali. O vissuti come una specie di furto goffo, smargiasso, di corsa contro il tempo: “Prima che ci chiudano di nuovo”. Ma fra gli scandalizzati e i gaudenti, c’è una terza via, una zona non grigia ma mirabile di gente che riesce a non farsi ricattare né dalla paura né dai desideri. È silenziosa, meno visibile.

Non ha indosso il saio, il cilicio, né il vestito scintillante della festa. Ha l’abito di tutti i giorni. Non è detto che possa permettersi il cosiddetto smart working, che comunque “smart” non è quasi mai. Non è detto che possa rinunciare al mezzo pubblico dannatamente affollato. E magari, a dispetto di certi amministratori locali un po’ sprezzanti, si sente davvero impotente di fronte alla tristezza dei figli costretti a vivere la scuola da lontano, quando la scuola, se funziona, funziona soprattutto da vicino. Non trova piacevole rinunciare alla festa, alla cena allargata, al cinema, al teatro, all’aperitivo all’ora giusta o sbagliata. Però accetta la rinuncia. Sente che quel poco che può fare, per proteggersi e proteggere gli altri, è mettere in discussione qualcosa.

È chi pensa che, se bastasse a tenere aperte le scuole, a non mandare in affanno gli ospedali, rinuncerebbe agli aperitivi anche per due anni. E non pensa, per questo, di essere più sciocco o più saggio degli altri.

Non gli va di ballare su una nave che affonda, ma nemmeno di perdere la speranza. Forse non lo sa, ma ha i tratti di una figura umana che Hannah Arendt ha chiamato fabricator mundi. Parlava dei romanzi di Kafka; diceva che erano popolati di gente intenzionata a costruire un mondo in armonia con i bisogni e con la dignità, “un mondo in cui le azioni dell’uomo dipendono solo da lui e che sia retto dalle sue leggi”. Senza essere l’incarnazione della grandezza, senza voler essere un modello, c’è chi prova a ricostruire il mondo. E quest’uomo di buona volontà, diceva Arendt, “può essere chiunque e ognuno, forse perfino me e te”.

Fonte: dI PAOLO DI PAOLO/ La Repubblica on line