I mostri esistono solo nel cattivo giornalismo, non nella letteratura

Nel suo ultimo libro, “La città dei vivi”, Nicola Lagioia racconta la violenza di Manuel Foffo e Marco Prato e anche Roma. L’identificazione coi malvagi è sempre stata una croce del romanzo, il motivo che l’ha fatto condannare per secoli.

Certo, ci sono i controesempi di Moravia e Albinati (o magari Trevi, o Pecoraro), oltre a quello sublime di Belli, ma è curioso che a raccontare Roma sia stato soprattutto chi, nato altrove, vi ha abitato assorbendone lo shock: dal romagnolo Fellini al milanese Gadda, dall’abruzzese Flaiano all’emiliano-friulano Pasolini.

Ora il barese Nicola Lagioia ci regala un magnifico paesaggio di Roma in nero e marciume nel romanzo ispirato alla terribile vicenda (2016) di Manuel Foffo e Marco Prato, che dopo due giorni di cocaina e fantasie convocarono a casa, torturarono e uccisero il giovane Luca Varani.

Una carogna insolita – Il romanzo (La città dei vivi, Einaudi) si avvicina cautamente all’omicidio, lo nomina quasi subito ma poi lo prende alla larga: scene di ordinario degrado, il panico stupito di uno scampato alla trappola, la confessione di Foffo ai familiari in autostrada, la canzone di Dalida che ossessivamente suonata da Prato disturba i vicini di camera nell’albergo in cui, a cose fatte, intendeva suicidarsi.

Il montaggio narrativo ha l’andamento di un animale che giri sospettoso intorno a una carogna insolita, o di una zattera di naufraghi attirata da un maelstrom. Una Roma piovosa dove sangue di topo imbratta i computer degli uffici; Roma senza sindaco, commissariata e col Colosseo aperto a intermittenza; Roma sepolta dalla monnezza e invasa da gabbiani voraci, Roma mutante e aliena in cui gli autobus prendono fuoco da soli e il giorno del Giudizio è già arrivato.

Le prime ottanta pagine del libro sono forse la cosa più bella che Lagioia abbia scritto finora, e fanno dimenticare nella loro tensione qualche sciatteria di stile giornalistico (“la gestione dei rifiuti stava vivendo una stagione tragica”).

Il coro – La tensione diminuisce un poco quando subentra il “coro”, come viene chiamato l’insieme dei conoscenti e degli inquirenti che Lagioia si premura di sentire durante il lavoro di documentazione; il brusio si fa leggermente meccanico, la tecnica di allontanamento dal momento cruciale raffredda e spezzetta il testo; anche l’idea di sceneggiare gli interrogatori dei due assassini, con tutti quei “disse”, “rispose”, “ipotizzò”, dà l’impressione di un indugio per riprendere fiato.

Ma la bellezza ritorna, potente, quando finalmente ci si concentra sui due giorni che culminarono nelle torture e nell’omicidio. Nessuno splatter, nessun compiacimento: piuttosto un insopportabile conseguirsi di smemoratezze, malintesi, lapsus, noia, vanterie, ricerche fallimentari e grottesche di un “terzo”. Sembra di essere lì, in quella camera che pian piano si riempie di disordine fisico e mentale, fino alla frase indimenticabile: “Ho cominciato a baciarlo mentre lui lo strozzava”.

La coerenza fortissima tra il delitto e l’ambiente in cui è avvenuto si afferma all’insegna della spossatezza, dell’imprecisione, della rimozione: spazzatura fuori e dentro, assenza d’autorità, un “non so” generalizzato. Una confusione disperata di cui il consumo abnorme di cocaina è più l’effetto che la causa. La letteratura, a differenza del cattivo giornalismo, non conosce mostri; il “mostro” è consolatorio, significa che noi umani non saremo mai così, e invece qui tutto è umano – questo mondo in cui i genitori non conoscono i figli, in cui un fresco amore romantico (quello tra Varani e la fidanzata) può basarsi sulla menzogna, in cui le ossessioni torbide funzionano con esatta geometria, questo mondo è il nostro mondo.

Personaggi senza voce – Lagioia si avvicina più che può alla mente e alla psiche dei due assassini, ma c’è un ultimo diaframma davanti al quale si arresta, ed è il rischio di trasformarsi in ciò che racconta. Il sintomo stilistico è la mancanza della “voce” dei due: qualche WhatsApp piattamente referenziale, qualche fantasia esplicitata, qualche rinfaccio per non addossarsi la colpa principale, ma né Foffo né Prato li sentiamo mai parlare nella continuità della vita – un ex amante dice di Marco Prato che era “gentile, protettivo, molto dolce”, ma dobbiamo credergli sulla parola.

E se di un personaggio non sentiamo la voce, è difficile identificarsi con lui. Però anche questo, che è oggettivamente un limite, deriva dall’onestà intellettuale e dalla serietà etica di Lagioia: che non eroicizza sé stesso, non vuol travestirsi né da giudice né da innamorato.

Di quel “ritiro in una dimensione estatica” a cui può portare la perversione (ritiro che sospende l’identità, il tempo, la distinzione tra ragione e istinto) Lagioia non ha alcuna esperienza, beato lui; e quindi si limita a nominarlo, così come allude all’ipotesi di “possessione diabolica” avanzata da qualche esperto.

Da quel delitto è ossessionato, sì, e cerca radici di coinvolgimento dentro di sé, ma non gli sfugge la sproporzione: le somiglianze che può trovare sono un personale progetto di prostituzione finito ancor prima di cominciare, uno sconsiderato lancio di bottiglie dal balcone in seguito a ubriachezza, e l’aver fatto a pezzi Il nome della rosa di Umberto Eco (invece che un ragazzo accoltellare un libro, quale miglior sigillo di un destino?).

Un salto insostenibile – Il salto da fare sarebbe insostenibile; (anche) per paura di quel salto Lagioia decide addirittura di lasciare Roma per Torino. Resta l’attrazione del male in quanto tale, non ulteriormente declinata; un misterioso pedofilo olandese, che apre e chiude il romanzo, sta forse come emblema proprio di questo, di una tentazione che non si potrà capire mai (oltre che di Roma come grande accogliente ruffiana, prodromo dell’esotica Tailandia).

Al posto di quell’impossibile trasmutazione, appunto con onestà, Lagioia fa l’unica cosa che può fare, cioè discute in pagine di impegno morale sul tema della responsabilità e del rapporto con “l’altro difficile”. Cita un esperimento di “giustizia riparativa” tra chi ha sparato e chi è rimasto vittima della lotta armata; va a trovare il Mosè di Michelangelo a San Pietro in Vincoli e sulla scorta della lettura freudiana si chiede come si possa rifondare la legge una volta sbollita l’emozione. “Qual era il compito dei vivi, se i morti avevano mancato il proprio?”.

Insomma si fa carico delle conseguenze di una narrazione come la sua. “È facile”, dice, “identificarsi con la vittima, ma quale ostacolo emotivo dobbiamo superare per immaginarci carnefici?”. L’identificazione coi malvagi è sempre stata una croce del romanzo, il motivo che l’ha fatto condannare per secoli; si sa che spesso nei romanzi i cattivi sono più interessanti dei buoni, ma il grave è che a un primo sdegnato “no, io non sono certo così” del lettore segue inevitabilmente una segreta ammissione “però forse sì, è proprio così che nel mio profondo potrei o vorrei essere”.

Fin che ammiro Jago passi, ma che succede se divento Raskolnikov? Nel migliore dei casi questo ha un valore catartico, nel peggiore porta all’emulazione. Dipende dalla maturità del lettore, ma anche dalla sincerità dello scrittore nel mettere le carte in tavola; e comunque è un rischio che il romanzo non può fare a meno di correre.

Lagioia ha avvertito con molta urgenza questo problema (le parole di Simone Weil poste in epigrafe all’ultimo capitolo recitano “il senso di colpa si combatte solo con la pratica della virtù”) e ci ha dato il ritratto di due ragazzi incapaci di dominarsi, contorti e vili nel nominare i propri desideri, incapaci soprattutto di interpretare l’oscura alchimia scattata tra loro; uno si è suicidato in carcere e l’altro impiegherà tutta la vita per convincersi che si è trattato solo di un maledetto incidente. Da parte nostra, nient’altro che la voglia di leggere tra le righe e di inchinarci al dolore.

Fonte: di Walter Siti/ Il Domani, 25 ottobre 2020