Dall’emergenza può nascere nuova civiltà. Quando l’Italia approvò la legge Basaglia e quella sull’aborto era sotto l’attacco del terrorismo e travolta dal caso Moro. Fu uno slancio riformatore senza precedenti. E oggi?

 A quarant’anni dalla morte di Franco Basaglia (29 agosto 1980), quello che appariva come un pensiero eretico, o comunque irregolare, rivela oggi la forza di un classico, che offre costantemente nuove scoperte e spunti inediti. Nella prefazione alla nuova edizione del volume Franco Basaglia di Pierangelo Di Vittorio e Mario Colucci (Alpha&Beta, 2020), lo psichiatra Eugenio Borgna, a proposito dell’ approvazione della legge 180 nel maggio del 1978, si dice ancora “stupefatto dinanzi alla rapidità con cui si è giunti” a quel provvedimento. Tanto più che si era in un momento particolarmente drammatico della vita nazionale: l’assassinio del presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro, e degli uomini della scorta. L’attacco terroristico più efferato contro lo Stato e la società italiana, avvenuto durante il governo di solidarietà nazionale guidato da Giulio Andreotti, non impedì – ecco il punto – di varare due tra le più importanti riforme della storia repubblicana. Il giorno dopo il ritrovamento del cadavere di Aldo Moro, la Commissione sanità del Senato approvava in sede deliberante il testo della legge 180 sulle “Norme per gli accertamenti e i trattamenti sanitari volontari e obbligatori”, di cui era relatore il democristiano Bruno Orsini, che disponeva la chiusura dei manicomi. Appena una settimana dopo, il Senato licenziava in via definitiva la legge 194 sulla “Tutela sociale della maternità e interruzione volontaria della gravidanza”. Siamo in quella che si può definire una condizione di emergenza, quando un attentato così feroce per le vittime e tanto insidioso per le conseguenze civili e sociali si sovrappone alla crisi politica, determinando uno stato di acuta instabilità. Ebbene, è proprio allora che vengono approvate due leggi di altissima qualità democratica che avrebbero avuto riflessi assai significativi sulle esistenze individuali dei cittadini e sulla mentalità collettiva.

In altre parole, nel corso della più pesante condizione di emergenza conosciuta dall’Italia in questo dopoguerra, il sistema istituzionale rivelò la più efficace capacità riformatrice. E oggi? È di questi giorni la proroga dello stato di emergenza dovuto alla pandemia, e quali ne siano le implicazioni, è materia di intenso dibattito. Assai interessanti, in proposito, i contributi di Antonio d’Aloia nella rivista BioLaw Journal – Rivista di BioDiritto. Ma c’è un tema che rimane ancora sullo sfondo, ed è così riassumibile: lo stato di emergenza può rivelarsi, per le più diverse ragioni, un incentivo all’innovazione politica e istituzionale, oppure è destinato, fatalmente, a bloccare qualunque istanza riformatrice? A differenza di quanto accadde negli anni Settanta, la seconda ipotesi sembra la più attendibile.

L’esperienza ci dice che una qualsiasi crisi politica, uno stato di emergenza vero o presunto o totalmente falso, un tragico fatto di cronaca o una crudele azione criminale, l’evasione di un recluso o, come si vedrà, la paura di una sconfitta elettorale o un qualunque altro motivo di angoscia sociale, sono in grado bloccare il più timido slancio di rinnovamento. Un esempio tra i mille possibili: alla fine del 2017, riprese la discussione parlamentare sulla riforma della legge per la cittadinanza. Molta parte della sinistra si opponeva, temendo l’impatto che quella normativa avrebbe potuto avere sull’opinione pubblica in vista delle successive elezioni. La legge fu lasciata cadere e, tuttavia, le elezioni del 4 marzo 2018 sancirono la sconfitta del centrosinistra e anche di quei suoi esponenti che, sul tema, avevano assunto posizioni particolarmente moderate.

Certo, le ragioni che rallentano i processi di riforma sono tante e più complesse, ma qui interessa evidenziare quel sentimento politico, una vera e propria inibizione che impedisce di pensare il cambiamento quando si manifestano stati di ansia. Prevale, cioè, l’idea che non ci si possa permettere un atto di libertà a causa delle conseguenze che potrebbero prodursi in una opinione pubblica frustrata o fiaccata da un forte stress. Il tentativo di rassicurare l’inquietudine collettiva, determinata da un cambiamento non previsto, se non subìto, costituisce il pretesto emotivo che spiega molte cose. E che contribuisce a una generalizzata crisi della fiducia. Proprio sotto questa luce, il confronto tra ieri e oggi risulta sconfortante.

Si pensi a quella particolare condizione di emergenza in cui dovettero precipitare Franco Basaglia e la sua equipe quando, nel 1968, un paziente dell’ospedale psichiatrico di Gorizia uccise la moglie a colpi d’ascia nelle ore di “temporanea uscita” dalla struttura. Le polemiche furono feroci, eppure, la dolorosa coscienza di quella tragedia – si immagini quale catastrofe anche personale rappresentò per Basaglia – non dissuase dalla volontà di ripensare radicalmente l’ambiente manicomiale. Ciò aiuta a spiegare come nel cuore del rinnovamento basagliano vi fosse la pratica, il fare, un richiamo ostinato alla sperimentazione che non può escludere preventivamente passi falsi, errori di valutazione e nemmeno scelte azzardate.

Ma torniamo alla questione della velocità della riforma legislativa: la ragione della prontezza con la quale si lavorò a una nuova legge in materia di assistenza psichiatrica risiede anche nella proposta del Partito radicale di calendarizzare un referendum relativo all’abrogazione di alcuni articoli della legge n. 36 del 1904, già parzialmente integrata dalla riforma Mariotti del 1968. Un eventuale voto referendario, che respingesse la proposta abolizionista, avrebbe reso impossibile la modifica della normativa prevista dal progetto di riforma. Per evitare che l’eccezionalità delle circostanze e il diffuso smarrimento sociale potessero vanificare l’impegno a riformare l’istituto manicomiale si arrivò al varo della legge in meno di tre settimane dalla sua presentazione (ministro della Sanità era Tina Anselmi).

Vennero definitivamente aboliti gli ospedali psichiatrici e istituiti i trattamenti sanitari obbligatori e i servizi psichiatrici di diagnosi e cura negli ospedali civili. La 180, poi, incontrò molti ostacoli e le critiche di una composita corrente di pensiero che riteneva la legge, per un verso, troppo limitata, e, per l’altro, velleitaria in quanto difficilmente applicabile e, in ultima istanza, responsabile di aver consegnato alle famiglie il peso materiale e umano dei malati. In realtà, a ostacolare la corretta applicazione della normativa furono altre cause: le resistenze istituzionali, il ritardo nell’attivazione dei servizi e la debolezza di alcuni apparati pubblici (vedi Daniele Piccione, Il pensiero lungo, Franco Basaglia e la Costituzione, Aplha&Beta Verlag, 2013).

Ma questa è tutta un’altra storia. Ciò che qui preme ribadire è che la condizione di emergenza, nell’Italia sgomenta, non ostacolò, anzi, persino agevolò, l’approvazione di una legge di civiltà.

Infine, non c’entra nulla con la chiusura dei manicomi, ma c’entra molto con la psichiatria. Ed è per questo che rinunciare a richiamarlo ci spiacerebbe. La Bompiani ha appena ripubblicato Il campo di concentrazione, di Ottiero Ottieri, dove si racconta l’esperienza del ricovero volontario dello scrittore in un ospedale svizzero nel 1970, a seguito di una fortissima nevrosi depressiva. E dove Ottieri si descrive come un “impiegato dell’infelicità”, nel luogo in cui “il mestiere è la sofferenza”.

Fonte : di Luigi Manconi e Chiara Tamburello/LA REPUBBLICA /26 ottobre 20