La difficile arte di coniugare il buon senso e la giustizia

Sentenze coraggiose. Una volta tanto, ed è per noi una sorpresa gradita, la legge, la giustizia e il buon senso si sono felicemente coniugate nella decisione di un giudice. La legge è la nr. 3 del 27 gennaio 2012, chiamata, a suo tempo, “anti-suicidi”. La sentenza è del Tribunale di Prato. Il buon senso è quello espresso nella motivazione del redattore.

Il fatto è semplice, e purtroppo non isolato. Un artigiano, entrato come socio nell’azienda dove lavorava, si era oberato di debiti societari, e aveva firmato una cospicua fideiussione bancaria. Non ha potuto soddisfarla, e il creditore è andato all’incasso. Il giudice, dopo una serie di accertamenti, rilevato che il poveretto aveva sempre tenuto una condotta corretta, non aveva occultato né sperperato risorse, e aveva agito solo per conservare l’azienda e il posto di lavoro, ha dichiarato il debito inesigibile. In pratica lo ha annullato.

Il fondamento normativo di questa saggia pronuncia è, come dicevamo, una legge di quasi dieci anni fa. Essa consente al privato cittadino “in stato di sovra-indebitamento” di ristrutturare, e nei casi estremi addirittura di annullare il debito contratto in buona fede, quando cioè pensava di poterlo onorare. La legge, come quasi tutte le nostre, è di difficile interpretazione, contiene espressioni pompose e aggettivi improbabili, ed è già stata bollata dalla stessa Cassazione di “vuoto legislativo”.

Forse anche per questo è poco conosciuta e ancor meno applicata. In effetti non è né un esempio di coerenza né un modello di efficienza, in quanto prevede scansioni temporali abbastanza singolari. Tuttavia è importante, proprio perché rimedia ad alcune situazioni “inesigibili”, dovute alla concomitanza di fattori che hanno reso impossibile al debitore di adempiere le proprie obbligazioni.

Quando la Legge è stata approvata, l’Italia usciva – si fa per dire – da una crisi allora ritenuta epocale: molti imprenditori si erano suicidati, ed anche per questo le è stato appiccicato il nome sopra riferito. Nessuno poteva immaginare che a distanza di pochi anni sarebbe arrivata una catastrofe ben peggiore con l’interruzione totale, sia pur temporanea, delle attività produttive e con le durature conseguenze di cui vediamo e vedremo la gravità. È quindi presumibile che, nello sconquasso dei rapporti creditizi che si profila davanti a noi, e nella tragedia che rischia di coinvolgere migliaia di individui, avremo altre sentenze del genere. Meglio ancora sarebbe se il Parlamento aggiornasse la legge, individuandone meglio i criteri di applicazione e semplificandone le procedure.

A queste considerazioni, per così dire, tecniche, vorremmo aggiungerne altre due.

La prima è che il giudice di Prato si è dimostrato, appunto, coraggioso e umano. Egli infatti ha applicato la norma con un’interpretazione estensiva di grande saggezza, evitando cavillosi distinguo e andando dritto allo scopo prefissosi dal legislatore: quello di salvare un onesto poveretto da una situazione disperata e, tutto sommato, nemmeno a lui addebitabile.

La seconda è che il medesimo criterio di “inesigibilità” dovrebbe essere tenuto più in considerazione in tutti provvedimenti autoritativi. Il pragmatico diritto romano è pieno di brocardi che si ispirano proprio alla necessità di adattare la norma astratta alla dura realtà delle cose. I concetti del “summum ius summa iniuria” e quello simmetrico del “fiat iustitia pereat mundus” ci ammoniscono che l’applicazione arcigna della legge si converte spesso nel suo contrario, creando paradossi e iniquità. Il principio applicato dal giudice di Prato è quello, ancora più cogente, che “ad impossibilia nemo tenetur”: a nessuno si possono chiedere prestazioni impossibili.

Chiedendo scusa all’esausto lettore di questo noioso latinorum, vorremmo solo ricordare a noi stessi che alcune disposizioni che il governo minaccia di varare per tutelarci dal contagio del Covid rischiano proprio di confliggere con quest’ultimo postulato. Imporre comportamenti inesigibili perché contrastano con il buon senso – e magari con il dettato costituzionale – non è soltanto inutile, ma anche dannoso, perché la loro inevitabile e generalizzata violazione rischia di trascinar con sé quella delle altre necessarie e sacrosante cautele. Perché l’obbligazione che il cittadino si accolla verso lo Stato, nel cosiddetto contratto sociale, è un po’ come il debito dell’artigiano di Prato: oltre certi limiti, viene azzerato dalle circostanze, e alla fine anche dal giudice.

Fonte: di Carlo Nordio/  Il Messaggero, 14 ottobre 2020