Santa Maria Capua Vetere (Ce): “Ci hanno picchiati in 300, ci sono dei ragazzi in coma”

“Ci hanno picchiato verso le quattro e mezzo, cinque del pomeriggio del lunedì”, “sono venuti in trecento di loro. Hanno sfondato le celle e hanno preso 3 o quattro di loro. Intanto hanno detto “dobbiamo morire tutti”. Ci sono ora due o tre ragazzi in coma, stanno cercando i loro familiari ma non li trovano. C’è gente a cui hanno fatto saltare i denti, gente con la testa rotta, le mani rotte, con fratture ovunque”, “Ci hanno tolto tutti i diritti”.

È rotta dal pianto la voce del detenuto che, nella registrazione della telefonata che il Riformista ha ricevuto e pubblicato anche sul sito, racconta a una familiare il pestaggio che si sarebbe consumato lo scorso 6 aprile nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Sulla vicenda è aperta una indagine da parte della procura locale, oltre cinquanta agenti di polizia penitenziaria sono sotto inchiesta per il reato di tortura e abuso di potere.

Nella telefonata il detenuto denuncia la sospensione delle videochiamate con i familiari: “Quelli aspettano cinque, dieci giorni che si tolgono i lividi?”, dice. E prosegue: “Hanno dato manganellate a tutti quanti e fino a due minuti fa. Sono scesi ed io ero seduto su uno sgabello in cella e mi hanno picchiato di nuovo; è passata là una guardia, mi ha visto sullo sgabello e mi ha detto “Ah sei seduto, non ti alzi davanti a noi?”. C’è gente che non si sa che fine abbia fatto; alcuni sono in ospedale per le botte che hanno preso, li piantonano in ospedale e non li fanno vedere a nessuno. È lì che devono andare a cercare”.

Che cosa sia accaduto in quel giorno di aprile nel padiglione Nilo del carcere campano lo stabilirà la magistratura. A noi resta il compito di non spegnere l’attenzione su quello che potrebbe delinearsi, come ha detto il Presidente dell’Associazione A Buon Diritto, Luigi Manconi, ieri a Omnibus, come una “azione di rappresaglia militare” di alcuni agenti di polizia penitenziaria nei confronti di diversi detenuti che chiedevano solo rassicurazioni nel pieno dell’emergenza sanitaria da Covid-19.

Il condizionale è d’obbligo, soprattutto quando si tratta di fatti accaduti al di là di quel muro che divide i presunti buoni dai presunti cattivi, dove spesso vittime e carnefici si scambiano i ruoli, e dove è difficile trovare testimoni. Per fortuna che esistono le telecamere di sorveglianza, i cui video ora sono al vaglio della magistratura: potrebbero confermare quanto già testimoniato da numerosi detenuti che hanno raccontato di brutali pestaggi da parte degli uomini della Polizia Penitenziaria entrati nelle celle a volto coperto e muniti di manganello.

La presunzione di innocenza vale per tutti. Ma ciò, crediamo, non impedisca al Ministro Alfonso Bonafede, responsabile politico dell’amministrazione penitenziaria, di pronunciarsi in base a quanto emerso fino ad oggi. La stessa cosa vale per il capo del Dap Bernardo Petralia. Della riservatezza mediatica di Petralia non ci stupiamo: da quando è al vertice del Dap non ha ancora rilasciato interviste o dichiarazioni di rilievo, se non andiamo errati. Per quanto riguarda il Ministro Bonafede siamo un po’ stupiti, o forse no, da questo suo silenzio.

Anche Pd, Leu e +Europa, con diverse interrogazioni parlamentari, hanno chiesto chiarimenti, ma al momento nessuna risposta. Eppure il Ministro già in passato ha rilasciato dichiarazioni, sempre con la dovuta premessa “Sono casi che verranno vagliati dalla magistratura e non entro nel merito”, relativi a fatti di cronaca. Tuttavia in questo caso c’è un assordante silenzio.

Certo, l’indagine preliminare non è conclusa e si potrebbe obiettare che non sarebbe opportuno pronunciarsi in una fase così embrionale, ma c’è un problema politico più generale dietro la vicenda: cosa è accaduto nelle carceri nel periodo del lockdown, quando anche quattordici detenuti hanno perso la vita? Esiste o no un problema strutturale all’interno degli istituti di pena?

E poi va ricordato che in circa 22 mesi sono emerse, “attraverso documentazioni e indagini, altre nove vicende simili relative ad altrettanti istituti penitenziari”, come ha ricordato sempre Luigi Manconi. Ieri abbiamo contattato gli uffici di Bonafede e Petralia per chiedere una dichiarazione ma nulla ci è stato risposto, se non informalmente che entrambi “non intendono esporsi essendoci accertamenti della magistratura in corso e che da parte del ministero c’è la massima attenzione nei confronti della vicenda”.

“Ci hanno tolto tutti i diritti”, diceva il detenuto nella drammatica telefonata pubblicata sul sito del Riformista. “Se io voglio scrivere a casa non posso. È come se non esistessimo più: non siamo più detenuti ma prigionieri. Io li porto in tribunale, non ho mai fatto una denuncia, ma questa volta hanno esagerato”. Quanto ancora bisogna aspettare perché le istituzioni battano un colpo e dicano – non a noi giornalisti in cerca di una dichiarazione – ma alla popolazione, ai cittadini che il carcere non è una cantina sociale di cui nessuno si occupa ma un problema della collettività?

Fonte: di Angela Stella/ Il Riformista, 3 ottobre 2020