Recensione di Augusto La Torre

e Angelo Izzo

al libro: “Le ragioni del Boia”

di Giuseppe Garofalo.

 Con grande piacere mi è stato chiesto da Ferdinando Terlizzi, mio amico e maestro nonché decano del giornalismo casertano, di scrivere la recensione del libro intitolato “Le ragioni del boia”, scritto dal Preg.mo Avv. Giuseppe Garofalo. Essendo detenuto assieme al mio amico Angelo Izzo, che ritengo essere un bravissimo scrittore, ho chiesto a Ferdinando se potessi avvalermi della collaborazione di Izzo per redigere la recensione del predetto libro. Avendo ricevuto la Sua approvazione io e Angelo abbiamo scritto quanto segue.

Premetto che la mia idea di avvalermi della collaborazione di Izzo non è basata soltanto sulle sue indubbie qualità di scrittore ma anche dal fatto, in questo caso per nulla secondario, che Angelo Izzo ha conosciuto di persona, avendolo nominato per alcuni suoi processi molto delicati, il grande avvocato Alfredo De Marsico, uno dei penalisti più preparati e coraggiosi della Campania e forse di tutta Italia. Inoltre, nelle varie carceri in cui Angelo è stato ristretto nella sua lunghissima carcerazione ha avuto modo di ascoltare i commenti lusinghieri fatti dai detenuti casertani (casalesi e non) sulla preparazione, serietà e grande deontologia professionale dell’Avv. Giuseppe Garofalo. Perciò, non appena ho proposto ad Angelo di scrivere assieme a me una recensione del libro dell’Avv. Garofalo, lui ha subito accettato con vero piacere (cosa scontata per chi come noi ama scrivere).

Dopo una attenta lettura dell’interessantissimo libro intitolato: «Le ragioni del boia», queste che seguono sono le riflessioni mie e di Angelo Izzo.

Iniziamo col dire che mai titolo di libro ci è apparso cosi attrattivo e ci ha incuriosito: Le ragioni del boia? Ci siamo immediatamente chiesti, prima ancora di leggere il libro, quali potessero essere le ragioni del boia. Perché, i boia avevano delle ragioni? Per due carcerati di lunghissimo corso, con alle spalle efferati crimini, anche se per molti aspetti molto diversi per movente e modalità, ma pur sempre di crimini efferati si tratta e quindi è quasi “naturale” che a noi interessano molto anche e soprattutto “le ragioni dei boia” ammesso che esistano.

Il libro è ambientato nel periodo storico che va dalla fine del Settecento al primo decennio dell’Ottocento, quindi un periodo che per Napoli e il Meridione d’Italia fu di grandi cambiamenti. Infatti, in poco tempo, si passò dal regime borbonico alla rivoluzione giacobina, quindi alla controrivoluzione borbonica, seguita dall’avvento del regno bonapartista a cui farà seguito una nuova restaurazione borbonica.

Protagonista del racconto ambientato in quell’epoca di repentini rivolgimenti accompagnati da arresti, impiccagioni, torture, è la figura dell’avvocato, Vincenzo Jorio, il quale, nelle prime pagine del libro, si definisce “avvocato criminale del prestigioso foro di Napoli”. L’Avv. Jorio appartiene alla categoria degli avvocati gentiluomini, alla quale, a nostro modesto parere, rientrano in pieno merito tanto il compianto Alfredo De Marsico quanto il nostro autore del libro, che ancora oggi distingue i grandi legali dai molto più numerosi “Paglietta” che affollano i tribunali di questo nostro Paese e che non poco contribuiscono alla decadenza della Giustizia di cui l’Italia è stata invece la culla. C’è una definizione della professione di difensori che credono davvero in quello che fanno e che noi troviamo piuttosto bella e che qui riportiamo:

“Per questo amiamo la nostra toga, per questo vorremmo che quando il giorno verrà, sulla nostra bara fosse posto questo cencio nero al quale siamo affezionati perché sappiamo che esso è servito ad asciugare qualche lacrima, a risollevare qualche fronte ingiustamente umiliata, a reprimere qualche sopruso e soprattutto a ravvivare nei cuori umani la fede nella vincente giustizia.”

 (Dalle memorie del grande giurista e avvocato Francesco Carnelutti).

Questo romanzo è la storia e le sagaci riflessioni del protagonista in un periodo in cui i perseguitati divengono persecutori in un battibaleno, e trasformano la giustizia in un crudele gioco asservito agli interessi del padrone di turno. A noi due, leggendo alcune storie narrate nel libro di Garofalo, come sappiamo ambientato tra il ’700 e l’800, ci è sembrato invece di trovarci ai tempi attuali, con le varie emergenze camorfistiche e/o terroristiche che hanno purtroppo stravolto in peggio perfino il tanto vituperato codice Rocco.

L’atmosfera del libro, che è di piacevolissima lettura, rimanda alle atmosfere della Palermo di Leonardo Sciascia, nel suo libro “11 Codice Egizio” e della Buenos Aires di Jorge Luis Borges nei suoi libri sulle investigazioni di Isidoro Parodi. Con arguzia ed una ironia velata, il lettore verrà inchiodato alle pagine del libro che racconta di personaggi storici e di avvenimenti realmente accaduti fra cui giganteggiano i Nelson, il principe di Canosa, la regina Carolina, Giuseppe Bonaparte, Gioacchino Murat, e tutta la pletora dei martiri della repubblica napoletana del 1799.

Certamente Jorio non è filo-borbonico e non risparmia invettive quando vede assassinare dal boia uomini e donne protagoniste della breve parentesi repubblicana cui era stata promessa la grazia e l’esilio, come il giurista Mario Pagano cui oggi sono intitolate piazze e licei, per il quale prova profonda commozione nel vederlo con la catena intorno al collo. Contemporaneamente scrive pagine rabbiose davanti alla stessa ingiustizia che vede condannare a morte il più volte assolto dagli stessi giudici, il luogotenente Rodio colpevole solo di essere fedele al proprio re Borbone.

La cosa che ci ha molto colpito è stata la bravura dell’Avv. Garofalo di intessere una trama degna del miglior John Le Carrè. In particolare, è interessante il racconto inerente lo stratagemma impiegato dalla Polizia del Re, Giuseppe Bonaparte, cioè che la Polizia riusciva ad intercettare tutti i messaggi (oggi li chiameremmo “pizzini”) provenienti dalla Sicilia, da Capri, da Ischia e altre isole del Tirreno conquistate e controllate dalla flotta Inglese da cui partivano le congiure controrivoluzionarie. Particolare molto divertente è che la Regina Carolina di Borbone, per apparire bella e sexy si faceva acquistare e poi spedire a Palermo dai congiurati napoletani delle calze di seta prodotte da un noto stilista napoletano dell’epoca (a noi ci ricordano le famose cravatte di Marinella), ma le calze in questione venivano acquistate e pagate dalla Polizia Bonapartista.

Il 10 maggio 1809 il penalista Jorio viene arrestato con l’accusa di partecipazione ad una congiura per assassinare il re Gioacchino Murat. Reato punito con la pena di morte. Gli accusatori furono un monaco pentito e suo fratello, ex capo brigante, anche lui pentito. Naturalmente trattandosi di una “vendetta” contro l’abilità del penalista Jorio, i pentiti prima citati erano in effetti dei falsi pentiti, creati a laboratorio dagli inquirenti filo governativi. Ed anche in questo caso a noi due ci è sembrato di trovarci in epoca più che recente, dato che di pentiti creati in laboratorio vi è abbondanza!!! Basterebbe citare il più famoso di tutti. Carmine Schiavone!

L’Avv. Jorio è innocente, paga, invece, per aver fornito una difesa sostanziale e non di facciata ad alcuni filo borbonici. Saliceti, il ministro della polizia, cui i borbonici fecero saltare per aria il palazzo ferendolo e uccidendogli un domestico, nomina i giudici e li sceglie in base alla fedeltà alla causa bonapartista trasformando i processi in una farsa tragica. Un predecessore del sistema di cui il povero P. M. Palamara è oggi considerato il simbolo nonostante tutti conoscano benissimo la genesi antica di questo sistema marcio di nomine e di appartenenze politiche!!!

Tra parentesi una nota del libro narra che qualche anno dopo il principe di Canosa diventato ministro di polizia del nuovo governo borbonico rivelò i nomi degli attentatori scagionando coloro che erano stati in precedenza condannati e giustiziati. Ma i giudici si giustificarono dicendo che erano stati fuorviati da false dichiarazioni e che quindi la sentenza era stata giusta!

Come allora, anche oggi, i giudici che commettono errori gravissimi non pagano mai.

Ora, come avrete sicuramente capito, a parte taluni eccessi forse non ripetibili in età moderna, tuttavia quelle del libro non sono solo storie del tardo Settecento, infatti, basterebbe visionare il film del regista greco Costa-Gavras sulla «sezione speciale dei magistrati collaborazionisti» nella Francia occupata dai nazisti per rendersi conto del detto maoista: «La giustizia è come un timone, dove lo giri essa va».

Alcuni aspetti sono di stretta attualità, basti pensare a quanti avvocati sono vituperati per avere osato difendere il “mostro” di turno.

Alan Dershowitz, professore di diritto a Harvard, è famoso come l’avvocato dai clienti indifendibili, protagonista di casi impossibili (fra questi il celeberrimo processo Von Bulow). Alan Dershowitz viene considerato un mito da moltissimi penalisti americani e preso d’esempio dai giovani penalisti. Recentemente ha scritto: «quando decido di accettare un caso ho un solo piano: voglio vincere. Proverò con ogni mezzo, che non violi la legge, ad ottenere l’assoluzione del mio cliente, senza preoccuparmi delle conseguenze». Afferma insomma che l’avvocato non deve scusarsi per aver aiutato un assassino a tornare libero, anche ove questi possa uccidere di nuovo. Cosi come il chirurgo non deve avere rimorsi per avere salvato la vita di un paziente che una volta guarito commetta un omicidio o fosse un criminale di guerra ricercato. Giustifica il suo punto di vista con il fatto che il sistema non vuole che realmente ci sia giustizia: tutti i protagonisti del processo per le ragioni più varie vogliono in realtà solo vincere.

Questa affermazione è molto più vicina alla realtà di quanto si immagini, per chi frequenti le aule di giustizia. Pensiamo a taluni dei nostri pubblici ministeri che in nome della ragione di stato chiedono mille attenuanti per il “pentito” che ha sciolto nell’acido un ragazzino e contemporaneamente sembra non gli basti mai la galera che si infligge al Rom che ha rubato un televisore. O all’avocato che un giorno difende la parte civile e il giorno dopo difende un reo, e sostiene magari per fatti uguali, argomenti totalmente opposti. Stessa anomalia riguarda i magistrati requirenti che un giorno sono Pubblici Ministeri e il giorno dopo diventano Presidenti di Tribunale, passando dall’accusa al giudizio come niente fosse e commettendo spesso, proprio per la loro (de)formazione di base, gravissimi errori. Potremmo raccontare le abituali battute che si fanno fra addetti ai lavori prima di un processo, su un qualsiasi giudice (o su un qualsiasi P. M.), sulla sua ideologia politica e sulla sua appartenenza alle correnti della magistratura, sulle sue manie, sulle sue preferenze di tipo “Berlusconiane” e/o di tipo “Malgiogliane”, sulla sua smania di ottenere scorte e sulle sue idiosincrasie.

Per carità di Patria evitiamo di raccontare i giudizi dei giudici sui colleghi giudici, non appena hai un minimo di confidenza, le parole più gentili sono: ladro, corrotto, maniaco sessuale, massone o comunista. Per non parlare del cortocircuito manettaro che comprende pubblici ministeri, poliziotti e giornalisti, un mix davvero micidiale. Davanti a simili circostanze, spesso anche noi che purtroppo abbiamo una storia criminale non commendevole, talvolta ci siamo sentiti vicini alla figura del capro espiatorio.

Questo è più che mai vero oggi poiché al posto della “Giustizia senza aggettivi” abbiamo tanti sostenitori della “giustizia sostanziale”, che confina pericolosamente con la legge del taglione. All’inizio certe teorie vengono paludate da nobili quesiti filosofici, ma quando si arriva alla critica dell’avvocato che non dovrebbe difendere quel delinquente irrecuperabile, si percorre una via che alla fine porta a restringere le libertà civili. Cioè, la libertà di tutti. La sicurezza sociale è un bene indiscutibilmente, ma è proprio il peggior servizio che si può farle, illudersi di garantirla a spese della libertà di coscienza di un avvocato difensore. E noi invece crediamo che la soluzione sia nello spazio intermedio fra chi crede cinicamente che la giustizia non esista, non può essere conseguita e comunque non interessa a nessuno, e chi invece gelidamente e stupidamente, considera il reo, indegno della migliore difesa possibile.

In questo spazio intermedio c’è un impegno faticoso per cercare di ricostruire dialetticamente la verità e nell’ambito di questo impegno trovare le ragioni del proprio assistito. Poi, come dice un grande magistrato e scrittore, il dottor Gianrico Carofiglio, “ognuno è libero di chiamare il risultato di questo sforzo come preferisce. Anche Giustizia, naturalmente”.

Con grande stima /Al Preg.mo Avv. Giuseppe Garofalo / Augusto La Torre e Angelo Izzo

Carcere di Velletri, 13.09.2020